3
Nel terzo capitolo ho esaminato le istituzioni totali, con
particolare riferimento all’opera di Goffman e alle implicazioni che
queste istituzioni hanno su coloro che in esse vivono.
Nel quarto capitolo ho preso in esame il tema della
comunicazione e di quanto essa sia influenzata dal contesto,
prendendo spunto dalle opere di Serra che ha affrontato il tema della
comunicazione in carcere e di come la stessa possa subire delle
distorsioni a seconda dell’ambiente.
Nel quinto capitolo, l’accento è posto sul modello sistemico
relazionale e sulla sua applicabilità al servizio sociale ed in particolare
al contesto penitenziario. In particolare ho dato rilevanza al disagio
della famiglia del detenuto e all’influenza che l’evento carcerazione può
avere su di essa. Si è passato, quindi, all’esame della metodologia e
delle tecniche impiegate nell’indagine sociale e nell’analisi. Attraverso le
metodologie proprie del servizio sociale sono state esaminate quattro
situazioni familiari di soggetti detenuti nelle carceri del nord ***.
4
1. Pianeta carcere
1.1 Storia dell’istituzione carceraria in Italia dal 1800.
Dalla metà del XVIII secolo, in Italia, il carcere è considerato il
luogo di espiazione delle pene detentive e acquista, di conseguenza,
una certa rilevanza sociale: il ricorso alla pena della privazione della
libertà è considerata la principale sanzione applicata ai condannati.
Dobbiamo a Cesare Beccaria (1766) e ad altri studiosi, quali
l’inglese John Howard (1777), la formulazione di alcuni importanti
principi quale, ad esempio, il principio della umanizzazione della pena
1
e il principio della pena intesa anche come mezzo di prevenzione e di
sicurezza sociale
2
, i quali ispireranno i successivi studi sul sistema
penitenziario.
Beccaria distingue il reato dal peccato e propone una giustizia
“umana” fondata sul calcolo del danno arrecato alla società da chi ha
violato le leggi. Il reato è identificato come tale attraverso un sistema di
leggi stabilite apertamente dalla comunità e scaturite da un’ottica laica
e terrena. Si sottolinea l’importanza di applicare una giustizia che
rifiuti la pena di morte: lo Stato si aggiudica il diritto di condannare un
soggetto applicando la legge umana che consente di punire in modo
grave chi ha violato le leggi.
Beccaria rinnega la tortura e soprattutto la pena di morte che, da
millenni, è la risposta naturale della società ai delitti più gravi. Egli
ripudia quella giustizia che guarda con compiacenza al boia e che,
invece, dovrebbe mostrare comprensione verso l’uso di strumenti quali
zappe, seghe e martelli misti a catene e manette: il lavoro forzato
rappresenta l’utilità del tenere in vita i delinquenti per far pagare loro,
nel quotidiano e duro lavoro, il terribile debito che hanno contratto con
la società.
1
Il principio della umanizzazione della pena intesa come punizione inflitta, nei limiti della
giustizia, in proporzione al delitto commesso e non secondo la volontà del giudice.
2
Il principio della pena come mezzo di prevenzione e di sicurezza sociale e non come
pubblico spettacolo dissuasivo per la sua atrocità.
5
Egli sostiene le pene dolci, ma di lunga durata applicate
attraverso il carcere; ritiene che se il delinquente è consapevole di dover
espiare la pena non infrangerà la legge. Nel Paese in cui vigono
sicurezza civile e ordine politico, la pena di morte non è ritenuta
necessaria e non assolve alla generale funzione di deterrenza sociale
rispetto ai reati
3
. Diventa insensata e vana quando lo Stato è forte,
poiché può punire i criminali senza ricorrere ad essa: la giustizia vera
dovrebbe basarsi, quindi, sull’impedimento dei delitti.
