- 5 -
1. INTRODUZIONE
La cellulosa rappresenta una risorsa rinnovabile di primario interesse in un contesto di sviluppo
sostenibile. Può essere sfruttata sia per la produzione di zuccheri fermentescibili destinati alla
filiera dei biocarburanti, che per la sintesi di prodotti chimici con molteplici applicazioni e usi
(Binder et al. 2010).
In accordo con i protocolli di Kyoto, infatti, le emissioni totali di anidride carbonica, nei paesi
industrializzati, avrebbero dovuto far registrare un decremento pari al 5% entro il 31 dicembre
2010, rispetto ai corrispettivi valori registrati nel 1990. Ampliando la prospettiva, al fine di
stabilizzare i livelli di CO
2
nell’atmosfera, sarà necessaria una riduzione addirittura superiore al
50%. La strategia che le nazioni dovranno mettere in atto consisterà nella graduale sostituzione
dello sfruttamento di combustibili fossili e di prodotti derivati dal petrolio con carburanti
alternativi e prodotti derivati, per l’appunto, dalla biomassa (Kabel et al. 2006).
L’ostacolo più significativo che attualmente si frappone ad un massiccio sfruttamento della
cellulosa, il maggior componente della biomassa, è rappresentato dalla sua scarsa reattività,
oltre che dalla sua refrattarietà a qualsiasi tipo di trattamento chimico. Ciò è dovuto alla
notevole cristallinità delle fibre di cellulosa, oltre che al significativo grado di polimerizzazione
(DP) che ne impedisce la solubilizzazione. I processi chimici tradizionali basati sulla
dissoluzione della cellulosa prevedono, difatti, condizioni estremamente poco sostenibili per
l’ambiente, come, per esempio, l’utilizzo di ingenti quantitativi di soda e altri prodotti chimici,
oltre ad importanti costi energetici.
Un numero sempre crescente di gruppi di ricerca si sta concentrando sullo studio di una
categoria innovativa di solventi che promettono di condurre ad un utilizzo semplificato e,
conseguentemente, maggiormente diffuso della cellulosa: i liquidi ionici; si tratta di sali
organici aventi una temperatura di fusione inferiori a 100 °C. Si ipotizza che in un futuro non
troppo lontano i liquidi ionici possano essere utilizzati come solventi industriali per una chimica
sostenibile. I motivi di tale convinzione sono da ricercare nelle proprietà di questo tipo di
solventi, come la pressione di vapore pressoché nulla, la non infiammabilità e, in alcuni casi,
la tossicità estremamente contenuta. Sebbene tali tratti, di per sé, non siano sufficienti per
definire un processo green, rappresentano certamente degli ottimi punti di partenza per lo
sviluppo di trasformazioni e sintesi chimiche maggiormente rispettose nei confronti
dell’ambiente; problematica, quest’ultima, di estremo interesse per la chimica moderna.
- 6 -
Il pionieristico lavoro di Swatloski e del suo team di collaboratori, ha messo in luce la
propensione dell’1-butil-3-metilimidazolio cloruro ([BMIm][Cl]) a dissolvere la cellulosa in
concentrazioni fino al 25%. Gli autori, infatti, hanno dimostrato come tale liquido ionico sia in
grado di disorganizzare la complessa e intricata struttura della cellulosa, rimpiazzando i legami
a idrogeno intramolecolari, responsabili dell’impaccamento delle catene polisaccaridiche, con
altri ponti idrogeno che si instaurano, invece, tra le singole catene polisaccaridiche e il liquido
ionico (Swatloski et al. 2002). Studi di risonanza magnetica nucleare (NMR) hanno confermato
il ruolo chiave, nell’ambito del processo di dissoluzione, ricoperto dall’interazione tra i gruppi
ossidrili (OH) delle unità di glucosio costituenti la cellulosa e gli ioni Cl
-
del liquido ionico
(Feng et al. 2009).
Scoperte di questo tipo hanno aperto la strada allo sviluppo di processi costituiti da un primo
passaggio di pretrattamento della cellulosa con [BMIm][Cl], piuttosto che con altri liquidi
ionici, seguito dalla sua conversione, possibilmente attraverso reazioni catalizzate da enzimi, in
zuccheri fermentescibili, piuttosto che in altri intermedi destinati alla sintesi di prodotti chimici.
