VI
Così la dottrina ha iniziato ad occuparsi con più attenzione della
delegificazione, per capire cosa fosse, come operasse e soprattutto se fosse
compatibile con la Costituzione e i principi generali che da essa o
dall’ordinamento nel suo complesso derivano e che ne sono i pilastri
fondanti, dato che, in caso negativo, non la si sarebbe più potuta
considerare un’occasione per qualche interessante esercitazione sui
massimi sistemi, perchè, con le dimensioni che aveva assunto, quel sistema
già così poco “sistematico” delle fonti del diritto, dalla delegificazione
avrebbe potuto ricevere magari non il colpo di grazia, ma quasi.
Ci si è resi subito conto, anche rivedendo le ricostruzioni con cui in
passato si era cercato di spiegare il funzionamento del meccanismo
giuridico che permetteva di “sostituire” una legge con un regolamento, che
effettivamente la delegificazione aveva potenzialità eversive: pareva che la
legge disponesse della propria forza al di là di quanto consentito dalla
rigidità della Costituzione, che creasse una fonte concorrenziale ad essa,
ovvero, in definitiva, che permettesse ad un regolamento di abrogare altre
leggi attribuendogli “forza di legge”, ed anzi lo “autorizzasse” a farlo, per
usare la terminologia di quella che è divenuta la prima disciplina positiva
della delegificazione, l’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n.
400.
Per cui, sullo sfondo dell’eterna lotta tra legittimità ed effettività che
anima il mondo del diritto, di quella disposizione, nata in effetti con questo
intento, si è detto che delineasse l’unico “modello di delegificazione”
conforme a Costituzione, e si è cercato a tutti i costi di dimostrare che
effettivamente così fosse, ovvero che rispettando il modello legislativo si
sarebbe rispettata la Costituzione, il principio di legalità, quello di
gerarchia, e relativi corollari: se una legge “deroga” il modello – e si ritiene
che possa liberamente farlo essendo la L. 400/88 una legge ordinaria - da
questo deriva il suo essere incostituzionale, e lo è solo quella specifica
legge di delegificazione, non l’intero istituto, cosa che avrebbe
conseguenze pratiche a dir poco dirompenti.
E’ stato quindi giocoforza partire proprio da lì, dal verificare se la
dottrina quasi unanime, pur parlando in proposito di “espedienti”, avesse
ragione nel dire che sostanzialmente la delegificazione è inquadrabile
nell’attuale sistema delle fonti.
Tradotto in concreto significa verificare se, operando al di fuori delle
materie coperte da riserva assoluta di legge - e già la riserva è un qualcosa
di tutt’altro che pacifico nella sua definizione -, determinando le “norme
generali regolatrici della materia” che poi il regolamento andrà a
disciplinare, disponendo l’abrogazione delle norme vigenti “con effetto
dall’entrata in vigore delle norme regolamentari”, la legge non faccia nulla
che non possa legittimamente fare.
VII
Tutto questo dovrebbe assicurare una cosa fondamentale, ovvero che è
la legge di delegificazione ad abrogare le norme di legge che disciplinano
la materia che ne è l’oggetto, e che l’entrata in vigore dei regolamenti non è
altro che la condizione al verificarsi della quale la legge, com’è nella logica
del sistema, abroga altre leggi.
Il lavoro, nel primo capitolo, affronta proprio questi temi, prendendo
come fulcro da una parte il principio di legalità, espressione massima dello
stato di diritto da cui discendono tutti i principi fondamentali, dall’altra le
“norme generali regolatrici della materia”, che, garantendo il rispetto del
principio di legalità, garantirebbero la compatibilità costituzionale della
delegificazione.
Di queste norme, anche avvalendosi del confronto con i principi e
criteri direttivi previsti per la delegazione legislativa, si chiarisce dapprima
la portata prescrittiva, alla luce della funzione che devono svolgere:
dovrebbero delimitare la materia da delegificare. Questo soprattutto perchè,
per poter imputare effettivamente l’abrogazione delle norme da delegificare
alla legge, o la legge le individua espressamente - il che non può fare: non
in pratica, per l’ampiezza che caratterizza quasi tutte le delegificazioni, ma
soprattutto non dal punto di vista logico-giuridico perchè altrimenti
vanificherebbe la stessa ragion d’essere della delegificazione - o pone altre
norme che con esse sono incompatibili, o, al limite, tali da poter dire che
ridisciplinano l’intera materia: niente di più di una parafrasi dell’art. 15
delle Preleggi, che dà conto delle modalità operative dell’abrogazione.
