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lavoratore nel non adempiere alla prestazione dovuta anche se impossibilitato da
causa di forza maggiore.
Il fenomeno dell’Assenteismo ha risentito della crescita accelerata e per certi
aspetti tumultuosa del paese sul piano industriale e socio-economico. L’uomo
della nostra società industriale necessita ancora di tempi lunghi per il suo
adattamento a situazioni con forti cariche di novità, che fanno saltare modelli di
adattamento antichi e consolidati.
L’organizzazione della società civile non si è adeguata alle esigenze dello
sviluppo industriale, per cui le contraddizioni e le gravi deficienze dei servizi che
deve offrire alla comunità hanno fortemente influito, in senso negativo, sulla
condizione del lavoratore in fabbrica e negli uffici.
L’Assenteismo manifesta un sintomo di un malessere generale della società
industriale, un qualcosa, quindi, il cui significato va al di là del suo aspetto
immediato, così come al di là delle percentuali e statistiche che lo evidenziano;
infatti le cause spesso sono più di una, sia di ordine fisiologico che psicologico.
Dietro l’atteggiamento assenteistico, specie quando assume rilevanza sociale, si
muovono dunque significati e motivazioni profonde, legate spesso a vissuti di
insoddisfazione lavorativa che possono portare a disagi psico-fisici.
Nella letteratura sull’Assenteismo i fondamentali approcci di ricerca analizzano
i comportamenti individuali, sociali ed economici; sebbene la ricerca è stata
alimentata da discipline diverse, in realtà non si può sostenere che lo studio sui
comportamenti assenteistici si sia basato su una prospettiva interdisciplinare.
Il contributo della “teoria sociale cognitiva” allo studio dei processi nelle
organizzazioni risulta di particolare interesse, soprattutto per quanto concerne il
concetto di autoefficacia quale determinante della prestazione lavorativa nella
comprensione dei comportamenti assenteistici, poiché, come vedremo, un basso
senso di autoefficacia correla con l’insoddisfazione lavorativa e gli atteggiamenti
assenteistici.
Tale influenza viene avvalorata in diversi studi e consente di superare il divario
esistente nelle realtà organizzative tra necessità concrete di costrutti teorici
scientificamente fondati e metodologie fruibili ai diversi contesti reali.
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Nella teoria sociale cognitiva proposta da Bandura (1986)
1
l’uomo viene
percepito come un “agente attivo” nel senso che osserva, valuta, si dà degli scopi,
si rappresenta le svariare possibilità del loro conseguimento, anticipa le
conseguenze del loro raggiungimento, reagisce in tempo reale con emozioni e
sentimenti agli esiti della propria condotta in relazione a come essi risultano
compatibili con le pressioni contingenti della situazione.
Il concetto al quale ricorre la teoria sociale cognitiva per indicare la capacità di
esercitare un potere causale è quello di “agency”; esso tiene conto del fatto che le
persone contribuiscono a causare gli eventi al pari di altri fattori come quelli
maggiormente legati alla causalità e meno intenzionali.
Qualunque manifestazione psichica è sempre la risultante di un reciproco co-
determinarsi di “persona”, “situazione” e “comportamento”; ciò coinvolge una
causazione reciproca triadica in cui i fattori personali (cognitivi, affettivi e
biologici), il comportamento e gli eventi ambientali operano come fattori causali
interagenti che si influenzano reciprocamente in modo bidirezionale (Bandura,
2000)
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: ciò che una persona pensa e vuole si traduce in una condotta che
inevitabilmente incide sull’ambiente, ma ciò che una persona pensa e vuole
dipende da ciò che ad essa è consentito fare e da quelle che sono le conseguenze
della sua condotta. Bandura definisce tale interazione tra variabili interne
(cognitive) ed esterne (ambientali) col termine «determinismo reciproco».
Tra i meccanismi di agentività il più pervasivo e che ricopre un ruolo di
primaria importanza nella teoria sociale cognitiva è quello di «autoefficacia
percepita», intesa da Bandura come l’insieme delle «convinzioni circa le proprie
capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre
determinati risultati» (Bandura, 2000).