Beccaria critica il sistema giudiziario contemporaneo, fortemente
influenzato dai suoi rapporti con la Chiesa, chiedendosi come può
vietarsi il suicidio e, al contrario, legittimarsi l’omicidio attraverso la
pena di morte. Egli solleva critiche precise e radicali contro la pena di
morte considerandola illegittima in quanto viola il diritto scaturito dal
contratto sociale concluso per tutelare la sicurezza degli individui (e
non per privarli della vita) e il diritto naturale: l’uomo non può uccidere
sé stesso e non può attribuire ad altri questa facoltà.
In Italia, la Scuola Classica, ispiratasi alle idee di Beccaria,
considera la pena un provvedimento punitivo, afflittivo, individuale che
deve essere proporzionato alla gravità del reato commesso dalla
persona, considerata capace di intendere e di volere. Detta scuola
difende in modo fermo i principi che scaturiscono dall’Illuminismo
(imparzialità, garantismo, certezza e umanizzazione della pena) e
avversa la valutazione sugli aspetti psicologici e sociali del condannato.
Particolare importanza è attribuita alla struttura architettonica
degli edifici penitenziari e alla necessità di creare soluzioni innovative
in merito. La pena detentiva deve rispondere meglio all’esigenza di
creare un modello architettonico più funzionale al rispetto della
disciplina e delle esigenze di sicurezza. Il modello “Panopticon”
3
Tali idee, attuali ancora oggi, ci rimandano agli U.S.A. dove, in alcuni Stati è in vigore la
pena capitale, ma la funzione deterrente della stessa non produce risultati significativi
sulla diminuzione del tasso di criminalità.
6
proposto da Jeremy Bentham (1786) serve ad assolvere questa duplice
necessità.
4
Bentham, sostenitore dell’utilitarismo
5
, propone un modello
architettonico di carcere che si fonda sul principio dell’ispezione
centrale, della sorveglianza generalizzata e di una rigorosa
organizzazione dello spazio.
6
Egli attribuisce piena fiducia ad un controllo da effettuarsi in
ogni istante attraverso un punto centrale di sorveglianza situato in una
struttura con architettura circolare. Vede la prigione “panopticon” come
una fabbrica modello che risolve con il costo minore i problemi di
reclutamento della manodopera, problemi ridotti al mantenimento della
sua forza-lavoro, del suo inquadramento e della sua disciplina.
La sua influenza all’epoca rimane, però, per lo più indiretta e i
puri edifici panoptici sono realizzati solo tra la fine del XIX e XX secolo
in America e in Europa. In seguito vengono costruiti edifici con
struttura imperniata sul centro con varianti a raggiera e soltanto pochi
ricalcano il suo modello così come egli lo descrive.
Gli studiosi della scuola positiva, dubbiosi in merito
all’adeguatezza di tale teoria, applicano al diritto penale il “metodo di
ricerca positivistico”
7
. È grazie al contributo di Cesare Lombroso (1876)
ed Enrico Ferri (1880) che si intraprende il processo di evoluzione delle
forme di trattamento penitenziario e si giunge all’attuale modello
riabilitativo diffuso a partire dalla Prima Guerra Mondiale. Loro
spostarono il fulcro delle analisi dal fatto-reato all’autore-soggetto del
delitto, creando le basi per la trasformazione della scienza
penitenziaria.
4
Bentham J. (1983:117): “Ciò che giustifica la pena, è la sua maggiore utilità,o, per
meglio di meglio, la sua necessità. Il male prodotto dalle pene è una spesa che fa lo Stato
in vista di un profitto. Il profitto è la privazione dei crimini. In questa operazione, tutto
deve essere calcolo del guadagno e della perdita”.
5
Secondo gli utilitaristi la pena si giustifica per i vantaggi che arreca alla società, sue
caratteristiche sono la divisibilità, la certezza, l’economia, la convertibilità in profitto.
6
Bentham J. (1983:116), Panopticon.
7
Applicazione del metodo induttivo in contrapposizione a quello deduttivo e
sperimentazione sul caso.