Le “norme generali regolatrici” dovrebbero quindi esser strutturate in
modo tale da essere incompatibili con quelle che si intendono abrogare, ma
questo non è per definizione: si tratta di norme, appunto, generali, che non
potrebbero causare direttamente l’abrogazione di norme che non
presentassero la medesima caratteristica. Quanto alla ridisciplina della
materia, indipendentemente dal fatto che nella prassi le “norme generali
regolatrici” non regolano nulla, perchè si sono ridotte, con il beneplacito
della giurisprudenza, ad indicazioni di metodo ed enunciazioni di obiettivi,
quando non sono ricavate, per relationem, dalle leggi “risparmiate” dalla
delegificazione o “sostituite” dai pareri delle commissioni parlamentari
competenti per materia, è opinione pacifica che questo tipo di abrogazione
non sia compatibile con l’art. 17, comma 2, dato che lascia all’interprete
uno spazio tale da permettergli di decidere quali sono le norme da abrogare.
Alcuni preferiscono quest’ultima soluzione rispetto a quella adottata
dalla prassi, ovvero l’indicazione delle norme operata dal regolamento: e
ciò in quanto, o in virtù dell’elencazione, o per incompatibilità, che in
questo caso sì, può, anzi deve, verificarsi, qui non si sfugge alla
conclusione che ad abrogare è il regolamento, e non la legge, conclusione
che in effetti qualcuno ammette.
VIII
In virtù dell’equazione, per molti ancora valida, per cui un atto che
abroga una legge è un atto avente forza di legge (quantomeno attiva), ci si
troverebbe a questo punto di fronte ad uno stravolgimento del sistema delle
fonti, anche se non manca chi riscopre la nozione di forza di legge
sostanziale, nata allo scopo precipuo di argomentare la sottoponibilità di
alcuni regolamenti dotati di una particolare “forza” al sindacato della Corte
costituzionale.
Come si dimostrerà, questa equazione è superabile, e lo è sia per la
crisi della nozione unitaria di forza di legge, sia, soprattutto perchè,
attraverso l’istituto della deroga e la correlativa dispositività delle norme,
pacificamente ammessi, si può argomentare che la legge, più che della
propria forza, dispone innanzitutto della propria competenza, cosa che, nei
limiti costituzionali, può ben fare.
In tal modo non è che indirettamente non disponga anche della propria
“forza”, benchè ci siano autorevoli opinioni che lo sostengono, ma è
sufficiente invertire l’ordine dei fattori, ovvero considerare la forza formale
strumentale all’esplicarsi del ruolo della legge come norma sulla
produzione, cioè attributiva di competenza, per dimostrare che
effettivamente in questo non c’è nulla di eversivo: è la Costituzione che ha
attribuito alla legge la forza per determinare la competenza del
regolamento, nel che consiste la subordinazione di quest’ultimo alla legge
stessa, per cui la preferenza di legge può divenire “preferenza di
regolamento” quando il legislatore dispone della sua competenza a favore
del regolamento secondo lo schema della dispositività.
Si passa così al complesso tema della competenza, della quale si
ripercorrerà lo sviluppo nel nostro ordinamento, soprattutto dopo l’avvento
della Costituzione, per capire di quale competenza si stia parlando, e se si
possa predicare la competenza in relazione ai regolamenti di
delegificazione: non si riesce a superare con l’argomentazione nozioni
preliminari consolidate, ma pare che, intendendola come preferenza, si
possa definire il regolamento di delegificazione “fonte competente”.
Questa lettura, che spiega molto più agevolmente di quanto non si sia
in grado di fare ricorrendo solamente a gerarchia e preferenza di legge, la
dinamica della delegificazione in base a concetti e istituti riconosciuti
validamente operanti nel nostro sistema delle fonti, porta anche a vedere in
modo più lineare il problema della “resistenza” della delegificazione,
oggetto del secondo capitolo, permettendo di far fronte ad estemporanei
interventi del legislatore nelle materie delegificate, anche senza aderire alle
premesse che conducono ad una ricostruzione del sistema delle fonti
esclusivamente in base al principio di competenza.