E’ noto, a tal proposito, come la dissoluzione della cellulosa in liquidi ionici e la sua successiva
precipitazione con antisolventi causino la conversione della cellulosa cristallina di tipo I in
cellulosa di tipo II, amorfa (Dadi et al. 2006, Dadi et al. 2007). La conseguenza pratica del
pretrattamento coincide, infatti, con l’ottenimento di un substrato più facilmente accessibile,
facilitando, così, l’azione idrolitica delle cellulasi. Negli ultimi anni, numerosi lavori hanno
evidenziato un significativo incremento nella resa di idrolisi della cellulosa pretrattata,
suggerendo, quindi, come un processo a tre fasi (dissoluzione della cellulosa, riprecipitazione,
depolimerizzazione della cellulosa amorfa) possa configurarsi come la migliore prospettiva per
uno “scale-up” su scala industriale (Zhao et al. 2009).
Un ovvio miglioramento di questo tipo di strategia, sia da un punto di vista di ottimizzazione
dell’energia spesa nell’arco del processo, che dal punto di vista della sostenibilità del processo
stesso, potrebbe coincidere con lo sviluppo di un processo “single-batch” in liquido ionico, in
cui la dissoluzione della cellulosa e la sua successiva degradazione enzimatica possano avere
luogo all’interno del medesimo mezzo di reazione. Un approccio di questo tipo permetterebbe
di eliminare gli step di pretrattamento e rigenerazione, oltre alla necessità di rimuovere il
liquido ionico prima della depolimerizzazione enzimatica, classicamente svolta, altrimenti, in
mezzo acquoso.
Studi precedenti sulla degradazione biocatalitica della cellulosa in [BMIm][Cl] mediante
cellulasi da Trichoderma reesei hanno evidenziato risultati molto poco incoraggianti. Una serie
di autori descrive la perdita di attività degli enzimi a causa della loro denaturazione. Il liquido
- 7 -
ionico, di per sè, è infatti in grado di mimare l’ambiente denaturante tipico delle soluzioni
saline sature, provocando l’unfolding della proteina, con conseguente totale perdita di attività
(Turner et al. 2003).
Nonostante una serie di indicazioni a sfavore dell’applicabilità di tale liquido ionico per la
degradazione biocatalitica della cellulosa, l’interesse circa l’utilizzo del [BMIm][Cl] e dei
liquidi ionici in generale rimane, tuttora, decisamente elevato. Recentemente, infatti, sono
comparse le prime evidenze di cellulasi commerciali (Celluclast
®
, Novozymes), supportate su
polimeri di amberlite, cataliticamente attive per quanto riguarda la saccarificazione della
cellulosa disciolta in [BMIm][Cl] (Lozano et al. 2011).
In aggiunta, studi comparativi circa quello che viene definito come “Life Cycle Assessment”
(LCA) del [BMIm][Cl] e di un altro solvente, universalmente riconosciuto come eco-
compatibile e già largamente diffuso in industria, quale l’N-metilmorfolin-N-ossido (NMMO),
hanno rivelato un impatto ambientale assolutamente paragonabile tra i due solventi (Righi et al.
2011). A fronte di ciò, nel presente progetto di tesi è stata studiata la possibilità di sviluppare un
processo “single-batch” per idrolizzare e derivatizzare la cellulosa in fase omogenea,
selezionando tre liquidi ionici tra quelli disponibili commercialmente. I liquidi ionici sono stati
utilizzati sia per la dissoluzione del substrato che per la sua idrolisi, in assenza di qualsiasi
passaggio di precipitazione e rigenerazione. Terminata la fase di idrolisi, nello stesso mezzo di
reazione è stata condotta la carbossimetilazione, per via chimica, della cellulosa
depolimerizzata. La carbossimetil cellulosa (CMC) rappresenta certamente il derivato della
cellulosa in grado di godere delle più numerose applicazioni, configurandosi come un prodotto
di estremo interesse e di sicuro mercato.
Gli stessi studi sono stati anche condotti, a fine di comparazione in NMMO.
1.1 LA CELLULOSA
1.1.1 Cenni storici
La cellulosa venne scoperta nel 1838 da Anselme Payen (1795-1878), chimico francese, che,
per primo, fu capace di isolarla da materiale ligneo e di determinarne la formula, nell’anno
successivo (Payen 1838).