7
Lombroso (1876) affronta “l’eziologia del delitto analizzando una
molteplicità di elementi: sesso, età, alimentazione, urbanizzazione,
professioni, civiltà, razze ed eredità. A nessuno di questi fattori
attribuisce importanza determinante”
8
. A Lombroso preme soprattutto
dimostrare la veridicità di quel “ritorno psicologico all’epoca antica” che
incarna il delinquente nato. Egli, fondatore dell’antropologia criminale
(1884), si interroga sulla natura del delitto e sulla diversità del
delinquente, segnala le anomalie fisiche e morali di quest’ultimo e
conclude con l’individuazione del delinquente nato e del delinquente
atavico, che costituiscono un tutt’uno con l’uomo primitivo ed il
selvaggio.
Lombroso propone di modificare radicalmente il sistema
carcerario e delle pene attraverso l’aggravamento di queste ultime fino
a proporre per gli elementi irrecuperabili la pena di morte. Il contributo
nuovo che egli da alla questione criminale è l’indagine del delitto come
fenomeno naturale: il criminologo deve partire dalle cause del delitto
attraverso l’osservazione clinica, la misurazione e l’esperimento
scientifico per valutare la personalità dell’uomo delinquente e capire
cosa lo ha portato a delinquere. Il diritto penale d’ora in avanti deve
basare i suoi studi sulla personalità del delinquente piuttosto che sul
danno oggettivo che la sua condotta ha provocato.
Ferri si dedica dal 1880 al 1892 (anni di pubblicazione della I e II
edizione della “Sociologia criminale”) allo studio delle carceri e dei
manicomi al fine di scoprire teorie criminali innovative per l’epoca. Egli
ritiene che ogni uomo deve rispondere delle sue azioni: queste non
nascono dal libero arbitrio, da una volontà libera e indipendente, ma
scaturiscono necessariamente dal suo organismo e dalle influenze
esterne. Diventa fondamentale il concetto di imputabilità attraverso il
quale Ferri (1880) “affronta la controversia sul libero arbitrio e vuole
applicare il metodo positivo alla scienza criminale per affrancarla dalle
8
Frigessi D. (2003:108), Cesare Lombroso. Lombroso ne “Il mio museo criminale”, in
L’Illustrazione italiana, XXXIII, 1°aprile 1906, n°13, chiarisce che “tutti i fenomeni del
criminale-nato, così i somatici come gli psicologici, tatuaggio, cannibalismo, impulsività,
ecc., si dovessero al riprodursi in costoro di fenomeni normali presso popoli ed animali
inferiori”.
8
incertezze della teologia e della metafisica e conferma l’influsso dei
fattori naturalistici sulla vita del delinquente e non di altri elementi
quali la libertà morale e l’anima”
9
.
Ferri considera il delitto come un sintomo di una patologia
sociale che la società chiede di isolare eliminando gli elementi
d’infezione. Questa nuova scienza si basa sul concetto di responsabilità
sociale, sostituito a quello di responsabilità morale (venuto meno con la
negazione del libero arbitrio), per cui la funzione sociale difensiva si
esprime attraverso il diritto di punire. È chiaro il riferimento alla
soggettività del reo (malata, degenerata o atavica) e non all’oggettività
del reato, di cui è stato precursore Beccaria il secolo prima.
La criminalità inizia ad essere osservata come un fenomeno
analizzabile scientificamente e lo stesso agire umano può essere
interpretato dal punto di vista causale, iniziando a parlare, dunque, di
determinismo.
Si creano le condizioni per analizzare scientificamente la
personalità del condannato e per studiare il reato in modo concreto
come azione umana, avvalendosi degli studi realizzati fino ad allora da
altre discipline quali l’antropologia, la psicopatologia e la
fisiopsicologia. Attraverso questi studi si è arrivati a comprendere
l’importanza del giudizio sulla pericolosità dell’autore del reato e sulla
sua predisposizione a commettere nuovi reati.