Si esaminerà quindi la questione della prevalenza logica delle norme
sulla produzione, fra cui rientrano anche le clausole di abrogazione
IX
espressa, solitamente utilizzate per presidiare il riparto di “competenza”
operato dalle leggi di delegificazione, per verificare in che modo e in quali
limiti si possano tradurre in effettivo vincolo positivo, senza portare ad una
limitazione della funzione legislativa come tale.
Infine si considereranno le varie possibilità di copertura costituzionale
della delegificazione, che non si limitano alla riserva di regolamento che,
anzi comporterebbe - questa sì - una trasformazione radicale del sistema, in
particolare della forma di governo, ragion per cui si ritiene che la
delegificazione possa ben venire tutelata con altri mezzi, fermo restando
che la migliore tutela sarebbe la “buona volontà”, e un po’ di attenzione, da
parte del legislatore.
Dopo averla esaminata soprattutto in chiave dogmatica, si passerà poi
a considerare quale sia lo stato della delegificazione oggi nel nostro
ordinamento, trattando dell’organizzazione amministrativa - dove il comma
4-bis dell’art. 17 della legge 400/88 ha fatto pensare, più di quanto non
accada in generale, ad una forma di riserva di regolamento, anche se non
vera e propria - e delle tormentate vicende delle leggi di semplificazione,
che ora divengono di “riassetto normativo” in conseguenza ed in attuazione
della riforma del Titolo V della Costituzione operata dalla legge
costituzionale 3/2001.
Questa riforma parrebbe, nelle prospettive, dover portare ad un
recupero del ruolo della delega legislativa, e ad ulteriori conseguenze sulla
delegificazione, dovute al nuovo assetto delle funzioni legislativa,
regolamentare ed amministrativa fra i soggetti dell’ordinamento, sulle quali
ci si soffermerà brevemente, dando conto anche dell’orientamento che sta
maturando nella giurisprudenza costituzionale.
Ciò porterà, in conclusione, a riprendere alcune delle tematiche trattate
nel primo capitolo, per affrontare una questione di fondamentale rilievo
pratico, ovvero il sindacato giurisdizionale sulla delegificazione.
Indipendentemente dal fatto di riconoscere ai regolamenti di
delegificazione una qualche “forza di legge”, così da renderli sottoponibili
al sindacato diretto della Corte costituzionale, del che alcuni avvertono
l’opportunità data la loro particolare posizione e capacità innovativa, si
vedrà che la Corte ha già trovato delle vie, più o meno efficaci o più o
meno convincenti, per operare un sindacato indiretto, fra cui pare meriti
particolare attenzione la “riscoperta” della dottrina espositiana del “diritto
vivente”.
Per quanto riguarda la tutela diretta si ritiene comunque che la strada
maestra passi per una valorizzazione del ruolo dei giudici comuni, come ha
indicato la stessa Corte costituzionale, forse anche per evitare di affrontare
ex professo la questione dell’assetto del sistema delle fonti così
X
efficacemente fatta emergere dalla delegificazione: in particolare si
propende, de iure condendo, per una riforma del processo amministrativo,
magari strutturandone uno ad hoc per le esigenze di tutela legate ai
regolamenti, che non sono, nè potrebbero essere, le stesse presentate dal
provvedimento amministrativo.
Molto è rimasto fuori o ai margini: in primis il ruolo che potranno
avere le Regioni nella delegificazione, la questione del se i regolamenti
statali di delegificazione verrano sostituiti da una rilegificazione a livello
regionale, la possibilità che vi possano essere dei regolamenti regionali di
delegificazione... anche se il trattarne oggi, nel magma in piena ebollizione
delle riforme costituzionali ancora in fieri, fa venire in mente la nota
vicenda del legislatore che, con un tratto di penna, cancella intere
biblioteche.
Molto, appunto, è rimasto fuori, anche nella trattazione di principi e
istituti, ma, come detto in una delle frasi riportate all’inizio di questa
introduzione, ogni discorso è finito...
