2
gli Stati Uniti. Secondo lo storico, il declino degli imperi è avvenuto e continuerà
ad avvenire per l‟impossibilità di mantenere tutti i propri impegni strategici una
volta arrivati all‟apice dell‟ascesa e dell‟estensione, la cosiddetta imperial
overstretch. Leggiamo in una recensione apparsa sul New York Times subito dopo
l‟uscita del libro: “nella lunga analisi storica che presenta, Paul Kennedy
dimostra, insieme a molte altre cose, che le nazioni che raggiungono la
supremazia vincendo le guerre, tendono a diventare sovra-estese in un modo che
mina la fonte della loro ricchezza”2. Ma è soprattutto un altro l‟aspetto clamoroso;
proseguiamo con la stessa recensione, e giungiamo alle osservazioni sulla parte
dell‟opera che riguarda gli Stati Uniti:
Qualcuno chiamerà questa conclusione disfattismo e qualcuno la definirà come un
fischiettare felicemente nell‟oscurità. Comunque la si voglia definire, dimostra che
mentre il corpo del libro potrebbe andare bene per il lettore occasionale di buoni testi
storici, la sua sezione finale è di interesse per tutti coloro che si occupano della scena
politica contemporanea3.
Non è il caso di dilungarci sull‟opera di Kennedy, che naturalmente verrà
abbondantemente esaminata nel corso di questa trattazione, però un‟altra
considerazione merita di essere fatta sul termine declinismo.
Come detto, questo è l‟epiteto con cui sono stati appellati lo storico di Yale e altri
studiosi, ma va decisamente usato con cautela. Si potrebbe infatti pensare a una
corrente accademica che, nel corso degli anni e a partire dal 1987, ha espresso una
coerente e organica teoria sul declino americano. Una tale concezione sarebbe
tutt‟altro che corretta (semplicemente perché una simile corrente non esiste) e non
rispecchierebbe l‟intento di chi scrive. Né questa trattazione riflette
l‟impostazione secondo cui il declinismo sarebbe una sorta di “malattia
ricorrente” degli esperti di politica americana, che verrebbe fuori storicamente alle
prime avvisaglie di crisi e lì si esaurirebbe, come sostenuto in un recente saggio
2
Lehmann-Haupt, C. (1988): Book of the Times – The Rise and Fall of the Great Powers in The
New York Times, January 7, p. 24.
3
Ibidem.
3
sull‟argomento di Alan Dowd, apparso sulla rivista Policy Review4.
Declinismo va preso in questo caso come un punto di partenza. Nel corso del
dibattito sul ruolo degli Stati Uniti e sul futuro del sistema internazionale che si è
sviluppato alla fine degli anni Ottanta, a cavallo dello spartiacque costituito dalla
caduta del muro di Berlino, senz‟altro si è riscontrata la rappresentazione piuttosto
semplificativa di certe posizioni (quella di Kennedy in primis), come
essenzialmente fautrici di un declino statunitense, quindi tacciate di declinismo.
Alcuni studiosi in quel periodo erano critici verso la direzione che stavano
prendendo gli Stati Uniti, e ne sottolineavano le ingenti spese militari e il
crescente indebitamento. Questi gli elementi comuni, ma nessuna “scuola”. Ed è
proprio da qui che prenderà le mosse questa tesi: non dall‟analisi di un filone di
pensiero, ma dalla rappresentazione che ne è stata data e dalle discussioni che
hanno suscitato alcune pubblicazioni. Il termine verrà poi deliberatamente
utilizzato strumentalmente rispetto a un percorso che, partendo dagli anni Ottanta,
giunge al decennio successivo, caratterizzato da un assetto sistemico
completamente mutato (ma non ancora chiaro). Percorso in cui verranno,
all‟interno di un più ampio contesto, enfatizzate le opinioni che individuavano
aspetti potenzialmente forieri di declino per la superpotenza USA, nonostante
fossero anni in cui si faceva largo l‟idea di un definitivo trionfo americano (la fine
della storia come ebbe a chiamarla qualcuno). Non verrà dunque ricondotto tutto a
una dottrina (che non esiste), ma verranno rispettate le differenze tra le diverse
opinioni critiche della politica americana (in particolare della politica estera).
La seconda precisazione va fatta sul termine “dibattito”. Elemento portante di
questa trattazione è appunto l‟analisi del dibattito intorno al tema del ruolo
americano in un mondo in rapido cambiamento, e ciò è stato possibile grazie al
materiale consultato. Da un lato le monografie: sia le opere degli studiosi di cui si
è analizzato il pensiero, sia testi che in modo più generale sono stati di grande
utilità per rappresentare il contesto storico-politico, il “terreno di cultura” di certe
posizioni. Dall‟altro, il vero nucleo di questo studio: l‟analisi delle principali
riviste specializzate americane. Innanzi tutto sono stati piuttosto numerosi gli
4
Dowd, A.W. (2007): Declinism in Policy Review, August/September, n. 144.
4
articoli tratti dalla rivista del Council on Foreign Relations, Foreign Affairs, ma
grande spazio è stato riservato a Foreign Policy, The Atlantic Monthly, World
Policy Journal, The National Interest, International Security, e altre ancora. La
ragione è quella di avere una fotografia in presa diretta sul fermento accademico e
sulle opinioni, spesso esagerate e prive di un‟analisi approfondita, che hanno
animato la discussione sul futuro della superpotenza statunitense5. Il tutto
naturalmente da un punto di vista distaccato dato dal privilegio della distanza
temporale dall‟oggetto studiato. Inoltre uno spazio importante è dedicato al
materiale in lingua italiana e alla ricezione che tale dibattito ha avuto nel nostro
paese. Anche in questo caso sono state consultate riviste specializzate e testi che
analizzano il periodo storico e il contesto culturale di quegli anni.
Un‟ultima precisazione è necessaria sulla periodizzazione. Ci affidiamo per un
momento alle parole del brillante libro Free World di Timothy Garton Ash:
Dopo il crollo del Muro di Berlino, avvenuto il 9 novembre 1989 (9/11, scritto
all‟europea), l‟America si è pian piano accorta di non essere più soltanto una delle due
superpotenze concorrenti. “Iperpotenza”, “super-megapotenza”, “impero americano”,
“nuova Roma”, “mondo unipolare”, sono tutti termini che cercano di catturare la
nuova realtà di un predominio globale senza precedenti nella storia mondiale. Dal
crollo delle Torri Gemelle, avvenuto l‟11 settembre (9/11, scritto all‟americana), gli
Stati Uniti sono alle prese con la scoperta che tutto quel potere non può proteggere i
loro civili innocenti dagli attacchi stranieri nel cuore della madrepatria, un trauma che
gli americani non provavano dal 1814, quando le truppe britanniche saccheggiarono la
Casa Bianca. Potere ineguagliabile, vulnerabilità senza precedenti6.
In questo brano troviamo elegantemente tracciati gli estremi temporali scelti per
questo studio. La “fine della guerra fredda”, indicata nel titolo, è intesa come il
periodo che comprende i due mandati di Ronald Reagan, fino al “fatidico” 1989 e
5
Uno studio simile è stato prodotto da Rita di Leo nel 2000. L‟argomento è più vasto, la studiosa
si concentra su diverse implicazioni del ruolo americano a partire dalla fine della guerra fredda e
segue questi temi chiave sulle riviste specializzate americane del periodo. Di Leo, R. (2000): Il
primato americano. Il punto di vista degli Stati Uniti dopo la caduta del muro di Berlino
[Bologna], Il Mulino.
6
Ash, T.G. (2006): Free World. America, Europa e il futuro dell’occidente [Milano], Mondadori,
pp. 92-93.
5
al definitivo crollo del sistema bipolare sotto la presidenza di George H. W. Bush.
Uno “spartiacque” che dunque non viene esaminato solo nella sua “staticità”, ma,
come si noterà, gli scritti “declinisti” analizzati nella prima parte hanno la loro
radice nella critica alla condotta statunitense ancora in una cornice di guerra
fredda. Poi sicuramente hanno avuto una diversa valutazione e risonanza alla luce
del crollo dell‟Unione Sovietica.
Il secondo “spartiacque”, invece, non è stato espresso nel titolo, in quanto
costituisce una sorta di “limite invalicabile” per questo lavoro. Si è scelto di
restringere il campo di studio agli anni Ottanta e Novanta, da un lato per
mantenere uno sguardo più “storico” e meno da “cronista” sul dibattito; dall‟altro,
perché anche se è impossibile dare una definizione del sistema dopo l‟11
settembre, vi è la sensazione di un altro cambiamento epocale che meriterebbe
una trattazione a parte.
Vi è poi da aggiungere che il periodo trattato rappresenta il passaggio da un‟era
ben definita, l‟era bipolare, a un periodo storico indefinito dal punto di vista del
sistema internazionale, un periodo che è semplicemente “post”. È stato quindi
piuttosto interessante confrontarsi con i tentativi di interpretazione di questo
particolare intervallo storico, che, proprio a causa della mancanza di coordinate
condivise, sono state le più varie e spesso provocatorie. Per riassumere, è utile
citare l‟apertura di un lavoro curato da Vittorio Emanuele Parsi, costruito appunto
intorno alla “svolta” prodotta dall‟11 settembre:
I poco più di dieci anni trascorsi tra la caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) e
il crollo delle Twin Towers (settembre 2001) sembrano rappresentare una lunghissima
cesura tra due epoche che si direbbero irrimediabilmente diverse, se non addirittura
opposte. Si tratta in realtà di una cesura slabbrata, “senza margini” verrebbe da dire,
anche perché il suo effettivo avvio e la sua conclusione non sono per nulla scontati7.
La tesi è strutturata in due parti parallele che riflettono la periodizzazione,
ciascuna composta da due capitoli, uno che fornisce un ampio contesto storico-
7
Parsi, V.E. (2003): Introduzione in Parsi, V.E., a cura di: Che differenza può fare un giorno:
guerra, pace e sicurezza dopo l’11 settembre [Milano], Vita e Pensiero, p. VII.
6
politico, l‟altro che analizza nello specifico gli scritti “declinisti”.
Si inizia con “la fine della guerra fredda”, gli anni Ottanta così marcatamente
caratterizzati dall‟amministrazione Reagan, dall‟aumento vertiginoso delle spese
per la difesa e dal deficit galoppante. Ne verrà fornito un quadro storico
essenziale, funzionale ai temi che si vogliono enfatizzare; sarebbe infatti
pretenzioso raccontare tutta la complessità della storia americana di quegli anni.
Nel corso del primo capitolo, storia e dibattito teorico sul futuro degli Stati Uniti
si intrecceranno fino a giungere agli anni della dissoluzione dell‟Unione
Sovietica. Ci si muoverà tra le concezioni trionfali di tale evento epocale, e quelle
allarmistiche per la fine di un periodo di “lunga pace armata” tra grandi potenze,
che dunque avrebbe potuto aprire di nuovo la strada all‟instabilità. Tra esse si è
ritagliata uno spazio l‟impostazione “declinista”, come è stata chiamata dai suoi
detrattori, che rivestirà una posizione centrale rispetto alle altre tesi esaminate nel
primo capitolo. La paura del declino di fine anni Ottanta era data non dal
decadente colosso sovietico, ma dalla dinamicità delle economie degli alleati degli
Stati Uniti, Europa e Giappone, in anni in cui al contrario gli USA realizzavano di
essere una grande potenza fortemente indebitata. Il modo giusto, secondo i
declinisti, di muoversi in questo contesto sarebbe stato assecondarlo,
depotenziando gli impegni internazionali troppo onerosi e l‟apparato militare.
Il secondo capitolo invece approfondirà dettagliatamente The Rise and Fall of the
Great Powers. Si cercherà sia di fornire una precisa descrizione della
“sovraestensione imperiale”, vista da Kennedy come elemento ricorrente nella
storia dell‟ascesa e declino delle grandi potenze, sia di entrare nello specifico del
fermento suscitato dall‟opera, presentando diverse analisi critiche.
La seconda parte di questa trattazione invece prende in esame un contesto
radicalmente mutato, “l‟inizio dell‟era post-bipolare”. Il terzo capitolo si occuperà
degli anni Novanta, caratterizzati (come gli anni Ottanta con Reagan) dai due
mandati presidenziali di Clinton, ma soprattutto caratterizzati dalla mancanza di
coerenza, sia nell‟azione americana all‟estero, sia dal punto di vista dell‟analisi
sul sistema internazionale. La guerra del Golfo del 1991, che ha visto la
partecipazione di un‟ampia coalizione, così trionfalmente dipinta da Bush come
segno tangibile di un nuovo ordine mondiale in cui si sarebbero affermati i
7
principi democratici, non ha in realtà avuto questo significato. Il dato che se ne è
potuto ricavare alla luce degli anni successivi è che quella condivisione si è
esaurita in un fatto contingente.
I tentativi di Clinton di dare un‟impronta multilaterale alla politica estera
americana, in anni di boom economico, sembravano essere efficaci, ma hanno
incontrato le immancabili resistenze interne di chi spingeva per una politica più
assertiva da parte di quella che da alcuni ormai veniva definita “iperpotenza”.
Il “momento unipolare”, secondo una celebre definizione proposta da Charles
Krauthammer8, in realtà vedeva, accanto al trionfalismo dato dall‟assenza di
rivali, la paura di un declino (diverso dagli anni Ottanta), che poteva essere dettato
per alcuni dall‟incapacità di preservare tale momento, per altri semplicemente
dalla mancata comprensione della sua portata.
Tra gli analisti vi era chi sosteneva che fosse necessario che gli Stati Uniti si
imponessero sulla scena sfruttando il periodo di asimmetria di risorse rispetto a
chiunque pretendesse di essere un antagonista, e chi invece, in modo molto più
realista, considerava la transitorietà di tale eccezionale concentrazione di potere e
quindi la necessità di agire in modo più lungimirante, tenendo presente che il
“momento unipolare” era solo un intervallo verso il multipolarismo.
Si è tenuto conto di quest‟ultima impostazione per l‟ultimo capitolo, che prenderà
in esame una serie di scritti degli anni Novanta, definiti impropriamente (stavolta
da me) “declinisti”, in quanto proponevano un ripensamento del trionfalismo
americano di quel decennio, che, a ben vedere, lasciava da parte troppi problemi
irrisolti, mascherati dall‟entusiasmo per la sconfitta del pericolo sovietico.
8
Krauthammer, C. (1990/1991): The Unipolar Moment in Foreign Affairs, America & the World,
vol. 70, n. 1.
8
Capitolo I
Gli Stati Uniti e la fine della guerra fredda.
Fine della storia o ritorno alla storia?
“Ciò di cui potremmo essere testimoni non è semplicemente la fine
della guerra fredda […] ma la fine della storia in quanto tale: vale a
dire […] l‟universalizzazione della democrazia liberale occidentale
come forma finale di governo umano”.
Francis Fukuyama: The End of History? (1989)
“Perciò l‟ironico risultato del mezzo secolo passato è che al momento
della vittoria il nostro potere e la nostra influenza sono diminuiti. Se la
fine della guerra fredda ha segnato la fine dell‟Unione Sovietica come
grande potenza, essa ha anche segnato un visibile declino nel ruolo
americano”.
Robert Tucker: 1989 and All That (1990)
La fine del bipolarismo, che ha seguito di poco la fine della guerra fredda9, fu un
evento repentino e inatteso, nonostante le evidenti difficoltà che attraversavano la
potenza Sovietica. Il sistema bipolare era considerato da molti esperti stabile e
prevedibile10, era visto come la struttura più adatta per prevenire i conflitti tra le
maggiori potenze e, per questo motivo, il dibattito accademico sul sistema
internazionale era incentrato quasi esclusivamente sull‟analisi dell‟equilibrio tra i
9
Le due date non coincidono in quanto la fine della guerra fredda avvenne con gli accordi tra
Reagan e Gorbaciov per ridurre le proprie capacità nucleari (1987), mentre il bipolarismo finì nel
1991 con la definitiva dissoluzione di ciò che rimaneva dell‟URSS. Comunque l‟anno simbolico di
questa “rivoluzione” è naturalmente il 1989, anno della caduta del muro di Berlino, e verrà anche
in questa sede preso come “spartiacque”. Cfr. Del Pero, M. (2008): Libertà e impero. Gli Stati
Uniti e il mondo 1776-2006 [Bari], Laterza, pp.387-397. Sul dibattito tra le diverse interpretazioni
teoriche di questi “due crolli” (il crollo del muro di Berlino del 1989 e la dissoluzione dell‟Unione
Sovietica del 1991) cfr. Minolfi, S. (2005): Tra due crolli. Gli Stati Uniti e l’ordine mondiale dopo
la guerra fredda [Napoli], Liguori.
10
Waltz, K. (1964): The Stability of a Bipolar World in Daedalus, Summer, vol. 93, n. 3.
9
due blocchi.
L‟equilibrio generato dai devastanti arsenali atomici delle due grandi potenze,
l‟equilibrio del terrore, era inoltre giudicato vantaggioso da USA e URSS in
quanto offriva la possibilità di controllare le zone di interesse strategico con costi
relativamente bassi. La guerra fredda possiamo dire (usando un‟efficace
definizione di Salvatore Minolfi), che fosse caratterizzata da una natura
ambivalente: era stata sia un “sistema di guerra” sia una “struttura d‟ordine”11. Gli
studiosi erano talmente impegnati nell‟elaborare analisi e teorie sulla prevenzione
del conflitto tra i due “imperi” e sui possibili scenari futuri di guerra, da produrre
pochissime opere rilevanti sulla questione del mutamento del sistema, “il contesto
della guerra fredda era assunto come intrascendibile”12. Parimenti vi era stata una
forte e condivisa strategia che aveva definito l‟approccio americano con Mosca: il
contenimento della minaccia sovietica nella sua sfera di influenza (il
Containment), la dottrina promossa da George Kennan in un celebre articolo
apparso su Foreign Affairs nel 194713.
