6 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La maschera umana e letteraria di Emanuel Carnevali 
 
 
Emanuel Carnevali è un poeta che ebbe una parabola letteraria ed esistenziale singolare. Nacque a 
Firenze il 4 dicembre 1897, da una coppia di genitori già separati. A 16 anni partì da emigrante alla 
volta dell‟America e qui apprese con estrema facilità la nuova lingua. A New York prima e a 
Chicago poi, entrò in contatto con i giornali e il mondo culturale americano, diventando amico e 
confidente di importanti poeti e direttori di riviste. Carnevali, affetto da gravi malattie psichiche e 
fisiche, dovette sempre fare fronte a questi disturbi, portando su di sé la matrice della malattia come 
cifra stilistica precipua. Non ebbe una vita lunga, poiché morì a soli 45 anni, a causa di 
soffocamento, presso la clinica di malattie nervose e mentali dell‟ospedale di Bologna. La figura di 
Emanuel Carnevali merita di essere studiata proprio per il suo carattere di caso sui generis. Per 
prima cosa egli scrisse in una lingua non sua, dimostrando una capacità di significazioni e una 
perizia di uso, non paragonabile con quelle degli autori suoi contemporanei. Poi bisogna ricordare 
come, vivo, venne pubblicata un‟unica opera a suo nome, Tales of a hurried man, edita nel 1925 a 
Parigi per iniziativa del suo amico Robert McAlmon. Questo libro, che raccoglieva articoli, poesie e 
racconti, non varcò mai la frontiera, poiché fu fermato dalle autorità per oscenità. Egli non vide mai 
uscire un libro di sua iniziativa, ma riuscì solamente a pubblicare per le riviste americane qualche 
poesia, taluni articoli e poche critiche letterarie. Non conseguì mai una larga fama, che non uscisse 
fuori dalla ristretta cerchia dei poeti e giornalisti suoi conoscenti. In Italia Carnevali tornò 
solamente all‟indomani dell‟aggravarsi delle sue condizioni di salute, abbandonato dal padre al suo 
destino e mantenuto dai lasciti in denaro dei suoi amici. Carnevali insomma apparirebbe a prima 
vista un attore di secondo piano della letteratura, un dimenticato e dimenticabile autore. Invece egli 
possiede una propria autonoma rilevanza all‟interno della letteratura italiana, proprio per la 
caratteristica di caso «altro». La parabola letteraria di Emanuel Carnevali ci permette di analizzare 
un autore che fu a cavallo di due tradizioni letterarie molto distanti fra di loro, quella 
anglosassone/americana e quella italiana, in una costante ricerca ora di sintesi ora di superamento 
dell‟una o dell‟altra. Carnevali è un poeta sfuggente e ambiguo; così allo stesso modo egli si 
descrive nel componimento Schizzo di me stesso: 
 
 
Posso sempre tornare alla parte di me che mi fa da rifugio 
e stare lì tranquillo, come una noce nel guscio, 
senza né felicità né infelicità. 
Vado, solitario come una roccia che si erga 
nuda e sola in un campo dove l‟erba gioca. 
Vado, solitario come un‟orchidea in un bosco 
e i miei passi, che nessuno ostacola, 
suonano  grati al mio orecchio.
7 
Sono una nera caverna, dove una candela 
getta grottesche ombre sulle pareti. 
 
Sono una stanza chiusa in cui si odono 
deboli, lugubri passi. 
Vado,solitario come un cavaliere che ha scordato 
la sua dama. 
Brandisco la gentilezza con arroganza 
e l‟arroganza con gentilezza. 
Sono così scopertamente vanitoso 
che il mio indirizzo su una lettera 
mi fa piacere. 
 
Sono così scopertamente egoista che 
quando qualcuno moriva all‟ospedale 
pensavo al disagio che la sua morte stava per darmi  
e ne ero furioso. 
 
 
 
Sono così ferocemente egoista 
che, mentre un mio amico moriva, 
pensai subito alle cinque lire che gli dovevo 
e non gli avrei restituito più
1
. 
 
