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La perdita della memoria è un sintomo riferito con elevata frequenza dalle persone anziane,
anche in condizioni di normale efficienza funzionale, tanto che il significato di tale
sintomo è tutt’ora controverso ed è stato variamente associato al tono dell’umore, al livello
educativo oppure alla personalità dell’individuo; pertanto, sulla base delle conoscenze
odierne, l’auto-riferimento del livello di funzionamento della memoria non può essere
utilizzato come indicatore clinico di deficit cognitivo. Solo un’accurata valutazione clinica
e neuropsicologica può, infatti, distinguere in questo gruppo eterogeneo, i soggetti normali
da quelli che presentano un declino di grado lieve che, sebbene non raggiunga il livello di
demenza, richiede comunque un’osservazione continuata nel tempo.
Le sfide più moderne nel campo della valutazione della demenza riguardano gli
aspetti di confine e il ruolo della diagnostica strumentale. Le ricerche degli ultimi anni
hanno identificato una condizione di transizione tra la normalità e la demenza conclamata
denominata “Disturbo cognitivo lieve” (Mild Cognitive Impairment o MCI) nella quale le
persone manifestano un disturbo di memoria di entità superiore a quello atteso in base
all’età, senza che siano presenti i criteri per la diagnosi di demenza. Questa condizione è
oggi considerata una forma preclinica di demenza e notevoli sforzi sono in atto per una
migliore caratterizzazione clinica e strumentale oltre che per la verifica che trattamenti
farmacologici (e non) possano modificarne il tasso di conversione verso la malattia di
Alzheimer.
Sebbene la diagnosi delle varie forme di demenza sia ancora basata quasi
esclusivamente su criteri di tipo clinico, sempre maggiori evidenze indicano che marker
biologici e indagini di neuroimaging possono essere di utilità nella diagnostica
differenziale, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia. Nonostante ciò, i risultati delle
ricerche non sempre hanno avuto una ricaduta nella pratica clinica quotidiana, per cui le
indagini utilizzate sono molto semplici e limitate a definire la presenza di patologie
5
sistemiche, mentre la lettura del neuroimaging rimane affidata ancora a metodiche
esclusivamente qualitative.
Il nostro studio si situa entro questo filone di ricerche che ha preso l’avvio dalla
caratterizzazione del MCI: riuscire a sviluppare un compito neuropsicologico capace di
distinguere tra le prestazioni di anziani sani e quelle di pazienti con deterioramento
cognitivo lieve potrebbe aiutare i tecnici nelle diagnosi e i pazienti e i familiari nel
confronto con questo tipo di malattia. Infatti, l’approccio clinico al paziente potrà cambiare
radicalmente solo quando saranno a disposizione metodiche di diagnosi precoce realmente
sensibili e specifiche, e quando si potrà disporre di farmaci in grado di agire a livello
patogenetico e non più soltanto sintomatico.
6
Capitolo 1
Il deterioramento cognitivo
1.1 Invecchiamento cognitivo fisiologico
L’interesse scientifico degli ultimi anni ha cercato di focalizzare l’attenzione sulle
differenze fondamentali che intercorrono tra il processo di invecchiamento “sano” e quello
“patologico”. La vecchiaia rappresenta una fase della vita che, per molti secoli, è stata
considerata in termini negativi e immodificabili come l’età del decadimento e della
patologia. Tuttavia, nonostante alcune funzioni risultino effettivamente deficitarie, occorre
non dimenticare che il processo di invecchiamento implica anche la conservazione di
alcune strutture ed il perfezionamento di altre, inoltre, esso è estremamente eterogeneo e si
svolge con modalità, ritmi, conseguenze, estremamente variabili da un individuo all’altro
in relazione a fatti preesistenti e a condizioni contingenti.
Nel 1962 è stato coniato il termine di “smemoratezza senile benigna” per indicare
quell’insieme di deficit legati al normale processo di invecchiamento, caratterizzati da una
lieve perdita di memoria non progressiva (Kral, 1962); recentemente, altri termini sono
stati introdotti per distinguere i disturbi cognitivi comunemente riscontrabili negli anziani
sani da quelli caratterizzanti un quadro di demenza ed inclusi nel DSM-IV, per definire “un
declino delle funzioni cognitive identificato in modo obiettivo, conseguente al processo di
invecchiamento, non attribuibile a malattia mentale o neurologica” (American Psychiatric
Association, 1994).
