metodologie e alle credenze tradizionali, tralasciando il contenuto scientifico delle
ricerche e scoperte incentrate sulla conoscenza di clinici e psichiatri che in seguito alle
osservazioni dei pionieri dell’etnopsichiatria si sono interessati al fenomeno.
Il rischio Ł stato dunque quello di concentrare l’attenzione esclusivamente sull’aspetto
magico del disturbo, tra riti vudu e possessioni (Inghilleri, 2000), analizzando le
tecniche metodologiche di sciamani africani o asiatici che vengono spesso consultati
ancora prima di richiedere un parere medico (Trovato, 2000; Kua, 2004). In questo
lungo percorso, che aveva condotto anche ad una riflessione sulla stigmatizzazione che
molti popoli soffrono e allo studio delle politiche sanitarie attualmente vigenti nei
cinque continenti, nell’entusiasmo di approfondire una tematica cos ampia e recente, si
Ł scelto di analizzare il mondo psichico dell’altro (Mellina, 2008) attraverso le lenti di
clinici e psichiatri occidentali che da circa un secolo sviluppano teorie e pratiche sulla
base di osservazioni scientifiche. Dai viaggi di Kraepelin e dai rapporti epistolari tra
Freud e Frazer (Nathan, 1990) fino ad arrivare a Devereux e Nathan che traducono
nella pratica le riflessioni teoriche dei primi psichiatri ed etnologi. Nasce cos una lunga
tradizione di studi e ricerche volti ad approfondire la manifestazione di alcuni disturbi
culturali che non erano stati riscontrati in Occi dente (Coppo, 2001; Nepi, 2008) e che
si sono modificati nel tempo (Tseng, 2006), apprendendo l’importanza delle tecniche
tradizionali ed integrandole con quelle scientifiche (Zanatta, 2008). Si sono cos
sviluppate nuove scuole, come quella nathaniana, che valutano l’individuo nella sua
complessit analizzando non solo le sue caratterist iche personali, ma anche e
soprattutto il suo background culturale, in una lettura relativista che si contrappone a
quella universalista . Il dibattito sull’universal it Ł ancora aperto e probabilmente lo
rester sempre, cos come ogni clinico, psichiatra o psicologo che indagher il
funzionamento della psiche del paziente appartenente ad un’altra cultura legger il
disturbo sia in base alla propria formazione sia in base alle proprie credenze e attitudini.
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L’importante Ł considerare la persona nella sua individualit ed unicit , valutando la
sua diversit culturale, senza lasciarsi eccessivam ente coinvolgere dal fascino
dell’esotico (Mazzetti, 2008).
La ricerca si concentra dunque sul materiale teorico di stampo prevalentemente
nord americano, affiancato da articoli e riflessioni di matrice europea nonchØ da
scoperte e ricerche svolte da clinici dell’estremo Oriente con lo scopo, non solo di
mettere insieme le teorie e le pratiche cliniche attualmente utilizzate e formulate nel
passato, ma anche e soprattutto di comprendere quale sia l approccio piø adeguato che
mantiene intatta l appartenenza culturale e nello stesso tempo fornisce gli strumenti per
integrare la persona nella nuova societ .
Nell’attuale tessuto sociale sempre piø multietnico, in cui le distanze si sono ridotte
rapidamente e si Ł venuti a conoscenza di nuove culture piø da vicino, viene spontaneo
chiedersi come persone di altri paesi e nazionalit , che rispondono a criteri di vita
differenti da quelli occidentali, possano essere valutate dalla psichiatria attuale. Il
paziente straniero vive e sente il dolore, la sofferenza, il disagio nello stesso modo di un
paziente originario? E, soprattutto, si possono applicare le stesse metodologie di cura?