Nel 1978 le edizioni Adelphi pubblicano Il Primo Dio, una raccolta di prose e poesie di Emanuel 
Carnevali inedite in Italia. All‟indomani dell‟uscita di tale volume la critica italiana, con articoli a 
firma di Giulio Nascimbeni, Dario Bellezza o Paolo Ruffilli
2
, mette subito  in evidenza come la 
poetica di Carnevali abbia dei tratti comuni con tutta una serie di poeti etichettati, con poco ingegno 
e ancor minor sforzo intellettuale, generalmente maudit: Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud e 
Dino Campana. Ora noi sappiamo come Emanuel Carnevali nutrisse la più profonda e genuina delle 
ammirazioni per i due colossi francesi; una ammirazione e una passione testimoniata anche da 
alcuni testi critici che l‟italiano scrisse. Invece non si hanno notizie  riguardo al fatto che Carnevali 
conoscesse l‟opera e la persona di Dino Campana (pur poetando negli stessi anni). Un celebre 
studioso come Gabriel Cacho Millet, con il quale posso dire di aver instaurato un gustoso rapporto 
epistolare, nell‟opera Voglio disturbare l’America, uscita a soli due anni di distanza dalla  già citata 
edizione Adelphi, ravvisava come, dopo un breve ed iniziale momento di euforia da parte della 
critica nostrana, «la leggenda del poeta maudit avesse preso il sopravvento sulla poesia e sulla 
persona»
3
 di Carnevali. Se la somiglianza con Campana pare davvero stiracchiata e debole, la 
somiglianza con Rimbaud è falsata dagli scritti critici che Carnevali produsse intorno all‟autore. 
Trovo che se si debba ricercare una somiglianza la si possa trovare maggiormente con Baudelaire, 
ma non tanto con il poeta delle Fleurs du Mal o con l‟allucinato dei Paradis artificiels, ma con 
quello più tardo, e precisamente con il Baudelaire di Mon coeur mis à nu, cioè, sostanzialmente, con 
l‟autore di un «diario intimo». Infatti l‟elemento distintivo del libro Il Primo Dio è quello di essere 
un diario abbozzato, una (auto)biografia lirica e poetica fin che si vuole, ma pur sempre un registro 
della propria vita. Bisogna anche rintracciare segnali più evidenti di un debito con Charles 
Baudelaire. Significativo è il fatto che nel capitolo proemiale del Primo Dio Carnevali, 
sottolineando la condizione di eterna sofferente della madre, si rammarica per aver avuto la colpa, 
nascendo, di arrecarle tanti dolori :  
                                                             
1
 Emanuel Carnevali, Il Primo Dio, a cura di Maria Pia Carnevali, Milano, Adelphi, 1994, p. 293. 
2
 Giulio Nascimbeni, Il poeta maledetto moriva ogni giorno, in «Corriere della Sera», 4 ottobre 1978, p. 3; Dario 
Bellezza, Emanuel Carnevali poeta maledetto, in «Paese Sera», 15 novembre 1978, p. 17; Paolo Ruffilli, È uno 
scrittore maledetto, in «il Resto del Carlino», 18 settembre 1978, p. 7.  
3
 Emanuel Carnevali, Voglio disturbare l’America,  a cura di Gabriel Cacho Milet, Firenze-Milano, La casa Usher, 
1980, p. 11.
8 
Questo povero essere, dalla grossa testa e le gracili spalle, è costato a sua madre molta sofferenza e amarezza. 
Tutto questo si sarebbe potuto evitare se fossi morto. E che liberazione pure sarebbe stata.
4
  
 
Si può cogliere quindi una vicinanza di intenti con la celeberrima poesia (sempre proemiale) delle 
Fleurs du mal, cioè Bénédiction, nella quale il poeta Baudelaire, impersonando la madre, si danna 
per aver dato alla luce (o per meglio dire alle tenebre) il poeta:  
Ah! que n‟ai-je mis bas tout un noeud de vipère, 
Plutôt que de nourrir cette dérision! 
 
Maudite soit la nuit aux plaisiris éphémères 
Où mon ventre a conçu mon expiation
5
! 
 
Quello di Carnevali è dunque un  raccontare la propria vita non in modo analitico ma in modo 
poetico, senza aggiungere o togliere nulla alla propria figura, nessun intento alla maniera del  
visconte François-René de Chateaubriand e dei suoi colossali e tremendamente affascinanti 
Mémoires d'outre-tombe. Il genere del diario lirico è un genere poco battuto dalla letteratura 
italiana, mentre è basilare, soprattutto verso l‟ultimo quarto del XIX secolo nella letteratura russa e 
ancora prima nella letteratura francese. Quindi se dovessi trovare una qualche possibile somiglianza 
con un autore italiano, io la arrogherei allo scapigliato Carlo Dossi e al suo «smisurato accumulo» 
delle  Note Azzurre. Carlo Dossi è stato uno dei pochissimi autori italiani a coltivare la difficile arte 
della “Confessione”, così distante dal magmatico ma apollineo Zibaldone dei miei pensieri di 
Leopardi, quanto di più distante ci possa essere da un diario e quanto di più vicino «al dipanarsi del 
pensiero di un Genio messa su carta». Ambedue gli autori, Carnevali e Dossi, con l‟abisso di 
diversità, ora di tempo storico ora di più genuina realizzazione poetica, sono due uomini che si 
confessano davanti al lettore e che srotolano nelle sterminate pagine delle Note Azzurre o negli 
urticanti capitoli del Primo Dio, la parabola discendente di un uomo e di un poeta. 
 