Le convinzioni di efficacia rispecchiano giudizi personali sulla propria capacità
di realizzare, attraverso un comportamento specifico, risultati attesi. Il senso di
efficacia personale è la risultante del modo in cui l’alternarsi di successi e
fallimenti è stato interiorizzato e quindi del modo in cui sono stati interpretati gli
1 A. Bandura (1986). “Social Foundations of Thought and Action: A Social Cognitive Theory”. Englewood Cliff, N. J.: prentice-Hall.
2 A. Bandura (2000). “Autoefficacia”. Trento: Erickson.
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aiuti ricevuti, le difficoltà delle prove, gli sforzi erogati, le soluzioni impiegate, gli
stati d’animo sperimentati e gli esiti raggiunti.
Le convinzioni di efficacia rivestono un ruolo chiave nell’autoregolazione della
motivazione, influenzando l’attribuzione causale ovvero, chi si considera
altamente efficace in un determinato ambito attribuisce i propri insuccessi a un
impegno insufficiente o a circostanze contingenti avverse; mentre chi si considera
inefficace, tende ad attribuire i propri fallimenti a una sua personale scarsa
capacità. Risulta evidente che in un contesto lavorativo vi possano essere
problematiche relative al gruppo, all’organizzazione aziendale e alla suddivisione
dei ruoli, alla gestione di potere all’interno di un contesto organizzativo; ne
consegue che le convinzioni di autoefficacia servono al lavoratore per affrontare
le difficoltà nate all’interno di tale contesto, ciò preclude la possibilità reale che ad
un alto senso di autoefficacia corrisponda un alto tasso di presenza, ovvero il
lavoratore è motivato dal contesto e dalle proprie azioni lavorative; al contrario
uno scarso senso di autoefficacia può danneggiare l’organizzazione in quanto il
lavoratore sceglie come meccanismo di difesa l’Assenteismo.
L’autoefficacia percepita coincide perciò con il sentimento di efficacia
personale, che deriva dalla convinzione di essere all’altezza di una determinata
situazione, di essere in grado di cimentarsi in una determinata attività o di
affrontare determinati compiti in specifiche situazioni. Le credenze che le persone
hanno nella loro efficacia influenzano in tal modo il corso d’azione che esse stesse
intendono perseguire, quanto sforzo verrà impiegato nell’azione, la loro capacità
di recuperare in base alle difficoltà incontrate, quanto stress e depressione sentono
nell’affrontare situazioni difficili e ancora, il livello di soddisfazione che deriva
dal raggiungimento del proprio obiettivo.
Tra le teorie che riflettono il concetto di «obiettivo» come elemento fondante la
motivazione e la soddisfazione sul lavoro quella del «goal setting» si basa su una
semplice premessa: «la prestazione è causata dall’intenzione personale a fornire
la prestazione, agendo». Un goal (obiettivo) è ciò che un individuo sta cercando
di raggiungere, rappresenta, cioè, l’oggetto o lo scopo di un’azione.
Lo studio della motivazione al lavoro, nonostante l’importanza che il tema
riveste per i contesti organizzativi continuamente tesi alla ricerca del risultato e
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dello sviluppo, ha trovato difficoltà nel concretizzarsi in modelli teorici esplicativi
capaci di integrare e sistematizzare le numerose proposte presenti in letteratura.
Attualmente l’espressione del disagio del lavoratore è mutato rispetto ai
precedenti modi e sono diversi sia i luoghi che le forme in cui si manifesta,
andando dall’insoddisfazione lavorativa, alla bassa produttività, al turnover,
all’Assenteismo.
Nuovi spunti di riflessione riguardano la gestione delle risorse umane, le
caratteristiche della posizione lavorativa, l’emergere di nuove patologie (come la
fatica mentale) o nuove situazioni di pressione, come quelle vissute nel mobbing.
Una possibilità della riduzione del livello di Assenteismo può essere ricercata
anche nella gestione delle risorse umane, specie quando si rivela capace di
generare gruppi di lavoro all’interno dei quali effettua una sorta di “controllo
sociale”, che di fatto contrasta il fenomeno.