Gli studi e le teorie scaturite dalla scuola positiva e da Lombroso,
innovative a livello internazionale, in Italia non trovano, però,
immediato riscontro politico e legislativo.
Alla fine del XIX secolo i temi del diritto penale e della pena in
chiave di classe sono affrontati attraverso il socialismo giuridico, dal
quale nasce la nuova scuola sociologica criminale che contesta il
pensiero dei positivisti basato su una difesa sociale neutra che
prescinde da una visione retributiva della pena.
Nel 1890 Turati, sostenitore del socialismo giuridico, parla delle
“differenze antropologiche che, quando esistono, sono anch’esse un
9
Frigessi D. (2003:202), Cesare Lombroso, “Teorica dell’imputabilità” elaborata da Ferri.
9
prodotto della miseria e della lotta ferina per l’esistenza e dunque
ineriscono alla condizione di inferiorità della classe e sono anch’esse di
origine sociale”
10
. Nel dibattito italiano sulla questione penale viene
introdotto e discusso un punto di vista nuovo che, attraverso l’analisi
degli elementi che generano la criminalità, condanna l’uomo ad una
delinquenza eterna. Turati rifiuta questa concezione e sostiene che
l’uomo delinquente nasce dalla divisione economica delle società in
classi.
11
Dopo l’uccisione del Re Umberto a Monza, il nuovo Re, Vittorio
Emanuele III, da l’incarico di formare il governo a Zanardelli che si è
schierato dalla parte dei difensori della libertà e dei diritti
costituzionali. Nel nuovo governo entra anche Giolitti, per il quale il
proletariato riveste una tale importanza da non poter più essere
emarginato con la violenza dal contesto sociale.
Tuttavia, anche la pressione politica a favore di un’incisiva
revisione dell’ordinamento carcerario non va oltre una pietistica e
generica denuncia delle tragiche condizioni dei detenuti e non riesce ad
approvare modifiche sostanziali al sistema penitenziario.
Sono, infatti, insignificanti le previsioni contenute nel Codice
Penale Zanardelli del 1889 e confermate dal Regolamento Carcerario
del 1891 che prevedono rigidità nel trattamento dei condannati
riducendoli, talvolta, in condizioni inumane.
Solo nei primi anni del 1900 si giunge alla creazione della terza
scuola
12
che riesce a mediare e creare un nuovo orientamento che
fonde alcuni elementi della scuola classica e della scuola positiva,
recepiti nel tempo anche a livello politico. Tale scuola ribadisce il
principio classico della responsabilità individuale e distingue, inoltre,
tra imputabilità e non imputabilità, accogliendo la tesi positivista della
genesi naturale del delitto e il determinismo psicologico. Si intende,
10
Frigessi D. (2003:238), Cesare Lombroso.
11
Cortesi L. (1962: 191), Turati. “Non accusiamo dunque il cielo e la natura – perocchè il
freddo e la penuria alimentare, come anestetici e spossanti, hanno un’azione fisicamente
anti criminosa contro gli impulsi ribelli”.
12
Tra i maggiori esponenti ricordiamo Alimena B. (1904) Imputabilità e causalità, e
Impallomeni G.B. (1899), Istituzioni.
10
dunque, definire l’imputabilità in modo che diventi prerogativa di tutti i
soggetti, anche di quelli che normalmente sono incapaci di sentire
l’efficacia dei castighi e il loro valore dissuasivo.
La pena non viene considerata solo come una giusta retribuzione
per il male commesso, ma diviene mezzo giuridico di difesa sociale
contro il reo, che non deve solo essere punito, ma anche riadattato alla
società e, solo nell’impossibilità di attuazione di questa finalità,
neutralizzato con la segregazione.