 
Take a walk on a wild side 
La figura materna, quella della zia e infine il padre sono figure «chiave»  nell‟evoluzione, artistica e 
non, di Carnevali. Sua madre, Matilde Piano lo dà alla luce, il 4  dicembre 1897, quando già si era 
separata dal marito Tullio Carnevali, di professione ragioniere. Carnevali, quindi, cresce in una 
famiglia atipica formata da sua madre e sua zia (assieme ai due figli di quest‟ultima). Il padre, 
almeno fino al 1914 inoltrato, è una figura distante e distaccata, visto come il principale 
responsabile del fallimento del  
matrimonio della madre. Per sua madre prova un amore immenso, anche se non è un figlio 
irreprensibile, e quando muore, a causa di un tetano mal diagnosticato, ne contempla la spoglia 
terrena con grande tenerezza, soffermandosi sul corpo sfinito da un “eterno” dolore, sui particolari 
del viso affaticato e sulle labbra cariche di stordente fascino. Sua madre è la dimostrazione della 
tragicità della vita: 
Madre, madre dolorosa, pensando a te dovrei piangere, ma il mio cuore è freddo e come una pietra. […] In 
qualche luogo so che stai ancora soffrendo. Tu pensi alla bella giovinezza che hai sprecato vivendo accanto ad 
                                                             