La terapia breve strategica, la psicanalisi, la terapia cognitivo-comportamentale, la
terapia sistemica familiare sono adeguate oppure Ł necessario sviluppare nuove teorie
che possano essere tradotte in una pratica specifica per il paziente straniero? A queste
domande molti psichiatri hanno gi fornito diverse risposte, fin dall inizio del XX
secolo e nonostante siano state elaborate numerose teorie i clinici oggi continuano a
riflettere sui possibili modi di curare il paziente straniero.
La parte iniziale della ricerca si articola sulla nascita e sullo sviluppo delle teorie
etnopsichiatriche attuali, dalla scuola francese fondatrice del modello clinico
etnopsichiatrico a quella spagnola, piø recente ma estremamente articolata, in una
descrizione accurata dei possibili approcci con il paziente straniero e la sua famiglia,
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presente o lontana che sia, sottolineando sempre l’importanza della relazione tra i due,
oltre che con il contesto sociale, in cui ovviamente Ł considerato anche il clinico e
l’intera equipe quando presente.
La seconda parte illustra, invece, le diverse metodologie applicate in alcune strutture
romane dove il clinico, che non sempre possiede tutti gli strumenti per intervenire in
maniera specifica e completa, applica una metodologia d’intervento costruita sulla base
sia della propria formazione professionale sia della propria esperienza, nonchØ
chiaramente sulla storia, sul sintomo e sull’appartenenza culturale del paziente. Non
esiste infatti un approccio unico, perfettamente aderente, ad esempio, alla scuola
francese che ha dato vita per prima ad un modello clinico ritagliato su misura per il
paziente straniero, ma ogni struttura ha sviluppato nel corso del tempo un sistema
proprio, che fosse il piø coerente possibile con le teorie di partenza di matrice
occidentale introducendo elementi nuovi che, come l’etnopsichiatria stabilisce,
riprendono l’aspetto culturale del paziente, in tutte le sue sfaccettature, dall’aspetto
mistico, magico, tradizionale, a quello piø scientifico, religioso e sociale.
Infine, vengono riportate quattro storie che narrano l’incontro tra paziente e
clinico, dove si vede chiaramente come lo psicologo, o l’equipe, sia messo in difficolt
a volte dalla barriera linguistica a volte dal modo che il paziente ha di concepire se
stesso e le proprie difficolt , come determinate da una forza divina o magica.
Inizialmente sembra inevitabile per il clinico una chiave di lettura tipicamente
occidentale, purtroppo con scarsi risultati, ma successivamente, approfondendo le
dinamiche interne del paziente con l’intervento del mediatore interculturale che
permette di gettare un ponte tra le due realt , si inizia a comprendere meglio il
significato profondo della sofferenza psicologica, interpretandola secondo la visione
del paziente ed arrivando insieme ad una elaborazione del disagio interiore.
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1. Definizione e nascita dell’etnopsichiatria
1.1. I fondamenti storici dell’etnopsichiatria
L’etnopsichiatria, termine composto di origine greca (etnos: razza, stirpe, popolo;
psiche: mente, spirito; iatreia: l’atto di curare) definisce la capacit di prendersi cura
della salute mentale di ogni individuo all’interno delle diverse culture e in special modo
delle nuove minoranze socio-culturali che esprimono il sintomo delle difficolt
oggettive scaturenti dall’impatto con culture e luoghi diversi (Istituto Aaron T. Beck,
2008), ma per dare una definizione forse piø attuale e accurata, Beneduce1 (2008) parla
di una psichiatria in cui la dimensione culturale non deve occultare altre dimensioni,
ad esempio quelle storiche e politiche spesso alla radice di molte sofferenze
individuali . Ma come nasce l’etnopsichiatria?