La cellulosa venne utilizzata per la produzione del primo polimero termoplastico, divenuto,
negli anni successivi, notevolmente famoso: la celluloide. Con questo termine si intendono una
- 8 -
serie di sostanze plastiche inventate nel 1863 o nel 1868 (le fonti al riguardo sono discordanti)
da John Wesley Hyatt (1837-1920) e ottenute da nitrocellulosa al 10-11% di azoto, plastificata
con canfora. La celluloide è anche nota con il termine “nitrato di cellulosa”. Pur trattandosi di
un materiale flessibile e resistente all'umidità, la celluloide è estremamente infiammabile, cosa
che ne ha limitato fortemente l'impiego.
Nel 1887 il pastore episcopaliano Hannibal Williston Goodwin (1822-1900), da alcuni ritenuto
erroneamente l'inventore della celluloide, ne brevettò l'utilizzo come supporto per le pellicole
fotografiche. Si trattò di una vera e propria rivoluzione nel campo della fotografia che, peraltro,
rese possibile anche la nascita della cinematografia.
Nel 1920, poi, Hermann Staudinger (1881-1965) fu in grado di determinare la complicata
struttura del polimero di cellulosa. Lo stesso polimero, infine, è stato per la prima volta
sintetizzato artificialmente (senza il ricorso all’utilizzo di enzimi) da Kobayashi e Shoda nel
1992.
Figura 1.1. Alcune fonti naturali di cellulosa: cotone (A), legno (B), cereali (particolarmente a
livello della crusca, C).
1.1.2 Definizione e struttura
La vita sulla Terra dipende direttamente dal processo di fotosintesi, il cui principale prodotto,
ovvero la cellulosa, rappresenta una materia prima industriale di estrema importanza e di
enorme interesse, oltre a poter configurarsi come la risorsa primaria per lo sviluppo di
biocarburanti, alternativi ai combustibili fossili, e per la generazione di prodotti destinati alla
filiera chimica. (Percival Zhang et al. 2005).
La cellulosa coincide con un polimero lineare di glucosio, insolubile in acqua, in cui i
monomeri sono uniti da un legame β(1-4) glicosidico. Ogni monomero di glucosio è ruotato,
rispetto al precedente, di circa 180° (Fig. 1.2) e il loro legame costituisce un’unità di
cellobiosio, ovvero l’unità ripetitiva alla base della complessa struttura della cellulosa. Ciò
differisce rispetto alle strutture di altri comuni polimeri di glucosio, come l’amido, recante un
A B C
- 9 -
legame glicosidico α(1-4) tra le unità base, e il callosio, i cui monomeri sono uniti da legame
glicosidico β(1-3) (Brown et al. 1996).
Figura 1.2. Formula di struttura della catena polimerica di glucosio alla base dell’architettura
della cellulosa. L’unità ripetitiva, il cellobiosio, è indicata in parentesi.
La lunga catena glucidica, poi, forma una struttura impaccata, che è ulteriormente irrigidita
dalle forze di van der Waals capaci di instaurarsi tra una catena e quelle presenti nel suo
intorno, così come dai ponti a idrogeno intra- e intermolecolari, conducendo, in tal modo, ad
un’organizzazione cristallina ordinata delle diverse catene glucosidiche (Brown et al. 1996). In
natura, la cellulosa non esiste come catena singola, bensì, dal momento della sua sintesi, assume
la forma di una compatta rete di catene parallele ed orientate, le cosiddette “microfibrille” (Fig.
1.3). La lunghezza delle catene glucosidiche (ovvero il grado di polimerizzazione, DP) è
estremamente variabile, compresa tra le 100 e le 25000 unità di glucosio. Anche le stesse
microfibrille possono essere suddivise e classificate in base alle loro dimensioni: le “fibrille
elementari” contano approssimativamente 36 catene polisaccaridiche; mentre le fibrille di
grandi dimensioni, tipiche delle alghe di natura cellulosica, possono contenere fino a più di
1200 catene.
Le microfibrille, in conclusione, presentano un diametro che si attesta tra i 2 e i 10 nm e sono, a
loro volta, stabilizzate da numerose interazioni di van der Waals, che le rendono isolubili,
chimicamente resistenti e meccanicamente forti (Williamson et al. 2002).
