“La democrazia è inevitabilmente legata alla dimensione statuale. Senza uno
Stato non può esistere cittadinanza, senza cittadinanza non vi può essere
democrazia”
J.Linz (1995)
Introduzione
Questo lavoro si è proposto di sviluppare uno strumento di valutazione
oggettiva dei regimi politici. Il framework teorico di riferimento è stato elaborato
sviluppando ed integrando gli studi sul rapporto tra Stato e cittadini di alcuni
autorevoli autori.
Lo studio prende avvio dalla messa a fuoco della critica di teorie che, sino agli
anni '90, avevano rappresentato la prospettiva dominante di lettura delle
trasformazioni dei regimi politici e dei processi di democratizzazione. Tali teorie
non sono state importanti solamente sul piano accademico, esse hanno anche
rappresentato il quadro di riferimento ideologico delle politiche adottate dagli
organismi internazionali nei riguardi dei paesi in via di sviluppo, che, a partire
dagli inizi degli anni '60, si sono impegnati in complessi e spesso sanguinosi
processi di democratizzazione e state-building.
Questo insieme di teorie descriveva il processo di transizione come un
continuum lineare ed unidimensionale che dall'autoritarismo conduceva
necessariamente alla democrazia. Esse, inoltre, assumevano che al processo
di democratizzazione dovessero corrispondere una riduzione della presenza
dello Stato ed una conseguente riforma della governance.
Gli eventi che hanno seguito la dissoluzione del regime sovietico hanno messo
in luce le debolezze - preminentemente connesse alla scarsa attenzione posta
sul rapporto tra Stato e cittadini - di questo corpo di teorie. In questo modo il
peso dei critici del paradigma della transizione, del cui ambito tali teorie
facevano parte, è stato rafforzato.
Il lavoro di ricerca è proseguito con l'analisi di una letteratura molto vasta e ricca
di contributi critici. Da questi è emerso il lavoro di studiosi che si sono
concentrati proprio sul ruolo dello Stato nelle transizioni ed hanno individuato
4
nuovi schemi esplicativi. Tra questi autori assumono particolare rilievo Linz
(1996), Stepan (1996) e O'Donnell (1994). Essi sono tra i più autorevoli
sostenitori dell'asserzione alla base della critica al paradigma: Non c'è
democrazia senza Stato.
La prima parte del lavoro è consistita in un'analisi approfondita della letteratura
su democrazia e statualità, concetti alla base dell'intero ragionamento. Sono
stati quindi individuati i due autori che in modo più avanzato ed autorevole
permettevano di sviluppare un framework esplicativo, rigoroso ed obiettivo. Uno
strumento, in sintesi, per analizzare e misurare il posizionamento dinamico di
un regime politico in transizione e permettere quindi analisi comparate.
Per quanto riguarda il grado di democrazia, inteso come l'entità con cui si
manifesta una particolare configurazione del rapporto tra Stato e cittadini, è
stato utilizzato lo studio di Charles Tilly (2009). Egli ha individuato quattro
variabili che definiscono la democraticità di un regime, ossia: ampiezza,
uguaglianza, protezione e consultazione mutuamente vincolante nel rapporto
tra le due entità. Egli ha inoltre spiegato come misurare queste variabili
servendosi, previo adattamento, delle scale di valutazione pubblicate
annualmente da Freedom House. In breve, la dimensione democratica, definita
dall'intensità con cui le quattro variabili si presentano, viene misurata con i valori
assegnati annualmente da Freedom House, ed è scandita dalla soglia minima
definita dai requisiti formali che, secondo Morlino (2003), deve rispettare un
regime per essere identificato come democrazia.