Anche la gestione dello «stress» è divenuta importante per il contenimento
dell’Assenteismo. I disturbi di tipo psicologico e fisiologico, che sono correlati a
livelli elevati di stress, rappresentano attualmente uno dei principali problemi
sociali e sanitari.
Il burnout può essere considerato come un particolare tipo di risposta affettiva
a condizioni lavorative stressanti caratterizzate da numerosi contatti
interpersonali.
Inizialmente circoscritto alle professioni di aiuto, indicando un rapporto intenso
e coinvolgente con l’utenza, il fenomeno del job burnout recentemente è messo in
rapporto a tutti i contesti lavorativi e all’intera rete delle relazioni professionali.
Le scelte lavorative sono anche influenzate da fattori socio-economici. Per
continuare a mantenere in attivo l’occupazione industriale uno degli interventi
necessari ha riguardato, infatti, la riduzione del costo del lavoro, su cui ha inciso
pesantemente il costo della previdenza sociale, la quale si è mostrata in grado di
influenzare anche il prezzo finale del prodotto. In questa fase tutte le parti sociali,
governo, datori di lavoro, lavoratori, compagnie assicurative e la società nel suo
complesso, hanno interesse a ridurre il ricorso all’Assenteismo e contrastare le
cattive condizioni di salute, poiché l’onere che ne deriva ricade su ciascuna
componente.
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Diversi approcci si sono occupati di salute organizzativa nel corso del tempo,
tra queste, Jaffe (1995) rileva una certa frammentarietà degli studi sulla salute
organizzativa spesso focalizzati su specifici aspetti, mentre sottolinea il carattere
interdisciplinare del tema.
La Occupational Health Psychology applica la psicologia nei setting
organizzativi per il miglioramento della vita lavorativa, la protezione e la
sicurezza dei lavoratori e la promozione della salute nei luoghi di lavoro. Nel
pensiero degli autori gli ambienti di lavoro sani sono caratterizzati da: alta
produttività, alta soddisfazione del lavoratore, buona sicurezza, basso
Assenteismo, basso turnover e assenza di violenza.
Il cambiamento storico del pensiero sul lavoro oggi ha trasformato il lavoro,
soprattutto nel mondo occidentale, in uno strumento essenziale sia per integrarsi
ed essere apprezzati a livello sociale che per raggiungere l’indipendenza
economica.
Ogni comportamento va analizzato sulla base della struttura organizzativa in
cui si inserisce e in funzione delle conseguenze organizzative che provoca e ciò
vale anche per l’Assenteismo. Questo infatti, al pari degli altri, può essere un
“comportamento organizzativo” oppure no: dipende dalla struttura organizzativa.
Affinché l’Assenteismo si configuri come comportamento strategico, non è
necessario che esso provochi conseguenze organizzative di tipo oggettivo ma è
sufficiente che la struttura gerarchica persegua attivamente una strategia di
contenimento del fenomeno.
In definitiva, considerando l’Assenteismo come un comportamento
organizzativo, la decisione di assentarsi diventa molto complessa in quanto il
fenomeno assenteistico risulta influenzato dagli elementi strutturali della
situazione di lavoro ma anche dalla strategia di comportamento del soggetto, il
quale deve tenere conto degli eventuali effetti che il suo Assenteismo può
comportare sulla strategia di comportamento degli altri membri
dell’organizzazione e della loro eventuale reazione, secondo un determinismo
reciproco. Quest’ultima deve essere tale da non minacciare il successo della
strategia di comportamento del soggetto, cioè deve essere con essa compatibile.
Solo se ciò si verifica interamente il soggetto è “libero” di assentarsi e detto
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Assenteismo sarà pienamente comprensibile all’interno di una prospettiva
strutturale.
In caso di incompatibilità totale l’Assenteismo può addirittura trasformarsi in
“presenteismo”, cioè nel fenomeno di presenza al lavoro nonostante l’esistenza di
cattive condizioni psico-fisiche.