Figura 1.3. Organizzazione complessiva della fibra di cellulosa: dalla macrostruttura alla
microstruttura.
- 10 -
La più comune forma in cui è possibile ritrovare la cellulosa in natura viene definita cristallina
o allomorfa (cellulosa di tipo I); è metastabile e presenta delle catene polisaccaridiche parallele
unite da forti interazioni a idrogeno. Della cellulosa di tipo I si conoscono due suballomorfi
cristallini, la cellulosa di tipo I α e I β: mentre la prima è tipica della cellulosa batterica, la
seconda, al contrario, è largamente diffusa nelle piante superiori (Percival Zhang et al. 2004).
La cellulosa cristallina può essere convertita, in maniera irreversibile, in cellulosa di tipo II, o
amorfa, presente spontaneamente in natura soltanto in rare occasioni. La cellulosa di tipo II,
infatti, coincide generalmente con il prodotto della riprecipitazione della cellulosa cristallina,
dopo che quest’ultima è stata sottoposta ad un passaggio di rigonfiamento e solubilizzazione in
solventi organici. Questo tipo di cellulosa è anche noto con il nome di “Rayon”. Le catene
polisaccaridiche del rayon sono disposte secondo un orientamento antiparallelo,
presumibilmente a causa di uno scorretto riassemblamento delle stesse, all’atto della
precipitazione (Brown et al. 1996).
1.1.3 Grado di polimerizzazione
Il grado di polimerizzazione (DP) è generalmente definito come il numero di unità
monomeriche all’interno di una macromolecola, polimero o oligomero. Nel caso della cellulosa,
il DP rappresenta una tra le proprietà più significative in grado di definirla e caratterizzarla: da
esso sono direttamente influenzate l’idrolisi della cellulosa stessa o il suo impiego all’interno
dell’ampio settore dell’industria della carta.
I metodi riconosciuti per la determinazione del DP implicano la dissoluzione della cellulosa
utilizzando delle tecniche che non alterino la lunghezza della catena: è possibile ricorrere a
soluzioni metalliche (soluzione Cuam tipicamente), piuttosto che a solventi organici, a
soluzioni ioniche come la N,N-dimetilacetamide (DMAc)/LiCl o ad acidi inorganici, come
l’acido nitrico, a seguito di derivatizzazione.
Previa dissoluzione, il DP della cellulosa (Fig. 1.4) può essere espresso in termini di grado di
polimerizzazione medio numerico (number-average DP, DP
n
), grado di polimerizzazione
medio in peso (weight-average DP, DP
w
) o grado di polimerizzazione medio sulla viscosità
(viscosity-average DP, DP
v
) e viene calcolato secondo le seguenti formule:
DP
n
= M
n
dd = Σ N
i
M
i
/ MW
glu
MW
glu
Σ N
i
DP
w
= M
w
dd = Σ N
i
M
i
2
/ MW
glu
MW
glu
Σ N
i
- 11 -
DP
v
= M
v
dd = Σ N
i
η
/ MW
glu
MW
glu
Σ N
i
Dove con N
i
viene indicato il numero di moli di una data frazione “i” avente massa molare M
i
,
M
n
rappresenta il peso molecolare medio numerico, M
w
indica il peso molecolare medio in peso
ed M
v
il peso molecolare medio espresso in termini di viscosità. MW
glu
coincide con il peso
molecolare del glucosio anidro (162 g/mol) ed η rappresenta la viscosità (Percival Zhang et al.
2004).
Il grado di polimerizzazione medio numerico, poi, può essere misurato mediante osmometria di
membrana, crioscopia, ebullioscopia o cromatografia ad esclusione molecolare. Tali saggi
richiedono, tipicamente, tempi considerevoli per la preparazione del campione, volumi
significativi, estrema attenzione riguardo all’essiccamento e alla seguente dissoluzione, reagenti
volatili e spesso tossici.
Per di più, metodi come quelli appena descritti possono richiedere fino a una settimana di
lavoro, solventi potenzialmente pericolosi e, in molti casi, strumentazione specifica (Percival
Zhang et al. 2005) .
Infine, il grado di polimerizzazione medio in peso (DP
w
) può essere misurato sulla base del
light scattering o dell’equilibrio di sedimentazione, mentre il DP
v
è calcolato attraverso
misurazioni della viscosità.