4
 Emanuel Carnevali, Il bianco inizio e altre prose memoriali, a cura di Francesco Cappellini, Pistoia, Via del Vento, 
2010, p. 3. 
5
 Charles Baudelaire, Opere, Milano, Mondadori, 2009, p. 26.
9 
un  bruto. Io penso alla tua bocca senza vita. […] Non so se ho mai visto una bocca più bella di quella di mia 
madre. Era sinuosa, delle labbra piene, e sensuali, larga ma bella, e anche la grande pienezza della fronte 
ricordo bene
6
. 
Anche per la zia il discorso è simile, in quanto Carnevali si immedesima con la sorella della madre 
e le sue  delusioni d‟amore cocenti e brucianti da lei sperimentante; non può usare nessun tipo di 
arma di seduzione poiché il fato non le ha donato un aspetto gradevole. La madre 
iconograficamente è la custode della casa, ma quella di Carnevali è soprattutto una donna malata, 
forse di mente, sicuramente di corpo e per curarsi deve assumere grosse dosi di morfina che la 
lasciano in uno stato confusionale, paralizzata a letto e in perenne agitazione. Il suo umore è 
scostante, i gesti di tenerezza sono seguiti da furiosi scatti d‟ira; il germe del «mal di vivere»,  di un 
particolare tipo di follia dello scrittore e poeta, è già insito nella figura materna, come un segno 
ancestrale. Le pagine del capitolo Mia Madre del Primo Dio sono quanto mai eloquenti: 
La morfina teneva mia madre costantemente addormentata o almeno per tre quarti della giornata. Ma non era 
un sonno felice. […] La tua vita fu una lunga agonia, e il premio che guadagnasti fu la morte. […] Madre, oh 
se potessi premere la mia guancia contro la tua! Eppure mi picchiavi fino a far uscire il sangue dal naso e dalla 
bocca, mia piccola stella, povera e ammalata madre mia, mi picchiavi a causa del veleno che ti scorreva nelle 
vene. Non ho nulla da perdonarti
7
. 
Non tardano nel Primo Dio i ringraziamenti a Matilde Piano; il poeta consegna un ritratto dolce e 
intimo, lontano da ogni tipo di idealizzazione forzata e trita, ma piuttosto una sorta di icona della 
sofferenza e della malattia. La figura materna non è una figura titanica, ma,  piuttosto, un‟entità 
minuscola e fragile, una “monade miracolosa” che comunica con le altre monadi (il figlio, la sorella 
ma non il padre, “monade cancerosa”): 
Mater dolorosa, tu hai sofferto abbastanza per guadagnarti non uno, ma sei paradisi. Madre, se la terra si 
potesse spremere come un limone, ne verrebbe fuori dolore e dolore e dolore. È da tanto tempo che la terra è 
così avara con i suo figli. Stringe al petto solo i morti, gli altri sono costretti a camminare, portando in un 
fardello tutte le loro pene, la loro rabbia e le loro inutili vite. Mater dolorosa, tu appartieni al circolo dei 
sofferenti, grande quanto il mondo
8
. 
Se il padre ha simboleggiato lo scontro, la divergenza, l‟opposizione forzata e quasi biologica, la 
madre impersona la comunanza, la riconciliazione, la comunione di «amorosi sensi». Ugualmente la 
zia è una figura enigmatica e schizofrenica. È una donna brutta, la quale si scaglia improvvisamente 
contro i figli, urlando in maniera sguaiata, li picchia con veemenza, tanto da far allarmare i vicini di 
casa. Si innamora a tarda età di un uomo molto più giovane di lei e più che amarlo con passione, lo 
cura, lo alleva, come un novello figliuolo. Quando lui la tradisce (a più riprese) la donna è sempre 
pronta a perdonarlo ancora e ancora una volta. Ecco qui un altro dato importante e atavico: 
Carnevali come la zia è affamato d‟amore, ha bisogno di essere compreso, capito, amato. Per avere i 
grammi d‟amore necessari a vivere, o meglio, a sopravvivere, le due figure sono disposte a passare 
sopra tutto, a commettere grandi gesti di generosità come ad inabissarsi in gesti scurrili e malvagi. 
La zia come la madre impersona la fallacia del sacramento del matrimonio (come più tardi si 
rivelerà del resto fallimentare anche l‟esperienza matrimoniale dello stesso poeta); effige di  come 
la borghesia e la società in genere spinga gli individui a fare questo passo non tanto portando 
innanzi le ragioni dei sentimenti, bensì le mere ragioni economiche: il matrimonio non è più né 
meno di un atto finanziario, è un investimento; l‟unione di due anime è solo l‟unione di due 
patrimoni per poter vivere, la somma di due sofferenze. Invece il padre simboleggia il polo negativo 
della famiglia, il piccolo borghesotto ottuso e severo, mai prodigo di un giudizio generoso per il 
figlio, di una carezza, di un gesto espressivo. Un uomo avido insomma, avido e di danari e di 
sentimenti. Carnevali lo dileggia, si prende gioco di lui, gli scrive lettere di fuoco e si immagina 
                                                             
6
 Emanuel Carnevali, Il Primo Dio, cit., pp. 20-21. 
7
 Emanuel Carnevali, Il bianco inizio e altre prose memoriali, cit., pp. 5-6. 
8
 Emanuel Carnevali, Il Primo Dio, cit., p. .22.
10 
come debba essere ridicolo, incapace e buffo, nell‟atto supremo e quanto mai intimo della 
copulazione. Egli distrugge ogni tipo di eredità paterna e anzi si cruccia di essere stato generato da 
un personaggio di tal guisa e  si duole per i propri tratti somatici vicini a quelli paterni. La 
descrizione che il poeta ci lascia del genitore è molto corrosiva: 
Nella sua mente o nel suo cuore non c‟è mai stato e non c‟è nessun tralcio verde che getti i suoi riccioli al 
vento. A pranzo non si scambiava mai una parola, a meno che mio padre non litigasse con mio fratello. Oh, 
quegli orribili pranzi tetri, quel malumore nudo, gli interminabili bolliti, le idiozie che diceva mio padre! (è 
così spaventoso che finisce con l‟essere ridicolo. È così tirannico che non spaventa più nessuno)
9
. 
La sorellastra di Emanuel (infatti il padre si risposerà nel 1909), Maria Pia, curatrice e traduttrice 
dell‟edizione Adelphi del Primo Dio, ha sempre tentato di mettere ordine e di smussare il granitico 
e denigrante giudizio che il poeta esprime nei confronti del padre. Se ella ammette la non 
conciliabilità dei due caratteri, tenta di recuperare una dimensione della memoria più vera e genuina 
(ovviamente a suo giudizio), così da poter riscattare la figura paterna. Carnevali è spietato con lui, 
come il padre lo fu nei confronti di Emanuel. Nulla è taciuto. Prima il dileggio virile, il dileggio del 
corpo e della forza fisica e mentale del genitore (ed ecco qui tematiche simili a quelle che 
troveremo nella  straordinaria Lettera al padre di Franz Kafka, in cui egli si compiace di essere 
debole  e malaticcio così da sconfessare la tradizione famigliare dei Kafka, che quasi 
“etimologicamente” erano sinonimo di forza) poi la registrazione di comportamenti maleducati, 
come il rutto a tavola e la rudimentale toilette delle orecchie con i tovaglioli. Il padre, che Carnevali 
ci consegna, è un piccolo borghese, con tutti  i difetti di questa classe: è calcolatore e cinico, tanto a-
poetico da diventare anti-poetico: 
Piegava l‟angolo del tovagliolo, ne faceva una specie di imbuto appuntito, e poi, a tavola ci si puliva le 
orecchie; e ruttava ignominiosamente.
10
 