I principali deficit cognitivi evidenziabili negli anziani sani riguardano innanzitutto la
percezione: gli aspetti maggiormente studiati in questo ambito sono stati quelli riguardanti
il sistema visivo e percettivo (Sgaramella, 1999).
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Le alterazioni fisiologiche del sistema visivo sono in parte a carico del cristallino e legate
a una sua diminuita elasticità e opacizzazione, mentre l’invecchiamento fisiologico delle
vie acustiche ha come principale conseguenza una graduale compromissione della capacità
uditiva, con particolare incidenza per le alte frequenze (Guyton, 1978); l’effetto globale sul
comportamento risulta comunque esiguo nel caso di condotte svolte da anni e divenute
abituali, alla realizzazione delle quali operano meccanismi altamente automatizzati.
Per quanto riguarda l’attenzione, nella popolazione anziana è possibile riscontrare,
deficit a carico di alcune componenti della funzione attentiva. L’attenzione non può infatti
considerarsi come una funzione cognitiva unitaria, ma come un insieme di differenti
componenti e processi, che possono essere selettivamente danneggiati.
L’attenzione selettiva è la componente maggiormente studiata e si identifica nella
capacità di selezionare in modo privilegiato, alcune informazioni rilevanti, tralasciandone
altre di minore importanza. Già negli anni Sessanta si osservò che l’anziano presentava
deficit specifici per questo genere di attenzione (Rabbit, 1965). Successivamente si
notarono differenze all’interno delle diverse componenti dell’attenzione selettiva: ad
esempio, sembra che l’attenzione spaziale implicita sia relativamente conservata mentre
emergono difficoltà in compiti che richiedono un orientamento volontario (Posner, 1980).
Gli studi sull’attenzione divisa e sostenuta necessitano ancora di ulteriori
approfondimenti, tuttavia sembra che i deficit riscontrabili in tali capacità siano collegabili
alla difficoltà intrinseca del compito e si evidenzino soprattutto in prove complesse che
richiedono notevoli capacità di elaborazione (Craik, 1977; Madden, 1990; Quilter,
Giambra, Benson, 1983).
Dagli studi effettuati sulla memoria (Craik, 1969; Raymond 1971; Ratti, Amoretti,
1990) emergono posizioni contrastanti circa l’ipotesi che, nell’invecchiamento fisiologico,
si verifichi una diminuzione della prestazione nei compiti di memoria a breve termine,
esaminata con test di ripetizione di cifre, span di parole e rievocazione libera; sembra
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infatti che non vi siano sostanziali differenze legate all’età nel ricordo immediato di una
sequenza di stimoli.
Si riscontrano invece alterazioni legate alla capacità di manipolare e riorganizzare le
informazioni (Sgaramella, 1999). Secondo alcuni autori (Amoretti, 1997) ciò sarebbe
imputabile alla difficoltà che gli anziani presentano nelle fasi di acquisizione e codifica
dello stimolo, mantenendo prestazioni adeguate per ciò che riguarda il recupero
dell’informazione; secondo altri il problema riguarderebbe soprattutto i processi di
rievocazione (ma non quelli di codifica dell’informazione) resi deficitari da una serie di
rotture nella rete semantica della memoria a lungo termine, che renderebbero difficoltoso e
lento il recupero del materiale appreso (Rissenberg, Glanzer, 1986). Altri autori invece
ritengono che il declino mnestico degli anziani sani possa essere riconducibile a una
minore abilità nell’uso spontaneo di strategie efficaci nella memorizzazione o nel recupero
dell’informazione (Tulving, Thomson, 1973). Il dibattito è comunque ancora in corso.
Parkin e Walter (1991; 1992) hanno evidenziato un calo nelle prestazioni degli
anziani sani in compiti che richiedono manipolazione, riorganizzazione e integrazione
dell’informazione e problem solving, mentre le abilità di calcolo e di linguaggio sembrano
rimanere sostanzialmente preservate.
Non bisogna però dimenticare l’importanza degli aspetti emotivo-motivazionali:
alcuni studi hanno infatti dimostrato che la motivazione interviene come variabile attiva in
ogni processo cognitivo; gli anziani presentano, in genere, una minor motivazione durante
l’esecuzione delle prove a cui vengono sottoposti e ciò implica un peggioramento dei
risultati da essi ottenuti. Infatti, a parità di capacità cognitive, chi è maggiormente motivato
all’azione otterrà i risultati migliori (Kausler, 1990).
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1.2 Le demenze
La demenza è una sindrome clinica caratterizzata dalla perdita di più funzioni cognitive, tra
le quali invariabilmente la memoria, di entità tale da interferire con le usuali attività
lavorative e sociali del paziente. Oltre ai sintomi cognitivi, sono presenti sintomi non
cognitivi che riguardano la sfera della personalità, l’affettività, l’ideazione, la percezione,
le funzioni vegetative ed il comportamento.
Numerosi processi patologici possono portare a un quadro di demenza, anche se i quadri
clinici sono spesso diversificati a seconda dei pazienti e solo un’attenta valutazione
permette di evidenziarne la causa con sufficiente sicurezza nella maggior parte dei casi.
Gli studi epidemiologici si sono rivolti soprattutto alla valutazione della prevalenza
della malattia di Alzheimer e della demenza vascolare, poiché sono le forme più comuni di
demenza nei paesi industrializzati. In Italia, secondo quanto rilevato dallo studio ILSA
(Italian Longitudinal Study on Aging), la demenza interessa il 5.3% degli uomini
ultrasessantacinquenni e il 7.2 % delle donne della stessa età; la malattia di Alzheimer è la
forma più frequente di demenza in Europa, negli Stati Uniti e in Canada, rappresentando
dal 50 all’80% dei casi di demenza.
La demenza vascolare rappresenta la seconda forma di demenza in ordine di frequenza,
costituendo dall’11 al 24% dei casi nei differenti studi, mentre altre patologie
neurodegenerative, quali la demenza a corpi di Lewy e la malattia di Pick, costituiscono la
causa della demenza nel 10-15% dei casi. Il 10% circa è secondario a patologie
potenzialmente reversibili, (si veda la Tabella 1 per la frequenza delle cause di demenza).
Tra le altre cause di demenza è da ricordare la forma associata ad infezione da HIV.
Quest’ultima forma è presente in circa lo 0.4% dei pazienti durante la fase asintomatica
dell’infezione da HIV, aumenta fino al 7.3% nei pazienti con AIDS conclamato e può
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interessare sino al 60% degli individui nelle fasi terminali della malattia. La sopravvivenza
media dei pazienti affetti da HIV dopo la diagnosi di demenza è di soli 6 mesi.
Tabella 1: Frequenza delle cause di demenza
CAUSA FREQUENZA %
Malattia di Alzheimer 57.0
Dermenza vascolare 13.0
Depressione 4.5
Abuso di alcol 4.2
Idrocefalo normoteso 1.6
cause metaboliche 1.5
Demenza da farmaci 1,5
Neoplasie 1.5
Malattia di Parkinson 1,2
Corea di Huntington 0.9
Forme miste (Alzheimer-vascolari) 0.8
Infezioni 0.6
Ematoma subdurale 0.4
Forme post-traumatiche 0.4
Altre cause 10.9
Un aspetto che è al centro di un ampio dibattito è la sovrapposizione fra la demenza
degenerativa, in particolare la malattia di Alzheimer, e la demenza vascolare. Questo
quadro clinico, definito spesso come demenza mista, appare essere molto più frequente di
quanto ritenuto fino a qualche anno fa. Gli studi neuropatologici e l’applicazione delle
metodiche di neuroimaging più sofisticate hanno permesso di dimostrare che tra i due
processi degenerativi esiste una forte interazione nella determinazione dell’espressione
clinica della malattia. (Si veda la Tabella 2 per una classificazione eziologica delle
demenze).
La classificazione delle sindromi demenziali si basa su tre parametri fondamentali:
l’eziologia, la localizzazione delle lesioni e l’età di insorgenza. In base al primo criterio è
possibile differenziare demenze primarie (degenerative) e demenze secondarie,
riconducendole a fattori intra ed extra-cerebrali. Tra i primi sono riconosciuti i traumi, le
infiammazioni, le neoplasie, l’idrocefalo normoteso e soprattutto, alterazioni vascolari
(demenza multinfartuale) e degenerative (demenza senile tipo Alzheimer); tra i secondi si
11
identificano fenomeni di tipo tossico, dismetabolico e disendocrino (Gala, Guercetti,
Gianetti, 1990).