CAPITOLO I
LA DELEGIFICAZIONE NEL SISTEMA DELLE FONTI
1. Introduzione alla delegificazione: le definizioni
La delegificazione non è un fenomeno unitario, tanto è vero che forse
sarebbe meglio ragionare di “delegificazioni” o, meglio ancora, ricordare
che sotto tale nome vengono ricompresi istituti estremamente differenziati,
il che porta a ricercare un significato “proprio” del termine, coniato da
Mortati
1
sulla scorta della teoria della c.d. degradazione, prima tesi
storicamente elaborata, agli inizi del ‘900, contestualmente alla stessa
individuazione del regolamento contra legem, per giustificarne
l’operatività, e che consiste nel ritenere che il regolamento abroghi leggi
private della loro forza, cioè, appunto, “delegificate”
2
.
Considerando che quella che se ne vuole fare qui è una trattazione dal
punto di vista strettamente giuridico, pare che la definizione più efficace e
lineare, utilizzata tra l’altro anche recentemente dalla Corte costituzionale,
sia quella che ne ha dato in un suo lavoro Martines, secondo cui: “La
delegificazione in senso tecnico consiste nel trasferimento della disciplina
normativa di una determinata materia o attività dalla sede legislativa alla
sede regolamentare”, con la conseguente “trasformazione [della disciplina]
da legislativa (di primo grado) in regolamentare (di secondo grado)”
3
. Il
che non significa svalutare la pregnanza delle altre definizioni che ne sono
state date, ma ritenere che quella che si è enunciata colga il tratto
fondamentale di quello che i giuristi generalmente intendono quando
discorrono di “delegificazione”. Altri hanno utilizzato definizioni più
ampie o che portano già ad accostarsi ad aspetti più delicati della
delegificazione e che quindi più riflettono la specifica impostazione del
singolo autore sull’argomento
4
.
1
MORTATI C., Osservazioni sulla potestà regolamentare del Governo, in Raccolta di
scritti, Milano, 1972, II, 413.
2
v. infra prf. 5.
3
MARTINES T., Delegificazione e fonti del diritto, in Scritti in onore di Paolo
Biscaretti di Ruffìa, Milano, 1987, 867.
4
Oppure entrano già nel merito della ricostruzione del meccanismo operativo della
delegificazione, come fa PALEOLOGO G. G., L’attività normativa del governo nella
legge sull’ordinamento della presidenza del consiglio dei ministri, in Foro it., 1989, V,
c. 354, il quale, utilizzando in modo eclettico termini che richiamano ricostruzioni
diverse, afferma che la delegificazione consiste nella possibilità che il “legislatore [..]
degradi la legislazione vigente in un determinato settore, attribuendo alla stessa
CAPITOLO II
PERMANENZA DELLA POTESTA’ REGOLAMENTARE E
“RESISTENZA” DELLA DELEGIFICAZIONE
1. La “resistenza” dei regolamenti di delegificazione: modifica e
abrogazione da parte di regolamenti successivi
La specificità dei regolamenti di delegificazione e il carattere
permanente della potestà regolamentare anche in questo ambito è un tema
che più volte si è sfiorato nel corso della trattazione, specialmente quando
si è esaminata la possibilità che ad essi fosse attribuita forza di legge e la
correlativa questione dell’elusione dell’art. 76 Cost.
In proposito le considerazioni più comuni sono due, ovvero, da un
lato, l’unitarietà della potestà regolamentare e, dall’altro, la compresenza in
uno stesso regolamento di disposizioni appartenenti a tipi regolamentari
diversi.
Dei regolamenti, infatti, pur valutando diversamente la portata delle
categorizzazioni ex art. 17 L. 400/88 ed evidenziando in vari modi la
peculiarità dei regolamenti di delegificazione, si afferma l’unità nella
secondarietà
1
.
E’ stato significativamente detto che l’unico punto fermo da
mantenere quale “cifra più altamente espressiva ed identificante” del
regolamento in quanto tale, indipendentemente dal tipo, è costituito dalla
“strumentalità necessaria alla legge”, ovvero dalla loro “naturale
vocazione alla “secondarietà” ”, per cui in senso lato, anche i regolamenti
di delegificazione “eseguono” la volontà della legge
2
, dal momento che la
1
Considera unitario il potere regolamentare sottolineando come ciò derivi in particolare
dal considerarlo “potere di intermediazione tra sfera politica, sfera amministrativa e
cittadini, dotato di un grado variabile, ma sicuro, di autonomia rispetto alla legge”,
CARETTI P., Tendenze evolutive dei poteri di direzione dell’amministrazione: alcune
esperienze a confronto, in CARETTI P.-DE SIERVO U. (cur.), Potere regolamentare e
strumenti di direzione dell’amministrazione, Bologna, 1991, 11 ss.
