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1 Introduzione
La gravidanza ed il post partum rappresentano periodi di grande vulnerabilità per i
neogenitori che affrontano una profonda e importante transizione psicosociale.
Soprattutto nella donna possono insorgere disturbi dell’umore in grado di sfociare
in vere e proprie patologie depressive e nei casi più gravi, anche in sindromi
psicotiche. L’incidenza della depressione perinatale nella popolazione è abbastanza
importante, nell’ordine del 10-15%, anche se questo dato non deve essere
considerato come assoluto in quanto è in stretta relazione con l’ambiente sociale e
culturale di appartenenza delle neo-madri. Sebbene la depressione perinatale fino a
poco tempo fa sia stata considerata come una patologia che investiva
esclusivamente la madre, recenti filoni di ricerca hanno permesso di individuare
come anche nei padri nel periodo perinatale possano maturare sintomatologie
proprie della depressione maggiore, con una percentuale che nella popolazione si
aggira attorno al 10%. L’insorgenza della depressione perinatale nel padre è un
aspetto da non sottovalutare, poiché il periodo della gravidanza prima e del post
parto poi, è forse quello in cui la donna necessita in misura maggiore delle cure ed
attenzioni del partner. Secondo le teorie sistemiche, gli stati psicologici dei partner
si influenzerebbero a vicenda; da questo assunto si può dedurre che la depressione
post partum nella madre oltre che influenzare il partner, influenza negativamente la
qualità della relazione con il figlio, con conseguenze che in età evolutiva possono
sfociare in comportamenti devianti sia di tipo internalizzante che esternalizzante
con gravi difficoltà di tipo relazionale. L’esplosione della moltitudine di studi
nell’ambito dell’Infant Research, ha dimostrato come il neonato già a poche ore
dalla nascita, riesca a discriminare il tono della voce e il profumo della madre, ed a
pochi giorni di vita la forma del volto umano, dimostrando di essere in possesso di
una precoce intelligenza sociale e geneticamente predisposto all’interazione con i
propri simili. Il bambino infatti fin dal primo mese di vita, è sensibile alle azioni ed
agli stati affettivi che la madre mette in atto in risposta ai segnali permeati
affettivamente che lui le invia. Con la progressiva maturazione delle strutture del
SNC e delle annesse funzioni cognitive, il lattante sviluppa tecniche di
comunicazione sempre più raffinate, che gli consentono di creare con l’adulto un
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dialogo maggiormente complesso e altamente qualitativo. Trevarthen evidenziò la
nascita nel corso del primo anno di vita del bambino di due forme di
intersoggettività: quella primaria che costituisce la prima esperienza di
condivisione e scambio di stati affettivi fra madre/caregiver e lattante, comprende
tutte quelle forme di interazione che inizialmente sono incentrate su modalità di
comunicazione faccia a faccia, le quali evolveranno progressivamente verso pattern
interattivi sempre più complessi con l’aggiunta di un terzo elemento nella diade e
l’introduzione di giochi sociali. Quella secondaria, la si osserva dopo il nono mese
di vita: il bambino matura la comprensione del fatto che anche le altre persone
possiedono stati mentali in grado di essere influenzati ma anche condivisi. Questo
periodo della sua vita è contraddistinto dalla condivisione con l’adulto di attenzione
e stati affettivi in rapporto ad oggetti o eventi; un altro aspetto importante è quello
della nascita della comunicazione intenzionale evidenziata dai gesti richiestivi e
dichiarativi. Le modalità di comunicazione inglobano ora un oggetto presente
nell’ambiente che sarà bersaglio di stati affettivi condivisi. Nella primissima
infanzia è fondamentale la capacità della madre “sensibile e responsiva” di riuscire
a svolgere la funzione di rispecchiamento affettivo e di contenitore degli stati
emotivi del bambino, permettendo a quest’ultimo di costruirsi una rappresentazione
mentale di se stesso come soggetto competente dal punto di vista comunicativo e
della madre come disponibile ad accogliere le sue espressioni affettive. Una madre
affetta da depressione perinatale, non riuscirà a svolgere adeguatamente questo
compito con conseguenze sul corretto sviluppo psicologico e cognitivo del figlio.