La seconda dimensione, ovvero la statualità, è stata trattata seguendo il
percorso di studio intrapreso da Joel S. Migdal (2001). La maggior parte dei
critici del paradigma della transizione ha trattato solo parzialmente il concetto di
statualità, probabilmente perché preoccupata principalmente di dimostrare la
validità dello schema a due dimensioni che avevano introdotto. Il contributo di
Migdal, con il quale vi è stato un utile incontro e colloquio, è di particolare
interesse. Il suo approccio state-in-society suggerisce di studiare lo Stato
inserendolo nel contesto di cui è parte integrante: la società. La statualità di cui
parla lo studioso è misurabile valutando il grado di controllo che un attore
sociale, come lo Stato appunto, esercita all'interno dell'ambiente che lo
5
circonda. Ciò tuttavia accade solo una volta che tale attore sociale abbia
battuto gli attori rivali nella mobilitazione dei cittadini, mirata alla realizzazione
dei propri scopi. Altrimenti, dice Migdal, è probabile che si assista a delle
cosiddette accomodation tra poteri concorrenti. Egli però non giunge a proporre
un set di indicatori utilizzabile per la misurazione del controllo sociale. Si limita a
prefigurare una scala costituita da tre stadi: compliance, participation e
legitimation.
Migdal inoltre mette in guardia i suoi lettori riguardo al fatto che la maggior parte
dei metodi di misurazione della statualità non tengono conto della
corrispondenza tra azione dello Stato e risposta dei cittadini. Spesso infatti la
statualità viene valutata unicamente in base alla sua immagine, mentre viene
tralasciato l'impatto concreto.
La scelta di misurare il grado di statualità secondo la scala di Migdal ha
richiesto la costruzione di un set di indicatori appropriati a misurare il grado di
controllo sociale. Si è quindi deciso di creare una sequenza di indicatori tra loro
correlati e mirati alla valutazione delle funzioni che solitamente competono ad
uno Stato (es. polizia, fiscale, educativa). Mentre gli uni sono stati destinati a
misurare l'azione dello Stato, gli altri sono stati destinati a misurare il relativo
grado di risposta dei cittadini. La corrispondenza tra questi indicatori è stata poi
valutata in termini di controllo sociale
1
.
Dal punto di vista teorico, il contributo originale di questo lavoro è costituito
dallo sviluppo di uno strumento di misurazione del posizionamento di un regime
politico in un framework che pone in relazione democrazia e statualità. Tale
schema è rappresentato graficamente attraverso un piano cartesiano, dove
l'asse delle x è riferito alla democrazia e l'asse delle y riguarda il grado di
statualità. Il lavoro si sviluppa poi con la messa a punto di un metodo di
misurazione delle due dimensioni - considerate come tra loro strettamente
correlate - attraverso la definizione di intervalli, soglie ed un set di indicatori.
La seconda parte del lavoro è dedicata alla prova dello strumento.
1
Laddove l'azione statale è stata confermata dalla risposta dei cittadini è stato riscontrato un
alto grado di controllo sociale, e viceversa.
6
Per quanto riguarda il primo caso, Israele, si è scelto di analizzare la sua
posizione nello spazio bidimensionale tra il 2008 ed il 2009 – tra le dimissioni di
Ehud Olmert e l'inizio del secondo mandato di Benjamin Netanyahu - operando
una comparazione con altri regimi.
Il secondo caso scelto, la Russia, è stato analizzato diacronicamente dal 1991
al 2008. Lo studio ha valutato il percorso intrapreso dalla Federazione Russa
dalla sua nascita fino alle elezioni presidenziali del 2008.
Nonostante si siano incontrate alcune difficoltà nell'elaborazione di quest'ultima
parte - principalmente a causa della mancanza di dati importanti come serie
storiche ed altri indici necessari alla comparazione diacronica - gli esiti sono
stati, come si vedrà, positivi.
Il presente elaborato è strutturato in due parti. La prima, quella teorica, comincia
(primo capitolo) con la critica del paradigma della transizione e una rassegna
dei contributi della letteratura. Il secondo e il terzo capitolo trattano nel dettaglio
le due dimensioni, rispettivamente, della democrazia e della statualità. Il quarto
capitolo conclude la parte teorica con la messa a punto di un framework che
considera le due dimensioni, la scelta dei criteri di misurazione e del metodo di
rilevazione dei dati. La seconda parte è invece applicativa: utilizza il framework
di riferimento per valutare e collocare graficamente i due casi scelti; Israele e
Russia (quinto e sesto capitolo).