Secondo Coppo (2001), fu Emil Kraepelin il primo a parlare di etnopsichiatria, da
lui definita psichiatria comparata, all’inizio del ’900 durante la sua permanenza a
Giava, suo primo viaggio sull’isola indonesiana nel 1904, data alla quale fa risalire
esattamente la nascita dell’etnopsichiatria (Nepi, 2008). Il nuovo approccio
psicoanalitico si sviluppa dalla scoperta di disturbi mentali che in area occidentale non
1 Etnopsichiatra professore associato di Antropologia Culturale presso la Facolt di Psicologia,
Universit di Torino. Ha svolto ricerche in Mali, E ritrea, Mozambico, Camerun, Senegal, Congo,
Cuba. E’ inoltre Presidente e Responsabile Scientifico dell’Associazione interdisciplinare Frantz
Fanon di Torino. Membro della Societ Italiana di A ntropologia Medica (SIAM). Membro del Centro
Interuniversitario Ricerche sullo Sciamanismo Euroasiatico (CIRSE). Membro del comitato
scientifico della Fondazione Ariodante Fabretti .
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erano stati ancora riscontrati e questo faceva supporre una stretta relazione tra disturbo
e cultura. La stessa osservazione era stata fatta da Coppo (1994) durante il suo viaggio
a Mali, notando come certe crisi violente fossero molto frequenti in Africa, ma rare in
Europa. Successivamente i suoi allievi crearono due ulteriori sottocategorie, la
psichiatria transculturale e l’etnopsichiatria.
Nel 1957 Inghilleri2 rintraccia la data in cui Wittkover introdusse il termine di
psichiatria transculturale, distinguendola dalla psichiatria culturale e dalla cross-
cultural psychiatry. Altri autori sostengono invece che sia stato George Devereux3,
intorno agli anni ’40, a fondarne l’impalcatura strutturale durante i suoi viaggi in
Vietnam con i Sedang Moi, nella giungla indocinese e negli Stati Uniti con gli indiani
Mohave (Mellina, 2008) prendendo in prestito il termine etnopsichiatria da uno
psichiatra di Haiti, Louis Mars (Zanatta, 2008). Anche Devereux si interessa alla nuova
ottica psichiatrica, ma aggiunge ad essa un sapere tutto suo, in qualit di etnologo e
psicanalista allo stesso tempo, cercando non solo di dare un significato al nuovo
disturbo mentale del paziente non-occidentale, ma soprattutto di scoprire un nuovo
saper fare, attingendo dalle capacit dei popoli tr adizionali, nonostante avesse dello
sciamano un’opinione svalutante, ritenendolo individuo stabilmente disturbato a livello
psichico (Gambugiati, 2008). E’ in questo clima che la scuola francese muove i suoi
primi passi. In realt sembra piø corretto attribui re a Devereux la nascita
dell’etnopsicanalisi in quanto fu il primo ad applicare le teorie di Freud allo studio delle
popolazioni non-occidentali apprese in Totem e tab ø . Non si mostr mai
completamente aderente all’orientamento psicoanalitico, ma volle comunque studiare,
seguendo la prospettiva psicanalitica, sia come il disturbo mentale poteva essere
2 Professore ordinario di Psicologia Sociale, Direttore del Dipartimento di Geografia e Scienze Umane
dell’Ambiente presso la Facolt di Lettere e Filosofia di Milano.
3 Devereux fu fisico, psicanalista ed etnologo. Il suo vero nome era Gyorgy Dobo, di origine
ungherese. Scapp in Francia dopo il suicidio del f ratello e a Parigi divenne parte integrante della
societ intellettuale. Fu sempre alla ricerca di un proprio posto nel mondo e della sua identit ,
convinto che per sopravvivere bisognasse negarla.
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influenzato dalla cultura, sia come la cultura poteva comprendere e rappresentare il
disturbo mentale. Era infatti convinto che la psicoanalisi fosse universale e che si
potesse applicare a tutte le culture (Zanatta, 2008).