Si deve ricordare che la vampa che permette alla breve fiamma di Carnevali di ardere in America è 
causata dai dissapori con il padre. Infatti soltanto il padre è responsabile della fuga transcontinentale 
del poeta. Per tutta la vita Carnevali assocerà alla figura paterna tutti  i difetti e le obsolescenze 
della vecchia Europa, in particolare dell‟Italia. Come quei gran signori che passeggiano per i 
boulevard parigini di Baudelaire, suo padre personifica tutti i bassi e meschini interessi del ceto 
borghese, l‟immobilismo, il polveroso mondo della cultura accademica “ufficiale” (dominata dagli 
amati/odiati Pascoli e d‟Annunzio) e l‟autorità che non è in grado di ordinare ed è tanto più ridicola 
quanto più si sforza di esercitarla. Il linguaggio che Carnevali usa nelle missive al padre  è basso, 
maleducato e triviale. Egli non  ha particolari scrupoli nel chiedere, anzi esigere, i soldi necessari 
per la sua sussistenza. E in un paradossale scambio di battute al vetriolo, il padre è quasi sempre 
pronto a “sganciare” la somma pattuita (spesso leggermente inferiore, in realtà) così da non avere a 
che fare con questo dannato figlio sbagliato e un poco tocco. Il padre mandando i soldi al figlio 
“rinnegato”, si libera di ogni possibile responsabilità e con un gesto molto borghese e per bene, con 
una alzata di spalle, derubrica una pratica come il più spietato e impeccabile dei ragionieri. Emanuel 
Carnevali ci confessa chiaramente questi sentimenti: 
Quando rividi mio padre, disse che era d‟accordo che andassi in America poiché, e queste furono le sue esatte 
parole, «a nemico che fugge ponti d‟oro». Chiaro. Ero io il nemico di quella grossa bestia
11
. 
La «disturbatrice cometa» delle lettere americane non incarna la tipologia classica dell‟immigrato 
italiano in America, sottolineando una volta di più il carattere di caso unico della vicenda di 
Carnevali. La storia di Carnevali è soprattutto quella di una continua ri-scoperta della sua 
produzione che viene sistematicamente dimenticata e poi ripresa. Dopo un momento molto intenso 
                                                             