7
Parte I
1. Paradigma della transizione e ripresa del ruolo dello
Stato
1.1 Origini ed aggiustamenti del paradigma della transizione
Con la fine della guerra fredda, il mondo venne pervaso da un forte entusiasmo
dovuto alla presunta fine della storia
2
, fase in cui la libertà cara a Locke aveva
vinto sul Leviatano di Hobbes.
3
La transizione verso la democrazia divenne un
tema molto dibattuto, e la terza ondata predicata da Samuel Huntington (1991)
sembrò aver trovato una conferma ineluttabile. Fu così che l'ambiente
scientifico assistette alla nascita del cosiddetto paradigma della transizione
4
, un
insieme di teorie delle transizioni accomunate dall'idea che l'instaurazione di
regimi democratici dovesse prescindere dal ruolo dello Stato a favore di un
approccio society-centred.
Gli ultimi anni di guerra fredda furono contraddistinti dal quadro politico
caratterizzato dall'asse Tatcher-Reagan, che sin dai primi anni '80 aveva
promosso l'idea che lo Stato dovesse essere ridimensionato tramite
privatizzazioni e deregulation, in quanto identificato come un peso per lo
sviluppo della società. Questa tendenza, dominante tra statisti, practitioners e
membri dell’accademia, influenzò inevitabilmente anche il discorso sulla
democratizzazione.
Il framework concettuale che, a partire dagli anni '90, ha caratterizzato il
dibattito sui sistemi politici comparati, si basava su alcune ipotesi riassumibili in
un assunto: il processo che inizia con un indebolimento dello Stato autoritario e
termina con una prima tornata elettorale competitiva, segue un percorso lineare
che prescinde dal ruolo dello Stato.
2
Fukuyama F. (1992), La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli.
3
Cappelli O. (2008), Pre-Modern State-Building in Post-Soviet Russia, Journal of Communist
Studies and transition in politics, p. 534.
4
Dall'inglese transitology.
8
Tale assunto ha tuttavia storicamente dimostrato di non essere corretto. Come
riporta Cappelli (2005), nel 1999, Freedom House
5
valutava dodici ex
repubbliche sovietiche come non democratiche e solo cinque come ancora in
transizione. I paesi rimanenti erano ritenuti dei regimi autoritari caratterizzati da
gradi differenti di consolidamento. Nel 2009 solo l'Ucraina e la Georgia – il 10%
del territorio dell'ex Unione Sovietica - avevano mantenuto lo status di paesi in
transizione.
6
La visione dell'epoca bipolare opponeva due sistemi opposti in un confronto a
somma zero, per cui la linea divisoria tra democrazia e comunismo era molto
netta. In questo caso infatti la presenza di elezioni competitive bastava a
differenziare i due modelli di regime politico. Venuta a mancare una divisione
tanto netta del mondo, una soglia formale non poteva più essere utilizzata per
distinguere le democrazie dalle non democrazie, pur rimanendo una condizione
necessaria.
In seguito lo schema fu perfezionato. Vennero infatti integrate ulteriori variabili e
furono previsti molti regimi ibridi diversi tra loro, che, situandosi tra due poli,
trasformarono la dicotomia democrazia/non democrazia in un continuum
dinamico. Nella figura che segue vediamo un esempio di continuum utilizzando
come parametro ipotetico il grado di libertà.
Fig. The democratic transition continuum
7
5
Organizzazione indipendente volta alla promozione della libertà e democrazia nel mondo.
6
Ibid.
7
Cappelli O. (2005), Oltre la democratizzazione, Meridione. Sud e Nord del mondo, Vol.3.
9
Come mostra la figura, lungo la linea della libertà, si collocano svariati regimi
ibridi, i quali si differenziano dai due poli del continuum per il diverso grado.
1.2 Critica al paradigma della transizione: no State, no democracy
Il paradigma della transizione costituì lo schema dominante, sia nelle analisi
teoriche sia nelle elaborazioni di policies, per tutti gli anni ’90.