Differenze tra malattia di Alzheimer e demenza vascolare sono state riportate in diverse
aree cognitive quali il linguaggio, l’attenzione e la memoria. Nei pazienti affetti da
demenza vascolare, sono stati evidenziati deficit più marcati a carico delle funzioni
esecutive in compiti di pianificazione, di ragionamento induttivo e in prove che richiedono
flessibilità di pensiero. Secondo Almkvist (1994), questi deficit sarebbero indicativi della
maggior compromissione delle strutture sottocorticali e dei lobi frontali. Nei pazienti con
demenza di tipo Alzheimer sono invece più gravi i deficit di memoria episodica, probabile
espressione del precoce coinvolgimento delle strutture mesiotemporali da parte delle
alterazioni neuropatologiche alzheimeriane. (Looi, Sachdv, 1999).
Diverse ricerche hanno poi cercato di individuare le caratteristiche neuropsicologiche
distintive della demenza a corpi di Lewy (DLB), che non è sempre facilmente
distinguibile, dal punto di vista clinico, dalla malattia di Alzheimer. Pazienti affetti da
questo tipo di demenza mostrano generalmente una maggior compromissione delle abilità
visuocostruttive e visuospaziali: tale deficit, secondo Calderon, Peery, Erzinclioglu,
Berrios, Dening e Hodges (2001), risulta essere particolarmente evidente quando si
utilizzano compiti visuopercettivi con un minimo carico cognitivo, nei quali i pazienti con
DLB sono precocemente compromessi. Essi, risultano inoltre deficitari nelle abilità
attentive: infatti, mentre i pazienti con demenza di Alzheimer presentano disturbi
prevalentemente a carico dell’attenzione selettiva e delle abilità di shifting, i pazienti con
DLB sono precocemente compromessi anche in compiti di attenzione divisa e sostenuta
(Calderon et al., 2001; Sahgal, Galloway, McKeith, Edwardosn, Lloyd, 1992).
La suddivisione che prende in esame la localizzazione della sede delle lesioni
cerebrali identifica demenze corticali e sottocorticali ed è utile soprattutto per inquadrare i
pazienti in una fase iniziale del decorso clinico (Ferrero, Rota, Tarenzi, 2001).
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Generalmente, la perdita di memoria tipica della demenza di tipo Alzheimer è in relazione
con le lesioni attinenti alla sede temporo-limbica. La sindrome frontotemporale,
osservabile nella malattia di Pick, comporta modificazioni del carattere e della condotta
sociale e implica anche deficit da disconnessione di tipo sottocorticale. I quadri definiti da
degenerazioni lobari non sono altrettanto omogenei: possono presentare l’esordio precoce
di un’atrofia più diffusa (di solito di tipo Alzheimer), oppure provocare un’evoluzione
circoscritta al lobo di origine, come nel caso di un’afasia primaria progressiva, il cui
quadro sintomatico prevede un disturbo di linguaggio lentamente progressivo senza
associati altri disturbi intellettivi e del comportamento. La demenza di tipo sottocorticale
risulta dagli esiti della disconnessione nei diversi circuiti che collegano la corteccia
frontale con le stazioni sottocorticali. Il tratto clinico più evidente è la bradifrenia, ovvero
l’evidente rallentamento dei processi di elaborazione del pensiero, di programmazione di
condotte e comportamenti adeguati, accompagnati da apatia e deficit dell’attenzione, delle
funzioni esecutive, della memoria di lavoro e del richiamo di informazioni.
La classificazione delle forme di demenza in base all’età di insorgenza (forme a
carattere presenile o senile) è utilizzata solamente per differenziare talune forme a carattere
familiare, di rara manifestazione, ma tuttavia in costante espansione (Ferrero et al, 2001).