2
Conforme CERRONE F., La potestà regolamentare, cit., 28 ss. che sottolinea come la
funzione essenziale della legge più che a dar loro fondamento giuridico consisterebbe
nel “rimuovere l’ostacolo che il criterio gerarchico oppone all’emanazione di norme
regolamentari in luogo di precetti di rango primario”, sia che si adotti la tesi
dell’abrogazione differita, sia che si imputino abrogazione e modificazione delle norme
legislative al regolamento. Conforme anche PIZZORUSSO A., Il potere regolamentare,
cit., 495 e 502 ss., che dalla secondarietà fa derivare il comune regime giuridico dei
regolamenti e nel contempo assimila i regolamenti “delegati” e quelli “indipendenti” a
quelli esecutivi, argomentando in base al fatto che l’esigenza della funzione
58
attuano e la integrano disponendo anche contra legem in quanto a ciò da
essa autorizzati
3
.
La terminologia richiama quella utilizzata dall’art. 17, comma 1, della
L. 400/88 per distinguere le tipologie regolamentari, senza che però le
venga riconosciuto alcun valore prescrittivo: si afferma infatti che, data
l’estrema variabilità dei modi in cui si atteggia il rapporto legge-
regolamento, non è possibile “fissare in formule a pretesa valenza teorico-
dogmatica i termini concreti di siffatta, reciproca combinazione”, dal che
deriva che ogni tentativo di categorizzazione può al massimo riuscire a
descrivere i fenomeni più evidenti, essendo inadeguata a rappresentare la
realtà “per eccesso”, poiché molti regolamenti si dimostrano
“concettualmente indistinguibili, perlomeno per la gran parte delle loro
applicazioni”
4
.
Un qualche valore alla categorizzazione sembra invece darlo chi
sostiene che i regolamenti di delegificazione sarebbero da considerarsi una
variante rispetto ai regolamenti di attuazione-integrazione, in quanto, dato
che il comma 1 dell’art. 17 contiene l’elenco delle tipologie regolamentari,
non si comprenderebbe perché il secondo comma dovrebbe aggiungere un
tipo ulteriore “che rientra pienamente nell’elenco dei precedenti”.
interpretativa dell’amministrazione si avverte “soprattutto nei casi in cui la disciplina
legislativa è scarsa, incompleta o incoerente (o addirittura manca [..] per cui non è
illogico pensare che il bisogno di un regolamento di esecuzione si avverta assai di più
nei casi in cui le disposizioni da eseguire mancano [..]”
3
RUGGERI A., Fluidità dei rapporti tra le fonti, cit., 789 ss. che sottolinea inoltre
come questo non faccia altro che “chiudere gli spazi” ai regolamenti di delegificazione,
dato che quelli attuativo-integrativi tenderebbero a sovrapporre la delegificazione alla
delega, e quelli indipendenti presuppongono materie non ancora “legificate”, dal che
deduce la “estrema, connaturale “fluidità” delle delegificazioni, il loro alimentarsi
parassitariamente [..] ai “tipi” usuali di produzione giuridica regolamentare, i soli
concretamente disponibili”, delegificazione che proprio in questo avrebbe il suo tratto
distintivo, e quindi una propria autonomia.
4
RUGGERI A., Loc. ult. cit. e in precedenza Id., In tema di “disciplina dell’attività di
governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri”: impressioni e
notazioni sparse sui profili costituzionali della legge n. 400 del 1988, in Scritti Falzea,
vol. III, 2, Milano, 1991, 795-796, dove evidenzia la “perdita di rilievo dei nomina iuris
rispetto alla funzione concretamente esercitata”, giungendo perfino ad ipotizzare un
richiamo alla tesi mortatiana sulla sindacabilità costituzionale di alcuni regolamenti.
Conforme PIZZORUSSO A., Il potere regolamentare, cit., 506 ss., che ritiene come la
distinzione tenda solamente a “mettere in luce la particolarità di talune situazioni e le
conseguenze che ne derivano rispetto al funzionamento della fonte”.
CAPITOLO III
LA DELEGIFICAZIONE DALL’ORGANIZZAZIONE E DALLA
SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA AL RIASSETTO
NORMATIVO DOPO LA RIFORMA DEL TITOLO V DELLA
COSTITUZIONE
1. Nuove frontiere per l’amministrazione dal principio di legalità al
nuovo assetto delle fonti
A partire dagli anni ’90 l’amministrazione è andata incontro, almeno a
livello normativo, a qualcosa di simile ad una rivoluzione.
Alla L. 400/88, che finalmente dopo quarant’anni ha attuato in parte la
previsione dell’art. 95, comma 3, provvedendo all’ordinamento della
Presidenza del Consiglio, sono seguite la L. 8 maggio 1990, n. 142, primo
atto di un significativo rinnovamento degli enti locali, la L. 7 agosto 1990,
n. 241, primo tentativo di disciplina generale del procedimento
amministrativo, il D. Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, che ha introdotto la
separazione fra amministrazione e politica, iniziato la privatizzazione del
pubblico impiego e orientato l’amministrazione verso obiettivi di
efficienza, per arrivare alle c.d. “leggi Bassanini”, specialmente la L. 15
marzo 1997, n. 57, di cui si è parlato come dell’attuazione del federalismo
amministrativo a Costituzione invariata e che, dopo un paio di tentativi
abortiti, ha segnato l’avvio della stagione della delegificazione,
inizialmente concentrata nel campo dell’attività, con la previsione delle
leggi annuali di semplificazione, e poi, inevitabilmente, estesasi
all’organizzazione.
In attuazione del disegno di riforma sono stati emanati vari decreti
legislativi, fra cui i DD. Lgss. 30 luglio 1999 n. 300 e 303
sull’organizzazione del governo (in pratica la legge generale sui Ministeri
di cui alla seconda parte dell’art. 95, comma 3, Cost.) e sull’ordinamento
della Presidenza del Consiglio dei ministri, che ha ricevuto una più
compiuta disciplina dopo il primo intervento della L. 400/88
1
.
1
Dettagliatamente sulla riforma dei Ministeri e della Presidenza del Consiglio (in prima
lettura) v. PAJNO A., TORCHIA L. (cur.), La riforma del Governo – Commento ai
decreti legislativi n. 300 e 303 del 1999 sulla riorganizzazione della Presidenza del
Consiglio e dei Ministeri, Bologna, 2000; v. inoltre SCIULLO G., Alla ricerca del
centro. Le trasformazioni in atto nell’amministrazione statale italiana, Bologna, 2000.
Sui recenti sviluppi in materia, relativamente alla Presidenza del Consiglio, ROSSELLI
O., La riforma della Presidenza del Consiglio dei ministri: problematiche inerenti alle
fonti del diritto, in DE SIERVO U., (cur.), Osservatorio sulle fonti 1999, Torino, 2000,
79
Oggi siamo arrivati alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3 di riforma del
Titolo V della Costituzione e alla relativa prima legge di attuazione, la L. 5
giugno 2003, n. 131
2
, nonchè alla L. 29 luglio 2003, n. 229, legge di
semplificazione che, come si vedrà, ha radicalmente modificato la L. 57/97
in relazione alle esigenze imposte dal nuovo quadro costituzionale.
Tutto ciò ha ridisegnato non solo l’assetto delle funzioni
amministrative, ma anche quello delle fonti in materia amministrativa, per
cui la relativa disciplina è stata non solo “delegificata” ma anche
demandata per non poca parte a fonti privatistiche
3
.
Si tratta del risultato del cambio di atteggiamento cui si è accennato e
che da guida per la riforma dovrebbe tradursi in un diverso modo di fare
amministrazione, attraverso una nuova lettura dei principi che la regolano,
primo fra tutti il principio di legalità.
E’ stato infatti rilevato
4
come il diritto positivo – comprendendo sia
tendenze legislative che orientamenti giurisprudenziali – si stia
indirizzando, proprio dall’inizio degli anni ’90, verso una lettura del
principio di legalità fino a quel momento minoritaria
5
, che lo intende come
“obbligo per l’attività amministrativa (e non per quella normativa) delle
pubbliche amministrazioni di conformarsi ad una previa norma, da
qualsivoglia fonte essa sia posta”.