NC = cotone naturale
NW = legno naturale
BC = cellulosa da batteri
CT = cotton linter cellulose
FP = filter paper
P = pulp
BMCC = cellulosa batterica microcristallina
PASC = cellulosa rigonfia trattata con acido
fosforico
Figura 1.4. Tipici valori di grado di polimerizzazione
(DP
n
) della cellulosa e di cellodestrine solubili
(Percival Zhang et al. 2004).
- 12 -
1.1.4 Biosintesi della cellulosa nelle piante
Le microfibrille cellulosiche costituiscono l’elemento strutturale principale della parete di quasi
tutti i tipi di cellule vegetali (Fig. 1.5).
La presenza ubiquitaria della cellulosa, quindi,
unita alle sue caratteristiche degne di nota, fa sì
che quest’ultima possa configurarsi come il
polimero di maggiore importanza per l’integrità e
per il corretto funzionamento degli organismi
vegetali. Data l’abbondanza della cellulosa, la sua
importanza e la sua chimica relativamente
semplice, dunque, appaiono sorprendenti le
difficoltà tuttora esistenti circa una completa
comprensione del suo meccanismo di sintesi.
Negli ultimi cinque anni, a tal proposito, alcuni
studi di biologia molecolare hanno identificato
una serie di geni fondamentali per la sintesi della
cellulosa in vivo (Brown et al. 1996).
Rsw1, il primo mutante cellulosa-difettivo di
Arabidopsis, organismo vegetale modello,
caratterizzato a livello molecolare, è privo di un
gene codificante per una glicosiltransferasi e,
quando cresciuto a 30 °C, contiene solo il 50%
della cellulosa presente nel corrispettivo wild-type
(Arioli et al. 1998). E’ ovvio, perciò, che il gene
RSW1 (ora identificato come AtCesA1) è
fondamentale per la sintesi della cellulosa.
Il genoma di Arabidopsis comprende dieci geni
codificanti per delle CesA-glicosiltransferasi, la
maggior parte oggi universalmente riconosciuti
come implicati nella produzione di cellulosa:
mutanti in cui i geni CesA1, 3, 4, 6 , 7 e 8 sono
stati silenziati, infatti, si sono tutti mostrati
estremamente poveri di cellulosa (Peng et al.
2000, Taylor et al. 2000).
Figura 1.5. Cellulosa nelle cellule
vegetali.
- 13 -
Mutanti, invece, in cui sono stati overespressi i geni CesA3 e CesA6 hanno dato prova di una
notevole resistenza all’isoxaben, un erbicida in grado di inibire selettivamente la sintesi della
cellulosa (Scheible et al. 2001, Desprez et al. 2002). Le proteine CesA sono rivolte sul versante
citoplasmatico della membrana, seppur ancorate ad essa mediante otto domini transmembrana
(TMDs), e recano soltanto poche stringhe di aminoacidi esposte extracellularmente. Si ritiene
che le proteine CesA presentino due siti di legame per il substrato (Saxena et al. 2001). Questa
famiglia di proteine, però, rappresenta solamente un singolo ramo della complessa
superfamiglia delle cellulosa sintasi. Ci si aspetta che mutanti recanti una N-glicosilazione
imperfetta presentino difetti fenotipici multipli, ma quello che, invece, è stato più volte riportato
è una generale riduzione nella produzione di cellulosa (Helenius et al. 2001).
Un’altra proteina ritenuta coinvolta nel processo di biosintesi della cellulosa è la glucosidasi II.
Piante di patata mutate con costrutti antisenso, proprio al fine di ridurne l’espressione, hanno
mostrato livelli di cellulosa decisamente inferiori alla norma (Taylor et al. 2000).
Riassumendo, è possibile affermare come una corretta sintesi della cellulosa richieda un lavoro
sinergico di numerose proteine, tra le quali, appunto, le glicosiltransferasi della famiglia CesA e
le glicosidasi, unite ad un pathway di N-glicosilazione e di controllo qualità, a livello del
reticolo endoplasmico, perfettamente funzionante. I meccanismi secondo i quali questo tipo di
proteine possono concorrere alla sintesi della cellulosa sono, fondamentalmente, di due tipi: un
meccanismo diretto, a livello del quale le glicosiltransferasi aggiungono successivamente una
serie di residui glucosidici fino al completamento della catena, e un meccanismo indiretto, che
prevede, dapprima, l’assemblamento di corte stringhe di glucosio su di un sopporto lipidico o
proteico, quindi la loro incorporazione nel polimero maturo (Williamson et al. 2001).