La demenza, e l’AD in particolare, hanno una durata media di 10-12 anni; il quadro
clinico subisce nel tempo variazioni importanti, con il susseguirsi e il sovrapporsi di
modificazioni delle prestazioni cognitive, del quadro funzionale e comportamentale, con la
comparsa di problemi neurologici o somatici. Sebbene si possa tracciare un profilo
dell’evoluzione clinica della demenza è bene tenere a mente che ogni paziente presenta una
certa variabilità, pertanto la suddivisione della demenza in stadi clinici non può essere
assunta come modello rigido e stereotipato dell’evoluzione clinica della malattia.
Si possono comunque indicare, per fasi, i sintomi clinici generali tipici dell’andamento
progressivo del deterioramento dementigeno.
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Il primo indice della demenza è, generalmente, una lieve perdita di memoria che, in
particolare nell’AD, progredisce gradualmente. Nelle fasi iniziali la perdita di memoria
tende ad essere più marcata per gli eventi recenti: il paziente diviene ripetitivo, tende a
perdersi in ambienti nuovi, dimentica gli impegni, può essere disorientato nel tempo. Con
l’avanzare della malattia anche la memoria remota viene perduta e il paziente è incapace
perfino di riconoscere i propri familiari; si manifestano inoltre alterazioni delle funzioni
superiori: il pensiero astratto risulta impoverito, con ridotta capacità di ragionamento
logico e concettualizzazione. La capacità di giudizio è diminuita spesso precocemente,
cosicchè il paziente manifesta un ridotto rendimento lavorativo e può essere incapace di
affrontare e risolvere problemi, anche semplici, relativi ai suoi rapporti interpersonali o
familiari. Si manifestano labilità emotiva e mutamento della personalità. Il paziente
denuncia una progressiva incapacità a svolgere compiti prima per lui familiari. Spesso
compare apatia; il paziente perde interesse per l’ambiente e per gli altri, rinchiudendosi in
se stesso. Spesso vengono esagerati i caratteri premorbosi della personalità, quali
atteggiamenti ossessivi o compulsivi, aggressività, paranoia. In altri casi vi è invece un
mutamento della personalità, per cui soggetti solitamente controllati e misurati diventano
impulsivi, intrattabili e a volte anche violenti. Questa fase della malattia è più facilmente
evidenziata negli anziani che svolgono ancora attività lavorative o professionali; può
invece sfuggire in pazienti più anziani o che non svolgano compiti impegnativi dal punto di
vista intellettivo. In alcuni casi, la malattia si manifesta con un’afasia isolata o con deficit
visuo-spaziali: l’afasia è più spesso di tipo fluente, con anomie e parafasie. L’aprassia può
manifestarsi precocemente, in particolare con difficoltà nell’uso di strumenti o
nell’abbigliamento; in questa fase il paziente è generalmente gestito dalla famiglia e
possono essere i familiari stessi che, per primi, riescono a notare qualcosa di strano.
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In una fase intermedia della malattia il paziente diviene incapace di apprendere
nuove informazioni, spesso si confonde e si perde, anche in ambienti a lui familiari. La
memoria remota è compromessa, anche se non totalmente persa. Il paziente è a rischio di
cadute, può richiedere assistenza nelle attività di base della vita quotidiana, generalmente è
ancora in grado di deambulare autonomamente. Il comportamento diviene ulteriormente
compromesso. Normalmente si evidenzia un completo disorientamento spazio-temporale.
Nelle fasi avanzate della demenza, il paziente è incapace di svolgere qualsiasi
attività della vita quotidiana e compare spesso incontinenza. La memoria a breve e lungo
termine è totalmente persa e il paziente può divenire mutacico e acinetico; si manifesta
disfagia e può essere necessaria l’alimentazione artificiale: il rischio di complicanze, quali
malnutrizione, disidratazione, malattie infettive (polmonite soprattutto), fratture e piaghe
da decubito diviene elevato.
Nelle fasi terminali della demenza sono frequenti complicanze infettive, soprattutto
broncopolmonari, che costituiscono la causa più frequente di morte tra questi pazienti.
Nonostante i recenti progressi nella conoscenza delle basi biologiche e delle
manifestazioni cliniche delle forme di demenza più frequenti la storia naturale delle
principali forme di demenza degenerativa resta ancora poco chiara. Anche da un punto di
vista neuropatologico, le principali forme di demenza degenerativa (malattia di Alzheimer,
demenze frontotemporali, malattia di Pick, malattia a corpi di Lewy) presentano al loro
interno una certa eterogenicità, sia qualitativamente (tipologia delle lesioni
neuropatologiche) che quantitativamente (estensione e distribuzione delle lesioni stesse).