In linea con le nuove ricerche e la nascita di ferventi teorie si sviluppa ora il
motore applicativo. Collomb, a capo di un’equipe costituita da medici, psicologi,
antropologi ed etnologi, presso l’ospedale di Fann a Dakar, Senegal, entr in contatto
con le grandi figure degli iniziati locali (Coppo, 2001) e comprese le tecniche
terapeutiche, meglio intese come pratiche o rituali magici, proprie della cultura
africana, introducendole nel suo nuovo dispositivo di cura. Proprio all’ombra di un
albero, infatti, come si usa nella pratica medica africana, si osserva il paziente in
presenza di parenti, compaesani, tecnici vari e si discute dei suoi sintomi. La sua
tecnica clinica che mescolava elementi culturali alla psichiatria classica, adesso veniva
utilizzata in villaggi terapeutici rurali organizzati proprio da Collomb, con la
supervisione di medici ed infermieri, accanto alla figura dello sciamano tradizionale.
Successivamente Tobie Nathan, discepolo di Devereux, trasferisce sui suoi pazienti le
tecniche terapeutiche sviluppatesi con Collomb (Coppo, 2001), introducendo una
metodologia rivoluzionaria, la pratica clinica, in cui si incontrano diversi strumenti e
saperi, dettati dalla diversit delle culture d’appartenenza dei co-terapeuti di cui Nathan
si circonda nel suo Centre Devereux nell’Universit di Parigi VIII da lui realizzato. E’ il
setting ad essere rivoluzionato con la presenza di simboli, oggetti e comportamenti o
rituali, come quello del the, che portano un pezzo della cultura del paziente nel suo
nuovo contesto ospitante. Viene ricreata una parte del suo mondo interiore, quel mondo
che rappresenta il suo Io originario, le sue radici, la sua identit (Inghilleri, 2000).
In Inghilterra l’etnopsichiatria si svilupp tardivamente poichØ la pratica
psicanalitica era riservata ad un gruppo ristretto della societ e solo successivamente,
quando ci si accorse del numero elevato di diverse minoranze etniche, si inizi ad
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ipotizzare un trattamento etnopsichiatrico anche per loro. W.H.R. Rivers, antropologo e
psichiatra, il cui orientamento si rifaceva alle teorie psicanalitiche, introdusse la terapia
interculturale, un nuovo approccio metodologico che integrava le conoscenze e le
tecniche terapeutiche delle diverse culture. Nasce cos una forma di psicoterapia
dinamica che non ha come fondamento un’unica teoria, ma al contrario si poggia su
orientamenti di vario genere: analitici, sociologici, medici. La regola fondamentale Ł
capire e ricordare che il paziente pu avere una co ncezione diversa di sØ, del disturbo,
del corpo o del dolore, rispettando le sue interpretazioni e le sue credenze (Zanatta,
2008).
Verso la fine degli anni ’90, in Italia, appare sulla scena anche Piero Coppo,
medico e psichiatra, che diresse a Bandiagara, in Mali, il Centro di Medicina
Tradizionale. Anche in questa sede interpreti, medici, psichiatri, antropologi, italiani e
malesi si confrontano tra loro (Coppo, 1994).
La chiave di volta di questa nuova sfida iniziata con Kraepelin sembra situarsi nella
cogestione di diversi saperi e strumenti, una mescolanza di elementi sacri, naturali,
tradizionali e scientifici che sembrano riuscire a curare con successo il paziente dai suoi
disturbi. Le correnti di pensiero che si sviluppano riguardo alla cura e all’analisi del
disturbo mentale nelle diverse culture in alcuni casi mantengono le tecniche curative
tradizionali, in altre impongono le teorie occidentali e in altri casi ancora conciliano
entrambi gli aspetti. E’ stato questo nuovo impatto con l’altro a farci porre nuovi quesiti
sulle metodologie di cura occidentali e sul significato di condotte incomprensibili
(Zanatta, 2008).
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1.2. La scuola francese fondatrice del nuovo dispositivo di cura
Il concetto di disturbo mentale, che nelle diverse culture assume connotazioni
specifiche e proprie radicate nella storia e nelle tradizioni delle varie civilt , riflette in
sØ un sistema di cura altrettanto peculiare e distintivo.