La frequenza dei dibattiti politici in campo penale non produce,
però, una corrispondente vivacità di discussioni in campo
penitenziario. Il Direttore Generale dell’Amministrazione penitenziaria,
Beltrani Scalia, per dare impulso agli studi nel campo della riforma
penitenziaria fonda nel 1870 la “Rivista di discipline penitenziarie”, che
in breve tempo diviene palestra internazionale di studi penitenziari; lo
stesso Beltrani Scalia promuove, inoltre, la riforma del regolamento
penitenziario.
Il regolamento affida all’iniziativa dei privati la costituzione di
una società di patronato, la cui missione è quella di interessarsi alla
sorte di coloro che sono sulla via del delitto, con l’obiettivo di redimerli.
Lo stesso si occupa, inoltre, del personale amministrativo e di custodia,
prima di giungere al trattamento dei detenuti, dando disposizioni sul
regime cui devono essere sottoposti: negli stabilimenti carcerari i
condannati e gli inquisiti sono condannati al lavoro.
Nel 1903 il Regio Decreto n.337 del 2 agosto sopprime l’uso della
catena al piede per i condannati ai lavori forzati e il Regio Decreto
n.484 del 14 novembre abolisce la punizione della camicia di forza, dei
ferri e della cella oscura, sostituiti dalla cintura di sicurezza da usarsi
in modo sia preventivo che punitivo.
In quegli anni la situazione economico-politica dell’Italia è in
trasformazione: la crescita del movimento operaio e il mutamento del
clima politico culturale inducono il Re ad elaborare, subito dopo la
Prima Guerra Mondiale, il nuovo Regolamento Carcerario (Regio
Decreto del 19 febbraio 1922 n.393) che recepisce alcune delle
11
affermazioni della scuola positiva. Il detenuto è considerato come
oggetto di cura, si riscattano gli strumenti di coercizione da ogni senso
di punizione e si smorza la rigida disciplina delle case di rigore.
È nei primi anni del fascismo che si sviluppa in modo
significativo la scuola umanistica
13
, che ripropone il principio
correzionale, ritenendo che “è delitto ogni azione che viola i nostri
sentimenti morali”
14
. Essa attribuisce un carattere etico al diritto
penale e lo riconduce alla morale, confondendone i rispettivi limiti. Si
criminalizza il peccato, ma si propone solidarietà verso il peccatore,
tendendo a unire, confondendoli, misticismo e diritto, società e
cristianità: ritorna forte l’idea di salvare con la pena la coscienza del
reo.
La funzione esplicativa della pena non solo sul reo, ma sulla
comunità solidalmente coinvolta per i principi cristiani, può essere
utilizzata per rinsaldare la solidarietà reciproca fra i cittadini che
rimangono fuori dal sistema penale e penitenziario e la sicurezza di chi
confluisce in questo ordine etico che ricompensa e gratifica coloro che
rispettano le regole.
A fianco della rieducazione morale e della espiazione consapevole
del reo si considera imputabile solo colui ritenuto educabile, ma allo
stesso tempo è sempre maggiore il numero dei non imputabili o meglio
non rieducabili, che non essendosi convertiti attraverso la pena
all’osservanza delle regole, possono essere neutralizzati.
Il fascismo fa suoi i principi della scuola umanistica,
riprendendone alcuni tratti. In campo penalistico il Regio Decreto del
19 ottobre 1930 n.1398 approva il Codice Penale Rocco che, sfruttando
un discutibile compromesso fra la Scuola Positiva e la Scuola Classica,
crea un sistema penale di maggiore severità.
Il Codice Rocco introduce il cosiddetto sistema del “doppio
binario” ancora presente nell’ordinamento penale italiano: oltre alle
13
Principali sostenitori furono Lanza V. (1906) Umanesimo e diritto penale, Falchi G.F.
(1928), Sistema generale umanista di diritto penale e Carnevale E. (1931), Il principio
morale e l’emenda dei rei nel nuovo codice penale.
14
Fassone E. (1980:54), La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria.