Capitolo I
– 2 –
1.2§ 1. – Nozioni di base.
Ed è ovviamente dalla peculiarità dell’atto, cui la delega è strumentale, che discende
l’esigenza della disciplina speciale che si commenterà più avanti.
Da questi primi cenni si può dunque ricavare una definizione di delega di voto: essa è la
procura, con la quale il socio conferisce ad un altro soggetto il potere di votare, in suo nome e
per suo conto, in un’assemblea della società – di rappresentarlo, cioè, nell’esercizio del diritto
di voto.
1.2. – La rappresentanza azionaria.
Così come la delega di voto è una speciale forma di procura, allo stesso modo la
rappresentanza conferita a mezzo delega risulta avere caratteri peculiari rispetto alla figura
generale
3
.
Preliminarmente va chiarito che la rappresentanza azionaria non è sempre conferita per
procura, e dunque non è sempre volontaria: può essere legale, come quando il genitore vota in
base alle azioni del figlio minorenne, o anche organica, come nel caso di voto da parte
dell’amministratore di società socia
4
; in questi casi pur sempre di rappresentanza azionaria si
tratta, ma siamo fuori dal campo della nostra trattazione. Come testimonia unanime la
dottrina
5
, la quale sottolinea – con l’escludere rappresentanza legale ed organica dal campo
d’applicazione dell’art. 2372 c. civ. – che la specialità della figura e l’esigenza di una
disciplina ad hoc in tanto sussistono, in quanto la rappresentanza sia conferita a mezzo delega.
cooperative dal proprio campo d’applicazione, di qui in avanti si userà soprattutto l’espressione rappresentanza
azionaria: essendo evidente che le quotate non cooperative sono tutte o quasi società per azioni.
3
Sul carattere speciale della rappresentanza assembleare v. GATTI, La rappresentanza cit., 25 e dottrina ivi cit.
4
Esiste anche una figura particolare di rappresentanza azionaria non basata sulla delega di voto, che è delineata
dall’art. 2347 c. civ. il quale, com’è noto, impone ai contitolari dell’unica azione il dovere di nominare un
rappresentante comune per l’esercizio dei diritti sociali. Ipotesi il cui inquadramento è problematico: GATTI, op.
ult. cit., pagg. 163-164 parla di rappresentanza “necessaria”, perché obbligatoria quanto al conferimento. In
effetti c’è pur sempre una nomina, tant’è il codice contempla al comma 2 l’eventualità che essa manchi, cosicché
non si potrebbe parlare di rappresentanza legale; né, per carenza di un’organizzazione, può parlarsi di
rappresentanza organica. Siamo dunque nel campo della rappresentanza volontaria, ma la volontà è obbligatoria
quanto alla sua manifestazione; e l’obbligo è un chiaro indizio della “doppia anima” della rappresentanza
azionaria, di cui si parla nel testo. Per il resto, la peculiarità del fenomeno ci esime dal tenerne conto nel
prosieguo della trattazione (v. però infra, cap. IV, note 332 e 797).
5
V. ad es. JAEGER, La nuova disciplina della rappresentanza azionaria, in Giur. Comm. 1974, 1, 564; G. FERRI,
Le società, in Tratt. VASSALLI, vol. 10, Torino 1987 (3
a
ediz.), pag. 621; SBISÀ, in Commentario CENDON sub
art. 2372, pag. 1022. Questi A. giustificano l’affermazione sia con riguardo alla formulazione letterale del 2372
(si parla di rappresentanza «conferita»), sia con riguardo alla ratio di quell’articolo (che è tutto mirato ad
impedire abusi concepibili solo in relazione ad ipotesi di rappresentanza volontaria).
Capitolo I
– 3 –
1.2§ 1. – Nozioni di base.
Detto questo si sarebbe tentati di ricondurre il nostro istituto, nei limiti in cui c’interessa, al
principio generale della libertà negoziale: la scelta se compiere un atto personalmente o a
mezzo rappresentante dovendosi intendere piena espressione di quel principio
6
. E invece è
proprio qui che si colgono le peculiarità della rappresentanza azionaria, che dipendono dal
tipo di atto al cui compimento è preordinata.
Il voto nell’assemblea di una s.p.a. è una vicenda che riguarda innanzitutto il socio: il quale
così come può liberamente scegliere se votare o no, e se votare a favore o contro, allo stesso
modo è libero di avvalersi di un rappresentante per l’esercizio del voto. Il punto è, però, che
tale vicenda non riguarda solo lui, ma l’intera compagine sociale: la scelta di votare per
delega s’inserisce nel procedimento assembleare
7
, concorrendo alla formazione della volontà
sociale nell’ambito di competenza dell’assemblea; il se, il come, il quando di tale formazione
dipendono della scelta di ciascuno.
Se ne deduce che l’istituto ha come una “doppia anima”: da un lato tende a soddisfare
l’interesse del singolo socio alla partecipazione alle decisioni sociali, ponendosi così
nell’alveo dell’autonomia contrattuale e della rappresentanza in genere, quale libera scelta di
compiere un atto a mezzo terzi anziché personalmente (profilo individualistico); dall’altro
però deve rispettare l’interesse sociale, poiché interferisce con una serie di vicende che con
tale interesse hanno a che fare
8
, il che comporta una deviazione dai principi della
6
Così, almeno in linea di principio, JAEGER, La nuova disciplina cit., 559, il quale riconduce la rappresentanza
azionaria alla “autonomia contrattuale”.
7
Lo notava già GATTI, op. ult. cit., pag. 54, parlando della procura di voto come “atto… obiettivamente
predisposto all’atto conclusivo del procedimento deliberativo”; l’A. anzi imposta, più in generale, l’intera sua
monografia sul duplice legame della rappresentanza azionaria con l’autonomia privata da una parte, e con
l’organizzazione sociale dall’altra. Di recente la prospettiva è stata ripresa da S. ROSSI, Il voto extrassembleare
nelle società di capitali, Milano 1997; l’A. esamina il voto per delega nell’ambito della figura generale del voto
extrassembleare, cioè del voto il cui contenuto è determinato fuori dalla sede assembleare, ed analizza le
conseguenze che il fenomeno produce sul procedimento assembleare (in part. cap. V e VI): il che conferma lo
stretto legame che c’è fra rappresentanza azionaria e meccanismi di formazione della volontà sociale.
8
SBISÀ, op. ult. cit., pag. 1006, dopo aver chiarito che il socio “di regola” può partecipare all’assemblea anziché
direttamente a mezzo di rappresentante, chiarisce che “l’istituto della rappresentanza per le assemblee è
ambivalente” in quanto, oltre a consentire a chi non può o non vuole farlo personalmente di partecipare alle
assemblee, “interferisce con una serie d’interessi antagonisti con il libero esercizio del potere di
rappresentanza” (fra i quali annovera quelli “alla corretta formazione della maggioranza assembleare, alla
effettiva dialettica assembleare, alla identificazione del gruppo di maggioranza, …, al rispetto dei reciproci
ruoli fra i vari organi della società… nell’ambito della sua organizzazione complessiva”).
Capitolo I
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2.1§ 2. – Funzioni della rappresentanza azionaria.
rappresentanza che si può apprezzare a vari livelli
9
(profilo istituzionalistico). E’ comunque
evidente l’assoluta peculiarità del fenomeno, che ampiamente ne giustifica una disciplina ad
hoc.
§ 2. – Funzioni della rappresentanza azionaria.
Una volta chiarite le nozioni di delega di voto e rappresentanza azionaria, con le loro
peculiarità, è ora il momento di vedere da vicino quali sono le funzioni cui assolvono
nell’ambito dell’ordinamento societario.
2.1. – Funzione primaria.
La funzione che si potrebbe definire primaria delle deleghe di voto è quella di consentire di
votare a chi non avrebbe altrimenti modo di farlo e a chi, pur avendone la possibilità
materiale, ritenga più opportuno avvalersi di un rappresentante; in questo senso la delega va
intesa come un imprescindibile strumento di diritto societario, che ogni ordinamento deve
prevedere, a tutela dell’interesse del socio alla partecipazione alle decisioni sociali
10
. Quello
che emerge qui è, dunque, di nuovo (v. supra, 1.2) il profilo individualistico dell’istituto, che
si ricollega alle esigenze partecipative del singolo socio.
Queste ultime però devono fare i conti con le esigenze organizzative della società (profilo
istituzionalistico: v. supra, 1.2); e se le due istanze risultano nel complesso conciliabili, ciò
non toglie che il diritto di farsi rappresentare in assemblea possa subire una qualche
compressione nelle società più piccole. Al crescere delle dimensioni della società, la necessità
9
FERRI, Le società
3
cit., 622 afferma recisamente che “la rappresentanza in assemblea ha caratteristiche sue
proprie” che dipendono dal fatto che “il potere del rappresentante, se anche… deve essere esercitato
nell’interesse del socio, si esplica nell’ambito dell’organizzazione societaria”. In JAEGER-DENOZZA, Appunti di
diritto commerciale
3
, Milano 1994, si giunge ad ipotizzare che in materia azionaria la rappresentanza non sia
espressione di un principio, ma al contrario un’eccezione: nel senso che il socio deve di regola votare
personalmente, salvo potersi avvalere – nei soli casi in cui la legge e lo statuto glielo consentono – di un
procuratore. Tuttavia, l’opinione sembra influenzata dalla formulazione dell’art. 2372 dopo la riforma del ’74 e
soprattutto dagli esiti che tale riforma ha avuto in termini di effettivo ricorso alle deleghe; tant’è che altrove uno
dei due A. afferma, come si è visto (supra, nota 6), la piena riconducibilità dell’istituto all’autonomia
contrattuale, limitandosi a sottolineare la possibilità di una disciplina più o meno restrittiva a seconda delle
dimensioni della società (e del conseguente prevalere dell’interesse del socio alla partecipazione o di quello della
società al controllo sui meccanismi decisionali).
10
Parecchi Autori caratterizzano l’istituto con esclusivo riferimento a quest’aspetto; v. per tutti GALGANO,
Diritto commerciale – Le società
4
, Bologna 1994, pag. 237: “se non vorranno essere personalmente presenti in
assemblea, i soci potranno esservi presenti per mezzo di loro rappresentanti”.
Capitolo I
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2.1§ 2. – Funzioni della rappresentanza azionaria.
dell’istituto si fa sempre più evidente non solo per i soci, ma anche per la società medesima:
al limite, ove la seconda abbia una base azionaria molto ampia, il mancato riconoscimento del
diritto di farsi rappresentare in assemblea può portare alla materiale impossibilità di tenere le
riunioni assembleari, per l’irreperibilità di uno spazio adeguato ad accogliere i soci che (in
ipotesi) volessero tutti intervenire personalmente
11
; più concretamente – dato il normale
assenteismo degli azionisti (v. infra, 3.2.3) – può impedire il raggiungimento del quorum
necessario alla regolare costituzione dell’assemblea o all’adozione di una data delibera
12
.
Viceversa, via via che la società si fa più piccola, tende a sfumare l’interesse per il nostro
istituto da parte non solo della società, ma anche degli stessi soci: i secondi infatti partecipano
direttamente ed attivamente alla gestione, ed anzi vedono con sfavore la partecipazione
indiretta per rappresentanza (magari affidata ad estranei), cosicché la prima può funzionare
regolarmente anche ove manchi la facoltà di votare per delega; il che non toglie che, per
quanto ciò non risulti loro sgradito, i singoli soci tendono qui a perdere il diritto di farsi
rappresentare in assemblea.
Nel complesso dunque la funzione che si è detta primaria della rappresentanza assembleare è
quella di consentire l’espressione del voto al maggior numero possibile di soci, nell’interesse
loro individuale ma anche nell’interesse della società al proprio buon funzionamento
13
.
11
Sulla scarsa rispondenza alla realtà, caratterizzata da un diffuso disinteresse dei piccoli azionisti per le
decisioni sociali, di questo pur frequente rilievo v. però JAEGER, La nuova disciplina cit., 555.
12
Sulla connessione esistente tra funzionamento dell’assemblea e rappresentanza azionaria, v. FERRI, citato in
nota da JAEGER, La nuova disciplina cit., 557. Non è un caso che la riforma del diritto azionario del 1974,
nell’introdurre una disciplina estremamente restrittiva del voto per delega, abbia – con riferimento alle società
quotate, cioè quelle maggiori e ad azionariato più diffuso – istituito l’assemblea straordinaria di terza
convocazione (art. 2369-bis c. civ.), allo scopo evidente di favorire l’adozione di deliberazioni a maggioranza
qualificata: sul punto v., per tutti, BASSI, Assemblee di terza convocazione e rappresentanza, in Riv. Dir. Civ.
1975, 2, 350 s.
13
GALGANO, loc. ult. cit., parla appunto della rappresentanza in assemblea come di “un modo di ovviare agli
inconvenienti dell’assenteismo dei soci”; laddove inconvenienti si possono ritenere non solo quelli che
danneggiano la società, ma anche quelli che si producono nei confronti degli stessi soci. V. anche S. ROSSI, Il
voto extrassembleare cit., pag. 44: a certe condizioni “dallo strumento della procura possono trarre vantaggio
sia i soci, ai quali è fornita la possibilità di partecipare a distanza all’assemblea, sia la società, agevolata nel
raggiungimento dei quozienti”. Conforme SACCHI, L’intervento e il voto nell’assemblea della s.p.a. – Profili
procedimentali, Torino 1990, pagg. 161-162 (lo scritto si ritrova in Trattato COLOMBO-PORTALE, III, 1, Torino
1994, alle pagg. 385 ss.).
Capitolo I
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2.2.1§ 2. – Funzioni della rappresentanza azionaria.
2.2. – Funzioni secondarie.
Accanto alla funzione primaria del voto per delega di cui al paragrafo precedente, la quale
attiene all’an della previsione dell’istituto, dobbiamo annoverare almeno tre funzioni
aggiuntive, che possiamo definire secondarie, le quali invece dipendono dalle caratteristiche
della sua disciplina. E’ questo se si vuole un ulteriore aspetto di ambivalenza del nostro
istituto, che è stato da più parti sottolineato: una volta che sia previsto (e lo è in tutti gli
ordinamenti), a seconda di com’è disciplinato può realizzare effetti anche completamente
diversi sul “sistema societario”
14
. Con questo non si vuol dire che dalla sola regolamentazione
del voto per delega possano dipendere le sorti di un intero diritto societario, ma
indubbiamente l’istituto ha una rilevanza assolutamente centrale nelle moderne esperienze
giuridico-economiche.
2.2.1. – La funzione di protezione dagli abusi.
Il pericolo maggiore deriva da una disciplina troppo scarna, o troppo schiacciata sul principio
di libertà negoziale, perché è provato storicamente che tale situazione si presta ad abusi di
varia natura
15
; in genere, si risolve in un indebito rafforzamento del potere del management o
del gruppo di controllo di una società, a danno degli azionisti di minoranza (e di quelli piccoli
in particolare): due esempi varranno a chiarire.
Prima dell’adozione del Securities Exchange Act nel 1934, negli Stati Uniti sono i soli diritti
statali a regolare il voto by proxy
16
in modo molto liberale; la conseguenza è che il
management delle società più grandi instaura una prassi di “autoperpetuazione”, proprio
sfruttando gli spazi lasciati liberi dal legislatore. Il meccanismo è mirabilmente descritto da
14
La circostanza era già segnalata da AULETTA, L’ordinamento della società per azioni, in Riv. Soc. 1961, 414-
415: l’A. annoverava le procure di voto tra quegli istituti “ambivalenti” perché “largamente adoperati per
rafforzare il potere dei gruppi di comando, ma suscettibili di essere utilizzati in senso diverso”, naturalmente a
patto di una nuova disciplina. Citazioni del medesimo tenore si trovano in JAEGER, op. ult. cit., 555, ove anche
l’espressione “sistema societario”.
15
COTTINO, Diritto commerciale
3
, I, 2, Le società e le altre associazioni commerciali, Padova 1994 definisce il
voto per delega, fra l’altro, come “uno strumento di controllo” dell’assemblea e “di incetta e mobilitazione dei
voti”. Più specificamente GATTI, La rappresentanza cit., 15 s. parla di “esperienza ormai diffusa delle possibili
prevaricazioni cui dava [vigente il Cod. comm. del 1882, che era molto liberale sul punto] luogo l’abuso della
facoltà di delega”; v. anche la dottrina citata ivi, nota 1.
16
Con il termine proxy in inglese si designa sia la procura, sia il procuratore.
Capitolo I
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2.2.1§ 2. – Funzioni della rappresentanza azionaria.
BERLE e MEANS
17
, i quali dimostrano che in una situazione di azionariato fortemente
frammentato il consiglio d’amministrazione può farsi rieleggere così: nomina un “comitato di
delegati” di sua fiducia, sollecita presso i soci il rilascio di deleghe di voto (ovviamente, senza
istruzioni), i soci per non astenersi – e nell’impossibilità d’intervenire personalmente –
rilasciano la delega, il comitato la esercita ed ovviamente rielegge i consiglieri di cui è
espressione. In questo contesto interviene la riforma del ’34 e, grazie ad una disciplina più
severa finalizzata alla tutela delle minoranze e dei piccoli azionisti, riesce a fare del proxy
voting esattamente l’opposto: uno strumento di ricambio dei managers inefficienti (come si
vedrà meglio più avanti: 2.2.3 e 3.2.1; cap. II).
18
In Italia, prima della riforma del ’74, l’art. 2372 pone ben pochi limiti al conferimento della
rappresentanza; la conseguenza è che si afferma la prassi, da parte delle banche, di farsi
rilasciare dai propri clienti una procura di voto inerente alle azioni in deposito presso di esse,
valida per tutte le assemblee a venire delle società interessate e priva di ogni istruzione di
voto. Di nuovo, la scarsa regolamentazione dell’istituto rende possibili facili collusioni fra le
banche, che manovrano in virtù delle deleghe masse ingenti di voti, e i consigli di
amministrazione, che sono ovviamente fra i principali clienti degli istituti di credito; lo
scambio è presto fatto: la banca fornisce l’appoggio al CdA, e quest’ultimo le resta fedele
19
.
In questa situazione irrompe il divieto per le banche di votare per delega, e più in generale la
disciplina restrittiva della rappresentanza in assemblea introdotta nel ‘74; il quadro muta
radicalmente, nel senso che all’ampio ricorso alle deleghe che caratterizzava il periodo ante-
riforma subentra la quasi completa disapplicazione dell’istituto
20
.
17
The Modern Corporation and Private Property, New York 1932, trad. it. Società per azioni e proprietà
privata, Torino 1966, pagg. 83 ss. (in part. 85-87)
18
Sull’effetto determinato dall’introduzione della disciplina federale del proxy voting, v. fin d’ora PERNA, Public
company e democrazia societaria. Voto per delega e governo delle imprese nel capitalismo statunitense,
Bologna 1998, in part. pagg. 49-51 e pagg. 53-56.
19
Il fenomeno è descritto, in termini analoghi, in molti scritti sul tema della rappresentanza azionaria: v. ad es.
JAEGER, op. cit., pagg. 568-569. Per il dibattito sul problema prima della riforma del ‘74, v. gli autorevoli
interventi di: GRAZIANI, Possono le banche rappresentare gli azionisti nelle assemblee delle società?, in BBTC
1956, 1, 52 ss.; BIAMONTI - GRAZIANI - MOLLE, Rappresentanza degli azionisti in assemblea da parte di istituti
di credito - Postilla - Postilla alla postilla, ivi 1956, 1, 527 ss.; ASCARELLI, Rappresentanza assembleare
dall'azionista da parte della stessa società o di una banca, ivi 1956, 2, 256 ss.; COTTINO, La rappresentanza in
assemblea e le limitazioni convenzionali all'esercizio del voto, ivi 1958, 1, 204 ss.; BUTTARO, In tema di
rappresentanza degli azionisti da parte di banche, ivi 1967, 1, 481 ss. V. anche infra, cap. III, 2.2.2 e 2.3.
20
Che l’effetto del “giro di vite” attuato con la riforma dell’art. 2372 sia stato quello di rendere praticamente
impossibile il ricorso all’istituto è da tempo pacifico, in quanto constatabile empiricamente: cfr. RIZZINI
►
Capitolo I
– 8 –
2.2.2§ 2. – Funzioni della rappresentanza azionaria.
Come si vede, dunque, c’è una prima funzione – tra quelle “secondarie” – che dipende più dal
quantum della disciplina, che dal quomodo: una funzione che si può dire di protezione dagli
abusi
21
. Al crescere del dettaglio della regolamentazione, quale che sia il contenuto di essa,
diminuiscono gli spazi di possibile sfruttamento delle deleghe a danno delle minoranze; anche
se poi, come si evince dagli esempi, gli esiti possono essere radicalmente diversi.
2.2.2. – Funzione di tutela delle minoranze.
Un primo fondamentale elemento di diversità fra soluzioni normative in tema di
rappresentanza azionaria risiede, per l’appunto, nel modo in cui si prevengono gli abusi a
danno delle minoranze: di nuovo, partendo da un raffronto tra l’esperienza statunitense e
quella italiana ante ‘98, si osserva che esistono due opposte impostazioni.
Da una parte c’è l’impostazione americana, che mira alla tutela delle minoranze attraverso
una regolamentazione minuta dell’attività d’incetta delle deleghe, la quale da un lato valorizza
l’iniziativa spontanea di mercato e dall’altro la indirizza su binari di trasparenza e
correttezza
22
; fondamentale è, in tale contesto, il ruolo dell’agenzia federale di controllo del
mercato mobiliare (la S.E.C., Securities Exchange Commission). Dall’altra parte troviamo il
sistema italiano precedente all’entrata in vigore del T.U.F., nel quale l’obiettivo di tutela degli
azionisti piccoli e di minoranza si persegue, brutalmente, con una serie di limiti e divieti alla
rappresentanza in assemblea
23
.
In entrambi i casi si adottano cautele tali che gli abusi possono dirsi impediti, ma è evidente la
diversità delle due soluzioni tecniche. La soluzione statunitense offre anche una protezione in
positivo: nel senso che consente ed anzi incoraggia il rilascio di deleghe da parte dei piccoli
azionisti, e dà ai soci di minoranza più forti la possibilità di promuovere essi stessi una
solicitation. La soluzione italiana ante T.U.F. offre invece una protezione puramente negativa:
nel senso che, data l’ampiezza dei limiti e divieti introdotti, risulta impossibile per il piccolo
BISINELLI – RIZZINI, La rappresentanza azionaria nel regolamento CONSOB n. 11520/98 sugli emittenti, in Le
soc. 1998, 1260 ss. (in part. 1262 s.).
21
Della “prevenzione degli abusi connessi alla rappresentanza azionaria” come funzione della disciplina
dell’istituto (mal realizzata, secondo l’A., nella maggior parte degli ordinamenti di allora) parla JAEGER,
L’assemblea, II: Convenzioni di voto – Rappresentanza azionaria, in Inchieste di diritto comparato, 5 – I grandi
problemi delle società per azioni nelle legislazioni vigenti, Padova 1976, 677 ss. (in part. 696).
22
Come si vedrà meglio più avanti (cap. II), da un lato chiunque può attivare la c.d. proxy solicitation
(sollecitazione delle deleghe), dall’altro chi vuole farlo deve predisporre un adeguato apparato d’informazione a
beneficio dei piccoli azionisti.
23
Sulle caratteristiche della disciplina italiana fra il 1974 e il 1998 v. infra, cap. III.
Capitolo I
– 9 –
2.2.3§ 2. – Funzioni della rappresentanza azionaria.
azionista reperire chi lo rappresenti e per il socio forte di minoranza procedere ad un’incetta di
deleghe
24
.
Il confronto rende così evidente l’esistenza di un’altra funzione “secondaria” del nostro
istituto, quella di tutela delle minoranze; tutela intesa in positivo, nel senso appena chiarito, e
non come mera protezione contro i possibili abusi della maggioranza e del management.
2.2.3. – Funzione di allocazione del controllo.
Spostandoci ora sul versante economico, dobbiamo notare che – di nuovo, a seconda di com’è
disciplinata – la rappresentanza azionaria può rappresentare un potente fattore di allocazione
del controllo delle società
25
.
Anticipando ancora una volta questioni delle quali ci si occuperà più da vicino in seguito,
prendiamo gli esempi degli Stati Uniti e della Germania: la diversa regolamentazione del voto
per delega nei due Paesi determina, non a caso, due assetti di capitalismo nettamente
contrapposti (v. anche infra, 3.2.2). Da una parte il sistema americano, che garantisce a
chiunque la possibilità di fare incetta di deleghe presso i piccoli azionisti, contribuisce in
misura notevole a determinare un assetto di mercato nel quale – com’è noto – il controllo
delle c.d. public companies circola con relativa facilità
26
. Dall’altra il sistema tedesco, che
canalizza le deleghe verso gli istituti di credito che hanno in deposito le azioni (c.d.
Depotstimmrecht), è essenziale ai fini del mantenimento di una situazione di mercato, che è
24
Una conferma indiretta della validità dell’assunto, relativamente al sistema italiano ante T.U.F., si rinviene in
JAEGER, La nuova disciplina cit., 557, il quale afferma che la disciplina dell’art. 2372 riformato “tende a
rafforzare il potere dei gruppi di controllo e ad accentuare il fenomeno dell’«estraniamento» dei piccoli
azionisti dalla partecipazione alla vita sociale” (affermazione a sua volta confermata dalla prassi applicativa del
2372).
25
Sulla connessione esistente fra mercato del controllo e disciplina delle società v., in generale, COSTI, Il
governo delle società quotate: tra ordinamento dei mercati e diritto delle società, in Riv. Comm. Int. 1998, 65
ss., in part. par. 2 ove si sottolinea che le regole di funzionamento interno delle società (fra le quali quelle sulla
rappresentanza azionaria) devono concorrere con la disciplina dei mercati finanziari a realizzare l’obiettivo della
“gestione più efficiente possibile dell’impresa”. Conforme sul punto DRAGHI, Audizione del Direttore generale
del Ministero del Tesoro (10/12/97), in Indagine conoscitiva sull’evoluzione del mercato mobiliare italiano della
Commissione Finanze della Camera, in Riv. Soc. 1998, 190 ss., il quale afferma (pag. 198): “Un maggiore e più
consapevole coinvolgimento assembleare di tutte le tipologie di azionisti contribuisce… ad elevare il grado di
contendibilità del controllo e a favorire la riallocazione proprietaria delle imprese a vantaggio di quei soggetti
che più alto valore ascrivono alla gestione delle stesse”.
26
V. PERNA, op. ult. cit., in part. pagg. 109 ss.
Capitolo I
– 10 –
3.1.1§ 3. – I concetti di fondo
caratterizzata dalla stabilità del controllo delle grandi imprese in mano – per lo più – alle
banche
27
.
Sotto questo profilo, dunque, la disciplina della rappresentanza in assemblea costituisce una
delle “leve” che il legislatore può azionare per incidere sui meccanismi di mercato, laddove
non li ritenga corrispondenti alle attuali esigenze dell’economia; ed infatti, il nostro legislatore
del ’98 vi ha messo mano proprio in sede di riforma di un mercato finanziario unanimemente
criticato per essere troppo “ingessato”
28
. Si può così parlare di una terza funzione
“secondaria” del voto per delega, che si realizza in misura dipendente dal tipo di disciplina
adottata: la funzione di allocazione del controllo.
§ 3. – I concetti di fondo
La varietà delle funzioni che, come si è visto, la rappresentanza azionaria può svolgere si
collega con una serie di concetti giuridici ed economici di notevole importanza, che si
vogliono ora passare in breve rassegna; ciò al fine di comprendere le ragioni teoriche, per le
quali il nostro istituto si colloca in una posizione così importante nell’ambito del diritto
societario.
3.1. – Concetti giuridici.
3.1.1. – Contrattualismo ed istituzionalismo.
La prima coppia di nozioni giuridiche generali, che ha qualche legame con la disciplina del
voto per delega
29
, è quella che contrappone contrattualismo ed istituzionalismo: essa riflette
due modi diversi di concepire l’interesse sociale
30
; su di un piano ancor più generale, però, si
è voluta vedere nella dialettica in questione la chiave di lettura dell’intero fenomeno
27
Il ruolo preponderante delle banche nel capitalismo tedesco è dovuto più all’ampia disponibilità di deleghe di
voto, che non alla titolarità di partecipazioni dirette nel capitale delle società: v. in proposito PERNA, op. ult. cit.,
pagg. 194-195.
28
V. per tale affermazione, e anche per alcuni dati interessanti, FABRIZIO-SILVESTRI, Corporate governance ed
evoluzione dei modelli di rappresentanza azionaria, in Riv. Dir. Impr. 1997, in part. pagg. 17 e 18; nonché, per
ulteriori dati sulle caratteristiche del controllo in Italia, BIANCO-CASAVOLA, Corporate governance in Italia:
alcuni fatti e problemi aperti, in Riv. Soc. 1996, 426 ss. V. inoltre DRAGHI, op. ult. cit., il quale (pag. 197) parla
di “un ritardo generalmente riconosciuto” del nostro Paese in tema, fra l’altro, di “trasferimento del controllo”.
29
Sorvola sul punto, ma – almeno in chiave problematica – testimonia l’esistenza del legame SACCHI,
Sollecitazione e raccolta delle deleghe di voto, in La riforma delle società quotate, a cura di BONELLI e altri (Atti
del convegno di studio di Santa Margherita Ligure, 13-14 giugno 1998), Milano 1998, pag. 383.
30
V. per tutti JAEGER, L’interesse sociale, Milano 1972 (rist.).
Capitolo I
– 11 –
3.1.2§ 3. – I concetti di fondo
societario
31
. Secondo questa più ampia prospettiva, contrattualismo è la tendenza a vedere
nella società semplicemente un contratto fra individui portatori d’interessi convergenti, ma
plurimi, o – per dirla con i giuristi americani – un “nexus of contracts”
32
; istituzionalismo è
invece la tendenza opposta a concepire la società come un “corpo sociale”, titolare di un
interesse collettivo, corpo cui i soci – più che dar vita – aderiscono
33
.
Che cosa può avere a che fare con il nostro tema quest’alternativa? A parere di chi scrive
rappresenta innanzitutto una conferma dell’esistenza (v. supra, 1.2) di una “doppia anima”
della rappresentanza azionaria; infatti pare chiaro che pensando la società come un “fascio di
contratti” si esalta il momento dell’interesse individuale a farsi rappresentare in assemblea,
mentre ponendo l’accento sull’interesse della “impresa in sé” l’attenzione si sposta sui riflessi
organizzativi dell’istituto. Di conseguenza, il prevalere in dottrina dell’una o dell’altra
impostazione di fondo può influenzare notevolmente, de iure condendo, le soluzioni
normative adottate: ad esempio un clima “istituzionalistico” favorirà l’introduzione di norme
che si accontentano di salvaguardare il buon funzionamento della società, senza preoccuparsi
più di tanto dell’interesse dei soci a far sentire la loro voce (v. supra, 2.1).
3.1.2. – Autotutela ed eterotutela.
Queste due nozioni attengono alla tutela del socio, in particolare di quello di minoranza, in
seno alla compagine sociale: l’autotutela è quella basata su strumenti privatistici, direttamente
azionabili dai soci – uti singuli o in gruppo – all’interno della società; l’eterotutela è quella
basata sull’intervento dall’esterno di soggetti pubblici, in applicazione di norme imperative di
legge
34
. Due eminenti studiosi ne parlano come di un “dilemma”, aggiungendo poi che
“sarebbe azzardato concludere che esso ha trovato oggi una definitiva composizione”
35
: non
è certo, dunque, nostro obiettivo sciogliere l’alternativa, ma solo mostrare che anch’essa ha
molto a che fare con il voto per delega.
Come si è visto (supra, 2.2.1 e 2.2.2), la disciplina della rappresentanza azionaria può servire
allo scopo di tutelare i soci di minoranza; qui si può rilevare che tale scopo è raggiungibile,
astrattamente, sia con l’autotutela sia con l’eterotutela. Bisogna però aggiungere che, proprio
31
E’ ad esempio l’impostazione seguita da C. DUCOULOUX-FAVARD, Société anonyme, Aktiengesellschaft,
società per azioni, Paris 1992, che contrappone alle pagine 5 e 6 “société-contrat” e “société-institution”.
32
L’espressione è ricordata da JAEGER, Gli azionisti: spunti per una discussione, in Giur. Comm. 1993, 1, 23 ss.
33
Ci si basa in particolare sulle teorie di GIERKE, sintetizzate a pag. 6 di DUCOULOUX-FAVARD, cit.
34
Una definizione del genere si può leggere “fra le righe” di CERRAI e MAZZONI, La tutela del socio e delle
minoranze, in Riv. Soc. 1993, 1 ss., in part. a pag. 2.
35
CERRAI e MAZZONI, La tutela cit.
Capitolo I
– 12 –
3.1.3§ 3. – I concetti di fondo
perché la funzione di tutela della rappresentanza azionaria prende le mosse dalla sottrazione
dell’istituto ai principi privatistici (v. supra, 2.2.1), prevale negli ordinamenti vigenti una
configurazione della disciplina dell’istituto ispirata al secondo modello; e infatti il “prototipo”
delle regolamentazioni moderne del voto per delega, il proxy system statunitense così come
configurato dal Securities Exchange Act del 1934, ha la struttura tipica dell’eterotutela: norme
imperative, procedimento da rispettare scrupolosamente, obblighi d’informazione, ruolo
centrale di un’autorità pubblica (la S.E.C.)
36
.
Tuttavia, non bisogna sottovalutare due elementi. Da una parte la considerazione che vi è
sempre un profilo di autotutela nello sfruttamento, da parte del socio, di un istituto – quale
quello della delega di voto – che gli consente di far sentire la sua voce in seno all’assemblea
37
.
Dall’altra, soprattutto, il rilievo che esistono pure importanti esempi di disciplina orientata
verso l’autotutela dei soci: è il caso italiano della c.d. raccolta di deleghe, che è caratterizzata
– ai sensi dell’art. 144 T.U.F. – dall’iniziativa spontanea degli azionisti, i quali si “coalizzano”
in associazioni cui è consentito raccogliere deleghe sulla base di regole molto meno severe di
quelle americane
38
.
3.1.3. – Democrazia societaria.
Con l’analisi di questa nozione si entra a pieno titolo nel campo della c.d. corporate
governance, che è stata definita “un sistema (lato sensu) di gestione dell’impresa società per
azioni”
39
; in sostanza, un insieme di regole che distribuisce fra i soggetti interessati la
titolarità del potere decisionale
40
. Quando si parla di democrazia societaria, infatti, si allude al
grado di condivisione di tale potere da parte degli azionisti; grado che ovviamente si misura in
36
Una strada simile si comincia ad imboccare, come si vedrà nel capitolo successivo, anche in Germania, dopo
l’entrata in vigore delle nuove leggi sul mercato mobiliare (il Wertpapierhandelsgesetz del 1994) e sulla
trasparenza degli assetti proprietari delle imprese (il Gesetz zur Kontrolle und Transparenz im
Unternehmensbereich – KonTraG – del 1998).
37
Sui c.d. diritti di voice v. infra, 3.2.3.
38
Al modello americano s’ispira invece, in gran parte, il legislatore del T.U.F. per disciplinare l’altro
procedimento d’incetta delle deleghe, la c.d. sollecitazione: v. infra, capitoli IV e V.
39
JAEGER-MARCHETTI, Corporate Governance, in Giur. Comm. 1997, 1, 625 ss.
40
MONKS e MINOW (Corporate Governance, Cambridge, MA 1995, pag. 1) definiscono la c. g. come “the
relationship among various participants in determining the direction and performance of corporations”; e
proseguono dicendo che la domanda da porsi sempre, in tema di c. g., è: “Who is in the best position to make this
decision, and does that person/group have the authority to make it?”. Con ciò chiarendo il legame fra c. g. e
potere decisionale.
Capitolo I
– 13 –
3.1.3§ 3. – I concetti di fondo
base alla quantità e alla qualità degli strumenti di partecipazione alla vita sociale, che
l’ordinamento mette a loro disposizione
41
.
41
In realtà la nozione di democrazia societaria (o azionaria) non è affatto pacifica: negli scritti sul tema si legge
tutta una serie di possibili accezioni del termine, della quale cerchiamo di dare conto qui in nota.
Innanzitutto, in chiave storica, si deve ricordare la tendenza tipicamente ottocentesca a concepire l’assemblea
come organo “sovrano” della società per azioni e ad attribuire, conseguentemente, la massima importanza
all’espressione del voto da parte dei soci (tendenza ricordata da TUCCI, Le deleghe di voto nelle public
companies statunitensi, in Riv. Comm. Int. 1998, 385 ss., in part. 386-387); con la successiva precisazione che
non di democrazia, in questo senso, dovrebbe parlarsi, ma piuttosto di plutocrazia (GALGANO, in Trattato di
diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, VII
2
, Padova 1988, 27) dato che i voti a disposizione di
ciascun socio sono proporzionali alle azioni possedute.
In tempi più recenti la teoria della shareholder democracy è stata riproposta dalla dottrina americana in una
particolare accezione, che scommette sulla tendenza di azionisti adeguatamente informati ad intervenire
attivamente nella gestione della società mediante la formulazione di proposte, o quantomeno criticando il
management: è la posizione di EMERSON e LATCHAM, Shareholder Democracy. A Broader Outlook for
Corporations, Cleveland 1954 (v. anche LATCHAM, La partecipazione degli azionisti americani alla vita delle
società, in Riv. Soc. 1958, 615 ss.). Questi autori contribuiranno, con le loro teorie, ad aprire la “stagione” delle
shareholder proposals: cioè le proposte, relative a temi d’interesse politico generale, portate nelle assemblee
anche attraverso lo strumento della solicitation of proxies: sul punto v. ancora TUCCI, Le deleghe cit., pag. 394
(ivi nota 20) e PERNA, Public companies cit., sopr. 143-150.
Una notevole frattura si è poi aperta nella dottrina fra coloro che riferiscono il concetto di democrazia societaria
al piccolo azionista isolatamente considerato, e coloro che invece – muovendo dall’assunto della c.d. rational
apathy (v. infra, 3.2.3) – ritengono gli investitori istituzionali gli unici possibili veicoli di coinvolgimento dei
piccoli azionisti. Tende ormai a prevalere la seconda posizione, per la quale v. ad es. JAEGER, Privatizzazioni;
“public companies”; problemi societari, in Giur. Comm. 1995, 1, 5 ss. (pag. 9 in part.) nonché, in BONELLI e
altri (a cura di), La riforma cit., GAMBINO, Tutela delle minoranze, 135 ss. e (benché con perplessità legate
all’attuale situazione italiana) MINERVINI, Intervento alla “tavola rotonda”, 345-346; posizione che affonda
anch’essa le proprie radici nella dottrina americana, la quale ha sotto gli occhi una realtà di mercato ben più
vicina di quella italiana al modello teorico prospettato: v. TUCCI, loc. ult. cit., ivi nota 21. Un mezzo alternativo
di aggregazione dei piccoli soci, che presuppone però un certo “attivismo” da parte loro (v. di nuovo infra, 3.2.3)
è rappresentato dalle associazioni di azionisti: in proposito v. infra, cap. VII.
Va infine ricordata l’impostazione recentemente adottata da PERNA, Public companies cit., 155 ss., che mette in
dubbio la stessa configurabilità, a rigore, del concetto di democrazia societaria, attribuendogli un valore
meramente “evocativo”; ciò a causa dell’ambiguità dell’espressione, la quale da una parte avrebbe un’accezione
“procedurale” (“il rispetto delle minoranze ed in generale l’applicazione delle regole della decisione
democratica alle dinamiche interne della società”) e dall’altra una “materiale” (“l’introduzione all’interno
della dialettica delle società di alcuni temi di preminente interesse sociale e politico”). Accezioni, oltretutto, fra
loro contraddittorie e per di più ritenute dall’A. molto generica, la prima, e la seconda difficilmente compatibile
con il funzionamento dell’istituto societario.