45 ss.; GRISOLIA M. C., La riforma della Presidenza del Consiglio. Alcune
osservazioni sul potere di organizzazione interna, in DE SIERVO U. (cur.),
Osservatorio sulle fonti 2000, Torino, 2001, 113 ss. e ROSELLI O., I principali atti
normativi conseguenti la riforma della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in DE
SIERVO U. (cur.), Osservatorio sulle fonti 2000, cit., 137 ss. Sui ministeri si veda
TARLI BARBIERI G., Fonti del diritto e riforma dei Ministeri, cit. e CATELANI E.,
Regolamenti di organizzazione e altri atti di disciplina degli uffici ministeriali: lo stato
della riforma, in DE SIERVO U. (cur.), Osservatorio sulle fonti 2000, Torino, 2001.
2
Sulla L. 5 giugno 2003, n. 131, si possono vedere i puntuali commenti raccolti in
FALCON G., (cur.), Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131,
Bologna, 2003, ed in particolare, per quanto qui più interessa, quelli di BIN R., La
delega relativa ai principi fondamentali della legislazione statale (Commento
all’articolo 1, commi 2-6), 21 ss.; PIZZETTI F., Le deleghe relative agli enti locali
(Commento all’articolo 2), 41 ss.; CORPACI A., La potestà normativa degli enti locali
(Commento all’articolo 4), 97 ss. e CARLI M., Esercizio delle funzioni amministrative
(Commento all’articolo 7, commi 1-6), 147 ss.
3
Per una lettura problematica e originale del nuovo assetto delle fonti
dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni in chiave di competenza v.
PIOGGIA A., La competenza amministrativa, - L’organizzazione fra specialità
pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001, specialmente i capp. VII e VIII.
4
LUPO N., Dalla legge al regolamento, cit., 378 ss.
5
v. almeno, fra i più recenti, PALADIN L., Le fonti del diritto, cit. 191 ss. e CASSESE
S. Le basi costituzionali, in CASSESE S. (cur.), Trattato di diritto amministrativo, tomo
I, Diritto amministrativo generale, Milano, 2000.
CAPITOLO IV
IL SINDACATO GIURISDIZIONALE SULLA DELEGIFICAZIONE
Premessa.
La questione del sindacato giurisdizionale in materia di
delegificazione è oltremodo rilevante, anche per il fatto che, come si è
visto, spesso il regolamento si trova sostanzialmente subordinato alle sole
norme costituzionali, caso in cui si parla di “primarietà sostanziale”
1
.
Le soluzioni proposte sono, in ipotesi, tre, ognuna sostenuta da parti
più o meno ampie della dottrina: un sindacato più penetrante della Corte
Costituzionale nei confronti delle leggi di delegificazione prive di idonee
norme generali regolatrici della materia; l’estensione (in genere de jure
condendo, ma non solo) del sindacato della stessa Corte ai regolamenti di
delegificazione proprio in virtù della loro sostanziale primarietà, sulla nota
linea tracciata da Mortati
2
; il ricorso al sindacato diffuso da parte dei
giudici comuni, specialmente di quelli amministrativi, magari riformando il
processo amministrativo nel senso di sviluppare modalità specifiche per un
efficace sindacato sui regolamenti in quanto atti normativi non assimilabili
ai provvedimenti amministrativi
3
.
1
In proposito CARLASSARE L., Il ruolo del Parlamento, cit., 32, afferma che “Il
carattere secondario di una norma non si misura infatti solo dalla posizione gerarchica
della fonte che la esprime, ma dal rapporto con le norme di fonte superiore di cui ha da
essere lo svolgimento: secondaria non è se – a qualunque livello – pone per prima un
enunciato nuovo”
2
MORTATI C., Atti con forza di legge, cit., spec. 57 e 122 ss., dove sostiene che, così
come nel caso del sindacato dei decreti legislativi, dovrebbe prevedersi il sindacato dei
regolamenti, l’esigenza del quale è ancora maggiore considerando la permanenza che
caratterizza la potestà regolamentare, “tanto più quando sia consentito al regolamento di
disporre in senso modificativo o integrativo della legge” sulla base della
riconsiderazione della nozione di “forza di legge” come categoria che presenta
“un’intensità diversamente graduata”.
3
In tal senso FARINA G., Disapplicazione di atti amministrativi a contenuto
normativo da parte del giudice amministrativo, in AA. VV., Impugnazione e
“disapplicazione” dei regolamenti, Atti del Convegno di Roma, Palazzo Spada, 16
maggio 1997, Torino, 1998, 183..