Non era previsto che la guerra fredda finisse in questo modo, - scriveva Ronald Steel
nel 1992 - con il decesso dell‟impero sovietico, la dissoluzione dello Stato sovietico e
il ripudio dello stesso comunismo da parte di quelli che erano ritenuti essere i suoi più
ardenti sostenitori. Una tale situazione normalmente è il risultato di una catastrofica
sconfitta in guerra. Seguendo lo scenario della guerra fredda, lungo un periodo di
diversi decenni il conflitto si sarebbe …[dovuto ridurre]… gradualmente se le due
superpotenze avessero elaborato accordi reciprocamente benefici di controllo delle
armi, per diminuire il costo delle loro rispettive sfere di influenza. In effetti –
aggiungeva lo studioso – […] i vantaggi che offriva a entrambi i maggiori contendenti
erano così chiari e i suoi costi similmente così gestibili, che sembravano esserci pochi
incentivi da entrambe le parti nel terminarla14.
11
Minolfi, S.: op. cit. p. 1.
12
Ivi p. 17.
13
Articolo pubblicato sotto pseudonimo, X (1947): The Sources of Soviet Conduct in Foreign
Affairs, July.
14
Steel, R.: The End and the Beginning in Hogan, M.J., edited by (1994): The End of the Cold
War. Its Meaning and Implications [Cambridge], Cambridge University Press, p. 104. L‟opera di
Ronald Steel fa parte di una raccolta di saggi, che verrà più volte presa in considerazione nel corso
della mia trattazione. È uscita nel 1992 ed è il primo serio tentativo di analisi di quello che era
stato e che aveva implicato il sistema internazionale che si era appena dissolto. Hogan propone più
10
La competizione nata tra le due potenze dopo la fine della seconda guerra
mondiale, nonostante fosse caratterizzata da una pericolosissima corsa agli
armamenti atomici, aveva portato a un incontestabile risultato: “la più pericolosa,
aspra e duratura rivalità tra grandi potenze nella storia moderna, è diventata nel
tempo il più duraturo periodo di libertà dalle guerre tra grandi potenze nella storia
moderna”15. Questa assenza di major wars16 era dunque data dalla paura di una
distruzione globale, dalla balance of terror,
Sebbene il bipolarismo sia stato caratterizzato sostanzialmente da un antagonismo
sistematico e geopolitico e dalla ricerca di vantaggi esso ha comportato una certa dose
di prudenza nel perseguimento di obiettivi che potessero essere considerati una
minaccia agli interessi vitali della controparte. La cautela fu in gran parte dovuta al
cambiamento qualitativo avutosi nella concezione della guerra con la formazione di
arsenali nucleari17.
Oltre alle devastanti armi nucleari, un elemento del tutto peculiare della guerra
fredda, che la differenziava dai classici conflitti tra grandi potenze, era stata la
contrapposizione ideologica tra i due contendenti18. Gli USA si proponevano
come baluardo contro il modello di società propagandato dall‟URSS, fatto che
contribuiva in maniera decisiva alla rigidità del sistema.
La dissoluzione di uno dei due attori che regolavano il sistema poteva essere vista
in diversi modi e potevano essere sviluppate le teorie più interessanti e innovative
di venti saggi sulla guerra fredda e sul mondo che ci si apprestava ad affrontare. Contributi che
hanno prospettive e ambiti di studio diversi, in modo da fornire una trattazione completa ed
esauriente.
15
Gaddis, J.L.: The Cold War, the Long Peace, and the Future in Hogan, M.J. (edited by): The
End of the Cold War, cit. p. 21.
16
Celebre l‟opera di John Mueller del 1989, nella quale lo studioso sostiene che la guerra (almeno
quella tra grandi potenze) è sempre meno concepibile e sarà un‟opzione destinata a non essere più
praticata, in quanto non conveniente, sia per ragioni economiche sia, soprattutto, sociali e culturali.
Mueller, J. (1989): Retreat from Doomsday. The Obsolescence of Major War [New York], Basic
Books.
17
Sonnenfeldt, H. (1989): Nuovi equilibri – Oltre il bipolarismo in Relazioni Internazionali,
Dicembre, p. 10.