9
 Emanuel Carnevali, Il Primo Dio, cit., pp. 34-35. 
10
 Emanuel Carnevali, Il Primo Dio, cit., p. 35. 
11
 Emanuel Carnevali, Voglio disturbare l’America, cit., p. 57.
11 
di interesse da parte della critica nostrana, Carnevali viene a lungo rimosso, fino a quando non lo 
“riscopre”, Gabriel Cacho Millet che cura, tra 1980 e il 1994, una tetralogia di studi ed opere sul 
poeta: Voglio disturbare l’America: lettere a Benedetto Croce e Giovanni Papini (1980), Diario 
bazzanese e altre pagine (1994) , Saggi e recensioni (1994) e infine Racconti di un uomo che ha 
fretta (2004). In questo ultimo lavoro si possono leggere, assieme ai tre racconti Melania Piano, 
Colomba e Casa dolce casa! (pubblicati originariamente con i titoli di Tale one, Tale two e Tale 
three nella «Little Review» di Margaret Anderson, tra l‟ottobre e l‟aprile 1920), anche alcune 
struggenti lettere al padre Tullio Carnevali. Queste ci sottolineano il fatto che il ritratto paterno che 
Carnevali ci dona non fu una astrazione poetica o l‟esasperazione di determinati tratti caratteristici 
di una mente impazzita (come sostiene la sorellastra Maria Pia nella prefazione al volume Adelphi) 
ma una prosa realmente autobiografica. Carnevali dedica un intero capitolo (il settimo) del Primo 
Dio alla figura paterna, donandoci un personaggio bieco e meschino. Il linguaggio è caustico, 
espressionista, con rimandi a certi personaggi tipici delle fiabe, come il gigante cattivo o l‟orco 
spregevole; il tutto è come “innaffiato” da una forte caratterizzazione grottesca e da una latente 
tendenza all‟umorismo e alla dissacrazione, corporale e morale. Più che una tragedia tout court è 
una tragicommedia. La descrizione è corrosiva, va a ledere tutte le plausibili vocazione autoritarie 
del padre. Tullio Carnevali è un homo impoeticus, un uomo nero di bile (ecco l‟uso simbolico del 
colore nero a sottolineare la negatività totale del personaggio). Un dissacrante ritratto di un uomo 
impotente, incapace a poetare e incapace di amare. Carnevali, sbarcato appena sedicenne in 
America, ci appare come un ragazzo profondamente solo, che nessuno vuole tenere con sé. A soli 
16 anni la sua vita è già dissecata: sono scomparsi i suoi affetti più profondi (la zia e la madre), la 
sua carriera scolastica è ormai definitivamente rovinata e compromessa (è stato infatti sospettato di 
«rapporti ambigui» con un suo compagno di classe e quindi espulso dal prestigioso collegio 
veneziano Marco Foscarini) e l‟unica figura alla quale si potrebbe aggrappare, cioè il padre, è un 
«uomo nero», che non lo ama, non lo rispetta e non lo vuole tenere con sé. Il peso di una 
responsabilità immane si abbatte sulle gracili e già macilente spalle del giovane, che si sente 
schiacciato davanti a questo immane peso. L‟unico modo che ha per reagire è quello di imbracciare 
la sua penna e di scrivere in una lingua straniera i pensieri che ne affollano la testa : 
Talvolta le poesie consumavano i miei pensieri, muovendosi come un esercito d‟insetti nel cervello, o 
divorandomi come se fossero vermi. Ma più spesso ero afflitto e disperato. Che senso ha tutto questo 
preoccuparsi delle parole, pensavo, se non c‟è nessuno disposto ad ascoltarle
12
? 
Una volta tornato in Italia, già gravemente malato, i rapporti con il padre paiono d‟un tratto 
rasserenarsi. In realtà il periodo di disgelo dura poco e l‟effimera primavera dei loro rapporti lascia 
il posto ad un rigido inverno che culmina, pochi giorni prima della morte del poeta (avvenuta l‟11 
gennaio 1942), in una violenta requisitoria contro il padre. In queste righe si avverte tutto l‟odio, 
profondo  e meditato che Emanuel nutre nei confronti di Tullio Carnevali. Le sue parole sono 
grottesche e ormai la rabbia lascia lo spazio a un distaccata vena satirica. Il peso che ha avuto nella 
vicenda letteraria e non, il rapporto tra Carnevali padre e Carnevali figlio, resta uno snodo capitale. 
La «elaborazione letteraria
13
» (anche in chiave psichica), ci permette di credere che la natura di 
questo rapporto abbia influenzato, a livello conscio, la scelta di vita del poeta: il suo «dispatrio», il 
suo allontanamento dalla terra natia. Le motivazioni della sua fuga o, per chiamarla come Luigi 
Ballerini, il suo «esilio della provenienza
14
», si configurano in via negativa, proprio come 
allontanamento dal padre. Esiste poi la ragione, anch‟essa di matrice psicologica, ma più di livello 
inconscio della prima (quasi ontologico), alla base delle sue abituali ripartenze, per cui il senso della 
fuga si può declinare in quello più sfumato e ideale di ricerca: una vera e propria quéte dell‟identità. 
                                                             
12
 Emanuel Carnevali, Il bianco inizio e altre prose memoriali, cit., p. 9. 
13
 Francesca Congiu, Una parabola letteraria: il caso di Emanuel Carnevali. Alcune traiettorie interpretative fra Italia 
e Stati Uniti, http://veprints.unica.it/136/1/congiu_francesca.pdf, 2006. 
14
 Luigi Ballerini, Emanuel Carnevali tra autobiografia e orfismo, in Emanuel Carnevali, Il primo Dio. cit., pp.        
413–434 (in particolare p. 424).