L’identificazione completa dei geni implicati nel processo di produzione della cellulosa nelle
piante potrà, peraltro, apportare enormi benefici a settori industriali quali quello del cotone e
quello del legno.
1.1.5 Modifiche enzimatiche della cellulosa: azione delle cellulasi
Gli enzimi appartenenti alla classe delle cellulasi (EC 3.2.1.) sono in grado di operare una
depolimerizzazione nei confronti della cellulosa e di alcuni suoi derivati (carbossimetil
cellulosa in special modo). Si tratta di enzimi appartenenti alla famiglia delle glicosilidrolasi
(EC 3.2.1.-3.2.3.), capaci di idrolizzare il legame glicosidico tra due monomeri di glucosio. Per
quanto riguarda la cellulosa, il legame che viene scisso dall’azione catalitica delle cellulasi
- 14 -
coincide con il legame glicosidico β(1-4). Le cellulasi vengono suddivise in due classi:
esoglucanasi ed endoglucanasi. Mentre le prime sono in grado di staccare unità di cellobiosio
dalle estremità della catena glucidica (sono, infatti, anche note con il nome di cellobioidrolasi),
le endoglucanasi, al contrario, rompono i legami glicosidici interni alla catena. (Galante et al.
2003)
Ne consegue come l’azione delle endoglucanasi, a parità di unità enzimatiche, conduca ad una
riduzione del grado di polimerizzazione della cellulosa decisamente più consistente rispetto a
quella operata delle cellobioidrolasi.
1.2 LA CARBOSSIMETIL CELLULOSA
1.2.1 Introduzione e storia della carbossimetil cellulosa
Figura 1.6. Struttura (A) e polvere (B) della carbossimetil cellulosa.
Perché alcuni dei biopolimeri naturali possano essere effettivamente sfruttati come una
importante risorsa rinnovabile è, molto spesso, necessario passare attraverso un’alterazione
delle loro proprietà, operata mediante tipologie differenti di modifiche chimiche. La
carbossimetilazione dei polisaccaridi (Fig. 1.6) rappresenta un processo abbondantemente
studiato nel corso dell’ultimo secolo, in quanto estremamente poco complesso e in grado di
fornire prodotti dotati di notevoli potenzialità applicative (Heinze et al. 2005). In generale, il
polisaccaride oggetto di carbossimetilazione viene attivato grazie ad un trattamento con soda,
quindi convertito in seguito alla reazione con acido monocloroacetico (piuttosto che con il
corrispondente sale sodico), secondo una tipica eterificazione di Williamson, generando il
derivato carbossimetilato del polisaccaride di partenza. Non soltanto la cellulosa e l’amido
A B
- 15 -
possono essere impiegati come materie prime, ma anche una lunga lista di altri polisaccaridi
ottenuti da fonti anche fortemente diversificate. Alcuni esempi in tal senso vengono riportati
nella Tabella 1.1.
Tabella 1.1. Struttura di alcuni polisaccaridi impiegati per il processo di carbossimetilazione
(Heinze 2005).
La carbossimetil cellulosa (CMC) venne sintetizzata per la prima volta nel 1918 e prodotta
industrialmente, nei primi anni ’20, presso le IG Farbenindustrie AG, in Germania (Heize et al.
2005). Da allora, la sintesi della CMC ha conosciuto significativi miglioramenti e
aggiornamenti, sia nella tecnologia di processo, che, conseguentemente, per quanto concerne
l’efficienza di produzione e la qualità del prodotto. Carbossimetil cellulose di diverse tipologie
sono attualmente coinvolte in svariati processi industriali ed in numerosi aspetti della vita
quotidiana (vedi Tab. 1.2).
Tabella 1.2. Settori di applicazione industriale della carbossimetil cellulosa (Heinze 2005).
A fronte di un numero così vasto di applicazioni (vedi oltre), la carbossimetil cellulosa si
qualifica con pieno merito come il più importante etere di cellulosa disponibile sul mercato. E’