18
Una concezione della guerra fredda come battaglia essenzialmente ideologica è presente ad
esempio in Pfaff, W. (1990/1991): Redefining World Power in Foreign Affairs, America and the
World, vol. 70, n. 1.
11
sul futuro del mondo e sul ruolo degli Stati Uniti, ma il punto di partenza doveva
essere la constatazione che era finito un sistema che aveva prodotto un lungo
periodo di pace armata tra grandi potenze. Utilizzando le parole dell‟autorevole
storico John Lewis Gaddis:
Si possono approvare o meno i mezzi attraverso cui è avvenuto, o si può essere
d‟accordo o meno con i modi in cui è avvenuto, ma il semplice fatto è che la guerra
fredda si è evoluta in una lunga pace. Se la lunga pace può sopravvivere alla fine della
guerra fredda è, comunque, tutta un‟altra questione19.
Un altro punto importante da sottolineare è che la fase che, in quegli anni,
caratterizzava il confronto tra i due blocchi era apparentemente conveniente per
entrambi in un‟ottica di conservazione del sistema. Le riforme introdotte in
Unione Sovietica con la Perestrojka infatti, erano state accompagnate da una
rivoluzione nei rapporti con Washington. Se nel periodo precedente Ronald
Reagan, che era stato eletto presidente degli Stati Uniti nel 1980, aveva connotato
la politica estera dei suoi mandati presidenziali con il rilancio di un‟aspra
competizione con Mosca, con l‟avvento al potere di Gorbaciov nel 1985 trovò un
interlocutore nuovo e innovatore. Negli anni successivi gli accordi tra i due
presidenti posero la parola fine alla corsa agli armamenti20, mettendo di fatto da
parte la guerra fredda. Con questa mossa era stata inaugurata una collaborazione
bipolare che avrebbe, nelle intenzioni, comunque dovuto lasciare intatta la
struttura del sistema. In realtà l‟esito fu la dissoluzione, di lì a poco, di uno dei
poli su cui il sistema era fondato.
19
Gaddis, J.L.: The Cold War, the Long Peace, and the Future, cit. p. 21 Sulla guerra fredda
c‟erano naturalmente posizioni contrastanti, alcuni esperti non si limitavano a considerare
l‟assenza di guerre tra grandi potenze ma analizzavano la conflittualità in generale del sistema. La
conclusione era che un mondo multipolare era tendenzialmente più pacifico di un mondo bipolare.
Cfr. Santoro, C.M. (1989): Bipolarità e guerra in Relazioni Internazionali, Marzo.
20
Gli accordi più importanti sono quelli di Washington del dicembre 1987, che portarono alla
ratifica del trattato INF (Intermediate Nuclear Forces), che eliminava un‟intera categoria di missili
nucleari (la prima volta in tutta la Guerra Fredda in cui le due superpotenze si accordavano per
ridurre le proprie capacità nucleari). Del Pero, M.: Libertà e impero, cit. p. 395. Per una
descrizione più dettagliata degli accordi sui cosiddetti “euromissili”, cfr. Rossi, S.A. (1988):
Reagan – Gorbaciov e il trattato sugli euromissili in Affari Esteri, Inverno, n. 77.
12
La guerra fredda non veniva trascesa dalla nuova collaborazione bipolare, ma
terminava con il collasso e la successiva implosione di una delle due parti. Nella sfida
per l‟egemonia globale, uno dei due grandi modelli universalistici si rivelava perdente.
[…] Assieme al modello sovietico crollava anche l‟impero che in suo nome era stato
costruito. Rimaneva in vita, invece, un impero statunitense, affatto ortodosso per la
sua natura e viepiù deterritorializzato
21
.
Si poneva dunque, dopo il “crollo” del 1989, un grandissimo interrogativo sulla
nuova architettura del sistema internazionale e sul ruolo che in esso avrebbero
avuto gli Stati Uniti, l‟unica superpotenza rimasta. Trionfalismo e pessimismo si
alternavano in un contesto ancora non delineato. Tra le diverse proposte
interpretative di fine anni Ottanta, si erano fatte largo alcune teorie dette
“decliniste”, che prefiguravano un mondo in cui la potenza americana avrebbe
avuto sempre maggiore difficoltà ad affermare la sua leadership e avrebbe infine
ceduto il passo a nuove potenze in ascesa. Accanto ad esse un rinnovato vigore
per le teorie idealiste che vedevano nella fine della guerra fredda, la “fine della
storia in quanto tale”22, ed ebbero effettivamente una grande presa in quegli anni.