Il bambino, introietta progressivamente gli schemi delle varie interazioni contenenti
le relazioni spaziali e temporali fra i propri vissuti emotivi, le relative sensazioni
propriocettive e la percezione dell’altro in rapporto a sé, formandosene dei modelli
schematici i quali andranno a costituire i suoi modelli operativi interni che lo
guideranno nelle sue future esperienze relazionali. La qualità della regolazione
affettiva fra madre e bambino inoltre influisce sui modelli di attaccamento
dell’individuo; come vedremo nell’ultimo capitolo, recenti filoni di ricerca sulle
malattie psicosomatiche, hanno evidenziato come il deficit della regolazione
affettiva nelle precoci interazioni, sia la causa della sindrome alessitimica che
contraddistingue i soggetti manifestanti sintomatologie psicosomatiche.
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2 Nascita e sviluppo dell’intersoggettività. Legami di
attaccamento madre-bambino
1 Competenze comunicative precoci del bambino
L’evolversi di nuove metodologie di ricerca ed il fiorire di studi aventi per oggetto
le competenze percettive e comunicative del bambino, hanno consentito di far
emergere una nuova concezione del lattante, ossia quella di un essere idoneo fin
dalle prime ore di vita a interagire con altri esseri umani. Il neonato sarebbe
corredato di una sofisticata struttura atta a segnalare i propri bisogni ed i propri stati
emotivi ed attivazionali e che assolve all’importante funzione di richiamare
l’attenzione dell’adulto, così come di una disposizione comportamentale
contraddistinta da regolarità a livello temporale che gli permette di rendere
prevedibile il suo comportamento, aspetto quest’ultimo che favorirebbe
l’instaurarsi di scambi comunicativi precoci con il/i caregiver. Il neonato riesce a
segnalare all’adulto i propri stati utilizzando particolari canali di comunicazione; il
pianto indubbiamente è quello maggiormente in grado di richiamare l’attenzione
del caregiver: se nel primo mese il pianto ha la sola funzione di segnalare un disagio
o un bisogno (fisiologico oppure sensoriale), dal secondo mese assume particolari
caratteristiche temporali e sonore che segnalano il bisogno di attenzione,
evidenziando la nascita nel bambino di una nuova capacità di tipo relazionale (Barr
1990). Un alto canale in grado di segnalare lo stato interno del neonato è
rappresentato dalle espressioni facciali mediante le quali egli è in grado di esprimere
affetti di tipo positivo o negativo, così come di assolvere ad un’importante funzione
che è quella di agire come indicatori di disponibilità all’interazione con il caregiver.
Evidenze empiriche confermano l’esistenza di una innata attitudine dei neonati
all’interazione con altri esseri umani: sarebbero infatti predisposti geneticamente a
rispondere in maniera discriminatoria a determinati stimoli quali voci volti ed odori
che provengono da altri esseri umani, in particolare dalla madre. Diversi studi
hanno evidenziato come i neonati preferiscano suoni consoni alla voce umana
piuttosto che suoni di origine non umana, seppur con caratteristiche tonali simili.
Per quanto riguarda la percezione e discriminazione dei volti delle persone, alcuni
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ricercatori (Johnson e Morton 1991) ritengono che il volto umano costituisca uno
stimolo straordinario per il neonato: in lui sarebbe presente un meccanismo
congenito operante nelle strutture subcorticali (face detection) contenente dati
riguardanti la collocazione spaziale delle parti costituenti il modello del volto dei
propri simili (triangolo occhi-bocca); ciò gli permetterebbe di indirizzare il proprio
interesse nei riguardi dei volti (in particolar modo agli occhi) e di discriminare il
volto umano con la conseguente possibilità di interpretarne l’espressione. In ultimo,
il neonato risulterebbe molto sensibile agli odori materni: risultati di varie ricerche
hanno evidenziato che i neonati allattati naturalmente riescono a riconoscere e
prediligere l’odore della propria madre, riuscendo a discriminarlo rispetto a quello
di altre donne (Porter et al. 1992). La capacità del neonato di focalizzarsi
selettivamente verso il volto e la voce umana ed a ricercare tali stimoli, si evidenzia
in particolar modo con la madre, che è anche il soggetto col quale il neonato ha
esperito una ragguardevole esperienza nel periodo fetale e post natale. I neonati e
le loro madri quindi possiedono molteplici canali di comunicazione che
integrandosi fra di loro, sono in grado di dare origine alla costruzione di una
relazione affettiva e di sviluppare un primitivo contatto esperienziale con l’altro.