Nel panorama occidentale il trattamento del disturbo viene strutturato seguendo modelli
e scuole fondate sulla base di principi sviluppati attraverso osservazioni, deduzioni,
riflessioni, utilizzo di strumentazioni e studi scientifici, discostandosi ampiamente dalle
metodologie di cura del panorama orientale, laddove la cura Ł spesso affidata ai
guaritori tradizionali, agli sciamani, accettando per nel contempo modelli psicosociali
e biomedici di tipo scientifico. Se, infatti, il guaritore tradizionale non riesce nel suo
intento di esorcizzare lo spirito posseduto nel c orpo del paziente, la famiglia di
quest’ultimo si rivolger ad uno psichiatra (Kua, 2004; Okasha, 2004) tranne in alcune
culture africane in cui la medicina e la psicologia occidentali non sono facilmente
accettate e si preferisce ricorrere esclusivamente ad erbe e cerimonie religiose4
(Trovato, 2000).
La complementarit delle due metodologie di cura Ł stata sempre una prerogativa delle
societ non-occidentali, lungi dal paradigma della divisione ippocratica (Pandolfi,
1990). In quest’ambito emerge l’aspetto mistico del’uomo che lotta contro una
potenziale presenza malvagia, ingenerata in lui, in contrapposizione alle teorie fondate
invece su concetti non solo scientifici, ma che riguardano soprattutto la Psiche
dell’uomo come centro del disturbo, dunque l’uomo stesso come portatore del
malessere, studiato e osservato ad un livello strettamente contestuale, in interazione con
l’altro.
4 In Nigeria si stima che solo il 20% circa della popolazione consulti uno psichiatra dopo essersi
sottoposto alle cure tradizionali dello sciamano.
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Il contrasto che emerge dal confronto fra i diversi orientamenti stimola un’attenta
analisi che ha l’obbiettivo di condurre non soltanto ad una profonda conoscenza dei
metodi di cura e trattamento, ma anche di pensare un nuovo modello di cura fondato
sull’intreccio dei diversi aspetti che possa essere utilizzato in ambito etnopsichiatrico.
Da questa prospettiva prende l’avvio il pensiero di Tobie Nathan, psicologo francese,
fondatore della scuola etnopsichiatrica di Parigi che basa la propria teoria sull’incontro
tra le culture alla scoperta di un metodo di cura che non deprivi l’uomo delle proprie
radici culturali, ma che al contrario contestualizzi il disturbo considerando il
background presente e passato (Coppo, 2001).
Nathan considera la figura del guaritore tradizionale la naturale alternativa alla figura
dello psicoterapeuta occidentale, un collega a tutti gli effetti che non deve essere
demonizzato o considerato psichicamente instabile come invece sosteneva Deveraux
(Gambugiati, 2008).
Il suo contributo apporta un cambiamento radicale in psichiatria poichØ applica nella
psicoterapia le teorie dell’etnologo Georges Devereux (A. T. Beck, 2008), cogliendo
nelle culture altre il significato profondo della simbologia, delle tradizioni e
integrandole con le teorie occidentali, disponendo cos di un nuovo materiale che d
vita a nuove strategie di cura.
Mellina, psichiatra clinico contemporaneo, si interroga anch’esso sul concetto di
alterit , proiettato verso un’ottica nuova dell’altro, quell’altro che, nella sua diversit , ci
obbliga a rivedere l’impianto teorico e la pratica clinica della psichiatria classica, per
poterlo comprendere e curare. Come Nathan afferma, l’altro-da-noi dev’essere
tradotto e, prosegue Mellina, dobbiamo adesso imparare a tradurlo (Mellina, 2008).
Questo nuovo profilo dell’alterit rappresenta il frutto di una trasformazione apportata
dalla migrazione, ci troviamo ora di fronte ad una nuova alterit definita da Mellina
sconosciuta che per pu assumere una forma e una consistenza piø familiare se
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