Nel 1995, a Taipei, Taiwan, si tenne un incontro organizzato dal National
Endowment for Democracy che vide alcuni dei maggiori studiosi dei processi di
democratizzazione discutere sulla tematica Consolidating third wave
democracies: trends and challenges.
A Taipei il carattere illusorio delle eccessive aspettative riguardo ai processi di
democratizzazione venne messo in luce.
Di particolare rilievo furono i contributi di Juan Linz e Alfred Stepan, che si
interrogarono su cosa impedisse il completamento di una transizione
democratica, o il suo consolidamento, prendendo spunto dall'evidenza empirica
rappresentata dall’esperienza dei paesi dell’ex blocco sovietico.
“Innanzitutto, in una società moderna, non si possono tenere elezioni libere e
autorevoli, i vincitori non possono esercitare il monopolio della forza legittima, e
i cittadini non possono vedere i propri diritti protetti dalla legge, a meno che non
esista uno stato. In alcune parti del mondo vi sono conflitti così intensi
sull’autorità’ e giurisdizione della polis e sull’identità e le lealtà del demos, che
non esiste in realtà nessuno stato. E, senza stato, niente democrazia.”
8
Linz e Stepan identificano la stateness, o statualità, come condizione minima
per il consolidamento democratico. Occorre mettere in evidenza che lo Stato di
cui parlano gli autori non è necessariamente democratico. La presenza dello
Stato non determina la natura del regime politico, ma è la condizione base per
poter parlare di una società moderna, che in base al grado di libertà, si
8
Linz J., Stepan A. (1996), Toward consolidated democracies, Journal of democracy, Vol.7,
No.2, p.94.
10
posizionerà sul continuum tra autoritarismo e democrazia. Quest’ultima senza
dubbio necessita un grado di libertà maggiore dell’autoritarismo, ma la
presenza dello Stato ha la stessa funzione in entrambi i casi.
9
Dopo Taipei, l’imperativo del downsizing the state ha progressivamente
abbandonato il dibattito, restituendo rilevanza al processo di state-building in
funzione del consolidamento democratico
10
.
La tendenza generalizzata post Washington Consensus
11
, dovuta alla
progressiva disillusione riguardo ai percorsi intrapresi dai paesi in transizione,
venne principalmente ispirata dal noto report della Banca Mondiale del 1997,
“The state in a changing world”.
12
Questo rapporto, oltre a riguardare il ruolo e
l’efficacia dello Stato, suggeriva come migliorare la condizione di sviluppo del
mondo che stava cambiando con grande rapidità. In sostanza, il report si
pronunciava a favore del sostegno che l’organizzazione statale avrebbe dovuto
dare al mercato, che non doveva essere strozzato da pianificazioni
centralizzate, ma al contrario aiutato e rivitalizzato per poter contribuire allo
sviluppo. Proprio questo, secondo il report, era il ruolo dello Stato, che, per
facilitare il cambiamento della società, doveva essere rinforzato.
In breve, l'analisi empirica ha messo in discussione il quadro elaborato durante
il periodo appena successivo alla guerra fredda, nel corso del quale tra le
principali istituzioni finanziarie e le amministrazioni più importanti prevalse la
tendenza ad applicare gli imperativi della democrazia liberale di stampo
occidentale a contesti tra loro molto differenti.
Il ritorno in scena dello Stato all’interno del discorso sulle transizioni
democratiche non coinvolse però le dimensioni genuinamente politiche della
9
Sempre a Taipei intervenne anche Guillermo O’Donnell, il quale fornì un contributo di natura
metodologica molto significativo in merito ai cosiddetti sistemi ibridi.
10
L’eredità lasciata dai contributi di studiosi come Linz, Stepan e O’Donnell ha influenzato solo
parzialmente gli orientamenti della Banca Mondiale.
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Termine coniato nel 1989 dall'economista John Williamson per definire le dieci politiche
economiche inserite nel pacchetto di riforme standard prescritte ai paesi in via di sviluppo da
istituzioni come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale. In seguito il termine
venne utilizzato per fare riferimento ad una tendenza generalizzata basata sul mercato.
12
World bank (1997), The State in a changing world, Washington, World Bank.
11