L’Assenteismo può diventare dunque un momento fondamentale della strategia
di comportamento del soggetto, completamente integrato in esso, perché provoca
conseguenze “positive” oppure perché è utilizzato come mezzo di pressione per
influenzare il comportamento di un altro membro dell’organizzazione.
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CAPITOLO 1
GENESI DELL’ASSENTEISMO NEL MONDO DEL
LAVORO
1.1 Cosa significa «Assenteismo»?
Il termine «Assenteismo» deriva dal latino «absens», participio di «abesse»
(essere altrove) e viene utilizzato oggi per indicare l’assenza del lavoratore per un
determinato periodo di tempo perché impossibilitato alla prestazione per cause
obiettive, per disposizioni legislative e contrattuali e per scelta volontaria dovuta a
motivi soggettivi che raramente sfociano nella richiesta di permesso e vengono
quasi sempre imputati a malattia.
Dal punto di vista lessicale, invece, Assenteismo concerne l’assenza del
lavoratore dal proprio posto di lavoro che viene intesa come abuso da parte dello
stesso di quelle leggi e norme che proteggono l’assenza.
L’attenzione verso il problema dell’Assenteismo dal lavoro ha subito in Italia
vicende alterne. La reiterata denuncia, da parte della classe industriale
imprenditoriale, tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, di un
improvviso e rilevante aumento delle assenze di lavoro da parte del personale
dipendente, ha coinciso con il primo “momento sindacale” del fenomeno, sfociato
nel dibattito tra organizzazioni datoriali e organizzazioni sindacali.
Secondo gli imprenditori la causa principale del dilagare del fenomeno era da
ricondurre all’attuazione dell’art.5
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dello “Statuto dei lavoratori”
4
che di fatto
3 ART. 5. Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore
dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti
previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha facoltà di
far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico.
4 Legge 20 maggio 1970, n°300. Gazzetta Ufficiale n. 131 del 27 maggio 1970.
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vieta al datore di lavoro il controllo diretto sulle assenze per malattia e lo assegna
agli Istituti Previdenziali. In tal modo incoraggiava il ricorso a “malattie dolose”
da parte del lavoratore, sostenuto anche dall’atteggiamento compiacente del
medico mutualistico e dal non efficiente e tempestivo sistema delle visite di
controllo.
Le organizzazioni sindacali, da parte loro, controbattevano, ridimensionando la
gravità del problema e ricollegandolo, semmai, ad una forma di protesta informale
da parte del lavoratore a fronte di condizioni di lavoro stressanti ed alienanti.
L’interesse per il fenomeno, rimasto sostanzialmente sopito negli anni ‘80, si
riaccende, a livello europeo, agli inizi degli anni ‘90, in seguito al palesarsi di
alcuni fattori scatenanti:
1. la creazione del mercato unico europeo, che ha esposto le finanze
pubbliche ad una pressione crescente;
2. l’alto tasso di disoccupazione;
3. l’aumento della concorrenza internazionale, in cui risultano facilitate
quelle economie con svalutazione elevata;
4. la globalizzazione dei sistemi produttivi che ha indotto le imprese a
delocalizzare le attività verso i paesi dell’Europa orientale e dell’Asia, a
più basso costo di manodopera.
Il problema dell’Assenteismo, sebbene sia un argomento di grande attualità,
viene identificato con diversa terminologia già nell’Antico Egitto dove il
personale che non si presentava a lavoro veniva segnalato in appositi registri e
suddiviso in tre categorie (i malati veri, coloro che con libagioni troppo avevano
sacrificato agli déi la sera precedente e i poltroni naturali).
Affermare con sicurezza che l’Assenteismo è tipico della società industriale è
dunque un po’ azzardato, poiché numerose ricerche archeologiche hanno messo in
luce l’esistenza di comportamenti assenteistici nell’antichità; si possono invece
trovare motivazioni comuni alle diverse realtà in cui si manifesta il
comportamento assenteistico, ad esempio: insoddisfazione sociale,
insoddisfazione del lavoro, la mancata soddisfazione dei bisogni, ecc.