Dal punto di vista clinico le modalità di presentazione e la storia naturale (durata dei vari
sintomi, interazione fra elementi cognitivi e non cognitivi, durata stessa della malattia)
presentano possibilità di variazioni individuali che rendono difficile la descrizione di
quadri clinici prototipici.
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Tabella 2: Classificazione eziologica delle demenze
Demenze primarie o degenerative:
• demenza di Alzheimer
• demenze fronto-temporali e malattia di Pick
• demenza a corpi di Lewy
• Parkinson-demenza
• idrocefalo normoteso
• corea di Huntington
• paralisi sopranucleare progressiva
• degenerazione cortico-basale
Demenze secondarie
1 Demenza vascolare ischemica
2 Disturbi endocrini e metabolici
• ipo e ipertiroidismo
• ipo e iperparatiroidismo
• malattie dell’asse ipofisi-surrene
• encefalopatia portosistemica in corso di epatopatia
• insufficienza renale cronica
• ipoglicemia
• disidratazione
3 Malattie metaboliche ereditarie
4 Malattie infettive e infiammatorie del SNC
• meningiti ed encefaliti
• sclerosi multipla e malattie demielinizzanti
• connettiviti
• malattia di Creutzfeldt-Jakob
• AIDS
5 Stati carenziali
• carenza di tiamina (sindrome di Korsakoff)
• carenza di vitamina B12 e folati
• malnutrizione generale
6 Sostanze tossiche
• alcol
• metalli pesanti
• farmaci
• composti organici
7 Processi espansivi intracranici
• neoplasie, ematomi o ascessi cerebrali
8 Miscellanea
• traumi cranici
• malattie cardiovascolari e respiratorie
Fonte: Trabucchi M. (2002). Le demenze
Uno degli aspetti di maggior interesse risiede nella constatazione che la fase
biologica della malattia, cioè quella caratterizzata dalla sola presenza di aspetti
neuropatologici, precede probabilmente di molto tempo la presentazione clinica; l’esordio
stesso della malattia è caratterizzato, nelle sue fasi molto precoci, da sintomi sfumati, che
vengono quasi sempre riconosciuti come tali a posteriori, una volta che il quadro clinico si
è ormai manifestato in modo chiaro e conclamato.
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La caratterizzazione delle fasi di esordio e di quelle prodromiche è di estrema
importanza per una diagnosi precoce, per la definizione della prognosi e per la possibilità
di mettere in atto i possibili provvedimenti terapeutici.
La demenza si presenta con un’ampia variabilità di quadri clinici; anche all’interno
della stessa condizione eziologica può esservi una certa eterogeneità.
Indipendentemente dall’eziologia però, in tutti i pazienti sono presenti sintomi cognitivi e
sintomi non cognitivi, la cui frequenza dipende dallo stadio della malattia e dalla causa,
com’è descritto nella Tabella 3. Gli aspetti neurobiologici e neuroanatomici (tipo di danno,
sede ed estensione delle aree coinvolte) non sono da soli in grado di spiegare la variabilità
delle manifestazioni cliniche osservabili nei pazienti.
Tabella 3: Il quadro sintomatologico della demenza
Sintomi Cognitivi:
• deficit mnesici
• disorientamento temporale e spaziale
• aprassia
• afasia. alessia, agrafia
• deficit di ragionamento astratto, di logica e giudizio
• acalculia
• agnosia
• deficit visuospaziali
Sintomi Non Cognitivi:
• psicosi (deliri paranoidei, strutturati o misidentificazioni, allucinazioni)
• alterazioni dell’umore (depressione, euforia, labilità emotiva)
• ansia
• sintomi negativi (alterazioni del ritmo sonno-veglia, dell’appetito, del
comportamento sessuale)
• disturbi dell’attività psicomotoria (vagabondaggio, affaccendamento
afinalistico, acatisia)
• agitazione (aggressività verbale o fisica, vocalizzazione persistente)
• alterazioni della personalità (indifferenza, apatia, disinibizione, irritabilità)
Fonte: Trabucchi M. (2002). Le demenze