La storia era davvero finita con il trionfo del “mondo libero”? O si aprivano le
porte per un mondo attraversato da nuovi conflitti senza la stabilità del
bipolarismo? Scriveva il realista Samuel Huntington nel 1989 sulle pagine di The
National Interest,
La fine della guerra fredda non significa la fine della rivalità politica, ideologica,
diplomatica, economica, tecnologica o anche militare tra le nazioni. Essa non significa
la fine della lotta per il potere e l‟influenza. Molto probabilmente essa significa
crescente instabilità, imprevedibilità e violenza negli affari internazionali. Essa
potrebbe significare la fine della “lunga pace”23.
Non si tratterebbe secondo questa impostazione della fine della storia ma di un
(decisamente meno trionfale per gli Stati Uniti) “ritorno alla storia”.
21
Del Pero, M.: Libertà e impero, cit. p.396.
22
Fukuyama, F. (1989): The End of History? In The National Interest; Summer, n. 16.
23
Huntington, S.P.(1989): No Exit: the Errors of Endism in the National Interest, Fall, n. 17, p. 6.
13
1. La presidenza Reagan. Eccezionalismo e ritorno alla guerra
fredda.
Il dibattito sul futuro dell‟egemonia americana si era acceso prima della fine della
guerra fredda, durante gli anni Ottanta, grazie a una serie di opere e di articoli di
studiosi ed esperti di politica internazionale. È difficile immaginare gli anni
Ottanta e il loro culmine nel “fatidico” 1989, senza associarli alla figura di Ronald
Reagan, l‟ex attore hollywoodiano presidente repubblicano dal 1981 al 1988.
L‟amministrazione Reagan dava una propria risposta, opposta rispetto ai suoi
predecessori, alla crisi egemonica scaturita dalla fallimentare guerra nel Vietnam,
imprimendo profonde novità sul paese che certamente influenzarono i
commentatori e gli esperti di politica.
La rottura con il passato fu subito evidente e, già nel primo anno della sua
presidenza, Reagan (qualunque sia la valutazione sulla bontà delle sue politiche)
fece percepire una decisa svolta rispetto alle precedenti amministrazioni24; per
dirla con le parole di Franco Mattei:
Si potrebbe affermare che la presidenza Reagan ha esaurito il suo capitale intellettuale
in circa un anno, operando i tagli di spesa e quelli fiscali, e rafforzando la difesa
nazionale. […] Fatta una dovuta eccezione per il trattato di eliminazione dei missili a
medio raggio (INF), le successive iniziative della presidenza sono state poche e non
particolarmente rilevanti o fortunate25.
L‟inizio del primo mandato fu fulmineo e rimodellò il sistema americano tanto da
condizionare pesantemente anche le agende delle future presidenze; continuando a
citare Mattei, “il Congresso ha approvato in sei mesi il più ampio pacchetto di
riduzioni di bilancio, la più elevata riduzione fiscale nella storia degli Stati Uniti,
24
Per uno sguardo sulle amministrazioni Nixon, Ford e Carter, cfr. Del Pero, M.: Libertà e impero,
cit. pp. 354-376. “La vittoria di Reagan era anche, se non primariamente, la sconfitta di Carter.
Molti sondaggi rivelavano come una parte cospicua degli elettori di Reagan non si considerasse
conservatrice. […] La crisi economica aveva ovviamente svolto un ruolo fondamentale, ma i temi
di politica estera - che si legavano peraltro strettamente alle questioni economiche - non avevano
avuto un impatto marginale. Reagan prometteva agli americani di porre termine a un‟era di
umiliazioni e ritirate.” (ivi p. 378).
25
Mattei, F. (1989): L’eredità di Ronald Reagan in Relazioni Internazionali, Marzo, p. 15.
14
e il maggiore aumento delle spese per la difesa in tempo di pace”26. Questo
repentino cambiamento portò innanzi tutto a una percezione diffusa di una
leadership forte, Reagan venne visto come un presidente “del fare”, si era infatti
da subito concentrato nell‟attuazione dei capisaldi della sua campagna elettorale27;
da un altro punto di vista, provocò profondi mutamenti strutturali che, come
vedremo, influenzarono ampiamente il dibattito accademico sulla potenza
americana.
I tratti caratteristici del governo guidato da Ronald Reagan furono
immediatamente evidenti anche in politica estera. Giuseppe Mammarella, in un
saggio del 1988 che tracciava un primo bilancio dell‟operato del presidente
repubblicano, distingueva, per quanto attiene alla politica estera dell‟”ex attore”,
tra la parte “declaratoria” e la parte “operativa”. I successi maggiori sono arrivati
nelle trascinanti dichiarazioni, negli impegni assunti, nella ricostruzione della
fiducia sull‟azione americana. Sulle realizzazioni concrete invece il bilancio degli
otto anni di Reagan non si può certamente giudicare con la stessa enfasi28.