L’attitudine innata del neonato all’interazione con altri individui è confermata
dall’imitazione neonatale che è risultata essere ben lungi dal costituire una mera
reazione riflessa; piuttosto rappresenterebbe un atteggiamento di tipo sociale idoneo
allo sviluppo dei primi pattern comunicativi con l’adulto significativo mediante un
processo di matching con le azioni di quest’ultimo (Legerstee 2005). Il neonato fin
dalle prime ore di vita, sarebbe in grado di imitare specificatamente diversi
movimenti del volto umano; l’imitazione può essere considerata a tutti gli effetti il
primo mezzo con il quale il bambino si lega alla figura del caregiver: in particolar
modo mediante l’imitazione egli sarebbe in grado di interpretarne i comportamenti
come una richiesta a prendere parte a un’interazione. Meltzoff e Moore (Meltzoff,
Moore 1997; 1997a; 1998) ipotizzarono che il processo di imitazione delle azioni
di altri individui, osservabile così precocemente nel bambino, sia sostenuto da una
struttura di “coordinazione visuo motoria” alla cui base ci sarebbe un’innata
“mappa intermodale” che gli permetterebbe di far coincidere le azioni osservate
negli altri a quelle che lui esegue, rapportandole alle proprie sensazioni interne di
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carattere propriocettivo. Questo consente al piccolo di percepire l’altro come
“individuo simile a me” e nel contempo di discernere i propri movimenti dai
movimenti di un’altra persona, sviluppando così un primordiale senso di sé come
individuo distinto da altri individui (Meltzoff 1990; Rochat 2004). Il neonato è in
grado di recepire informazioni su se stesso attraverso l’identificazione dei propri
movimenti in rapporto all’ambiente, ma anche mediante le precoci azioni mirate ad
uno scopo e le sensazioni propriocettive ad esse connesse. Questo tipo di
collegamento che il neonato esperisce con l’adulto, così come la percezione di
essere un’entità differenziata dall’altro, possono essere ritenuti fattori precursori per
lo sviluppo di una successiva forma di intersoggettività. A partire dalla sesta/ottava
settimana di vita, nel lattante avviene un importante sviluppo psicobiologico che
porta ad una riorganizzazione dei suoi pattern comportamentali: il suo sistema
neurologico va incontro ad una progressiva maturazione; ciò significa che le
funzioni cognitive più elevate che vanno via via formandosi ed integrandosi tra di
loro, sostituiscono progressivamente gli automatismi propri delle funzioni del
sistema sottocorticale, prevalenti nel primo mese di vita del bambino. Si assiste in
lui ad un calo dei ritmi endogeni con conseguente diminuzione delle risposte di tipo
riflesso ed un aumento del controllo esogeno, una variazione nei ritmi circadiani
con riduzione e regolarizzazione delle ore di sonno a favore di un aumento del
tempo di veglia attiva che si concentra adesso maggiormente nelle ore diurne, uno
sviluppo del controllo posturale-motorio e delle capacità visuo-motorie. Soprattutto
all’interno del contesto interattivo con il caregiver, le maturate capacità nel neonato
inerenti il controllo posturale della testa e l’aumento del controllo visivo, assumono
una rilevante importanza per quanto riguarda le sue future possibilità di interazione
con l’adulto significativo in quanto egli riesce adesso a seguire uno stimolo così
come lo sguardo dell’adulto nel contesto comunicativo faccia a faccia; inoltre la
maggior sensibilità agli stimoli collocati nel campo visivo nasale gli permette ora
di concentrare la sua attenzione sugli occhi dell’interlocutore. Grazie
all’acquisizione di queste nuove abilità, il bambino ha ora una maggiore e migliore
interazione con l’ambiente che lo circonda, proiettandolo verso una nuova
dimensione, ossia quella di un soggetto socialmente attivo.