Il nuovo presidente intendeva porre fine alla politica di distensione con Mosca,
che aveva caratterizzato l‟amministrazione Carter e che giudicava esclusivamente
come una “strada a senso unico usata dall‟URSS per raggiungere i propri scopi” e
che “aveva messo gli Stati Uniti e i loro alleati in una condizione di debolezza e
vulnerabilità”29. Dunque veniva recuperata con forza la centralità della guerra
fredda nell‟approccio alla politica estera americana: l‟antagonismo con l‟Unione
Sovietica doveva rappresentare, secondo Reagan, la cornice di riferimento delle
relazioni internazionali. La sua linea dura era testimoniata dalla grande presenza
di aderenti al nascente movimento “neoconservatore” all‟interno della sua
26
Ivi p. 18.
27
Scrive Patterson in un recente libro parlando dell‟inizio dell‟era Reagan, “he concentrated on the
most important issues of the campaign: increasing expenditures for the military, cutting domestic
spending on social welfare, and – above all – reducing federal income taxes by 30 percent over the
next three years”. Patterson, J.T. (2005): Restless Giant. The United States from Watergate to Bush
v. Gore [New York], Oxford University Press, p. 154.
28
Mammarella, G. (1988): L’America di Reagan [Roma; Bari], Laterza, pp. 93-97. Lo storico non
dava una caratterizzazione negativa della preponderanza delle parole sui fatti nella politica estera
reaganiana: “Anche una politica fatta di dichiarazioni è in sé stessa una politica, ha una sua
identità e spesso una sua indiscutibile efficacia, specie in un‟epoca in cui dichiarazioni, segnali ed
immagini costituiscono tanta parte di ciò che chiamiamo la realtà”. (ivi p. 93).
29
Del Pero, M.: Libertà e impero, cit. p. 380.
15
amministrazione. Appena eletto Reagan nominò trentatré membri della lobby
anticomunista denominata “Comitato sul pericolo odierno” (Committee on the
Present Danger – CPD), in cui si erano riuniti i pensatori neoconservatori i quali,
preoccupati dalle posizioni di apertura verso l‟URSS di Jimmy Carter, quattro
anni prima avevano lanciato una campagna contro il “pericolo sovietico”30.
Questo ritorno alla competizione con Mosca e con l‟ideologia che rappresentava,
fu accompagnato da una retorica “eccezionalista”, che sottolineava la missione
degli USA portatori di valori nel mondo.
[Gli USA] dovevano […] abbandonare le cattive lezioni del decennio precedente e
tornare a guardare alla loro storia e alla loro tradizione: sfidando l‟invasiva e insana
presenza di una mano pubblica che assopiva gli intelletti, inibiva la libera iniziativa e
deresponsabilizzava il singolo; affidandosi ai meccanismi di mercato, nella
ragionevole speranza che essi avrebbero permesso agli USA di uscire dalla crisi;
rilanciando il sano anticomunismo della prima guerra fredda; mantenendo l‟enfasi
“carteriana” sulla moralità e sui diritti umani, ma declinandola ora in una chiave
precipuamente antitotalitaria e antisovietica; […] per affermare che quello sovietico
era un sistema destinato al fallimento31.
Un saggio di questa retorica del presidente (non a caso soprannominato “il grande
comunicatore”), incentrata sulla rappresentazione, piuttosto manichea, di un
mondo in cui agivano “forze del bene” e “forze del male”, possiamo trovarlo nel
celebre discorso, tenuto nel 1983 durante un incontro di evangelici, in cui Reagan
dipinse l‟Unione Sovietica come “l‟impero del male”:
[…] non scenderemo mai a compromessi sui nostri principi e la nostra etica. Non
rinunceremo mai alla nostra libertà. Non abbandoneremo mai la nostra fede in Dio. E
non interromperemo mai la ricerca di una pace genuina. Ma non possiamo assicurare
nessuna di queste cose che l‟America rappresenta attraverso il cosiddetto
“congelamento” nucleare proposto da qualcuno. […] La realtà è che dobbiamo
30
Lobe, J.; Oliveri, A. (2003): I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani
[Milano], Feltrinelli, pp. 13-16.
31
Del Pero, M.: Libertà e impero, cit. p. 379.