IV
Introduzione
Si intende generalmente per “inganno” l’atto, l’artifizio, il sotterfugio idoneo a
propagare credenze non vere o non completamente vere.
Il concetto di inganno è costantemente presente nel diritto e nella vita del
giurista, in particolare in ambito commerciale, e in questo lavoro si cerca di
analizzare, in particolare, il ruolo che esso gioca all’interno del diritto dei marchi.
Il lavoro tenta, senza pretese, di essere il più possibile completo
nell’approfondire il fenomeno; non ci si limitata, quindi, allo studio della
disciplina specifica del marchio d’impresa, ma si prende in considerazione un
ventaglio di norme piuttosto ampio che coinvolge, in qualche modo, il marchio e
l’inganno che a questo può essere connesso.
A partire dal nostro Codice di proprietà industriale, e dal corrispondente
Regolamento del marchio comunitario, non si tralasciano norme che nel corso
degli anni hanno formato e arricchito quello statuto di non decettività di cui tanto
si parla in dottrina e di cui ovviamente parleremo anche in questa sede, così da
valutare l’applicazione pratica del principio per cui il marchio non deve
trasmettere informazioni ingannevoli per il consumatore.
Il concetto di inganno che analizzeremo è quello che sostanzialmente verte
sulla difformità del messaggio di cui il marchio è portatore con riferimento alle
caratteristiche, alla qualità e alla provenienza geografica del prodotto, tralasciando
V
senza colpa, data l’ampiezza e la sostanziale diversità della fattispecie, l’inganno
c.d. confusorio.
L’informazione è ciò che permette a chi la riceve di superare un’incertezza e,
nell’innumerevole quantità di messaggi indirizzati al consumatore, soggetto che
gode della facoltà di scegliere tra innumerevoli beni e servizi presenti sul mercato,
il marchio svolge un ruolo fondamentale: capacità di sintesi e una certa distintività
lo rendono un’arma a doppio taglio, un ottimo collettore di informazioni e un buon
mezzo per ingannare.
Sulla scacchiera vedremo muoversi sostanzialmente due soggetti:
l’imprenditore, titolare dei diritti di proprietà industriale, a cui sostanzialmente si
rivolge il Codice di proprietà industriale, e il consumatore, a cui è invece dedicato
il Codice del consumo. Gli interessi di questi due soggetti, non solo s’intersecano
in diverse occasioni, ma si potrebbero addirittura considerare interdipendenti: la
concessione di un diritto di esclusiva, infatti, dipende dalla capacità del segno di
comunicare un’informazione al consumatore, storicamente individuata nella
provenienza imprenditoriale del prodotto o servizio contrassegnato.
Il punto della questione è questo: “Non è ingannato se non chi si fida” (Giulio
Cesare Croce, 1608). Il marchio, come vedremo chiaramente nel primo capitolo,
quale “attenuatore di obiezioni”, ha la capacità di aprire una breccia nelle difese
del consumatore, il quale si affida al segno e al messaggio da questo trasmesso,
contribuendo alla costruzione di determinate aspettative che possono essere
colpevolmente o dolosamente disattese dall’imprenditore.
La disciplina non è, però, priva di tecnicismi e di riferimenti poco immediati;
infatti, nel primo capitolo, per dare un quadro introduttivo chiaro prima di
analizzare le norme specifiche, si cercherà di richiamare i concetti fondamentali in
materia, a partire dalla funzione essenziale del segno, scoprendo i primi
VI
meccanismi di tutela realizzati attraverso i c.d. impedimenti assoluti alla
registrazione, fino ad arrivare alla nozione di marchio significativo o espressivo e
ai concetti di volgarizzazione e secondary meaning, senza mai tralasciare, quando
occorrono, le relazioni con il tema della decettività del marchio.
Ancora, per una maggiore chiarezza, si èsaminerà la figura del marchio
d’impresa quale “messaggero” e l’evoluzione normativa che ha interessato la
materia, a livello nazionale e internazionale.
Nei capitoli successivi si studieranno a fondo le ipotesi di decettività previste
dal Codice di proprietà industriale: nel secondo capitolo, si guarderà al fenomeno
della decettività c.d. originaria e alle norme che prevedono l’esclusione della
registrazione o la nullità del segno; nel terzo capitolo, invece, si esaminerà il
marchio nel suo momento dinamico, quando, ormai registrato, entra nel gioco del
mercato, con la possibilità che possa divenire ingannevole in seguito all’uso che
ne venga fatto dall’imprenditore o con il suo consenso, approfondendo il ruolo
della percezione del consumatore e i criteri di giudizio applicati dalla
giurisprudenza; si avrà poi attenzione, nel quarto capitolo, agli atti di disposizione
del diritto di marchio, in particolare alla cessione, alla licenza e ai c.d. accordi di
coesistenza, completando il discorso con alcuni riferimenti alle norme
anglosassoni in materia, ricche di spunti interessanti.
La decettività del segno, come anticipato, non rileva esclusivamente alla luce
del Codice di proprietà industriale; nel corso del terzo capitolo, infatti, avranno
largo spazio la disciplina della pubblicità, quella delle denominazioni d’origine, la
tutela dei consumatori e quella della concorrenza. Il marchio, benché non ne sia il
protagonista, come vedremo, copre un ruolo fondamentale in ogni disciplina che
coinvolge la fase comunicativa tra imprenditore e consumatore.
VII
In conclusione, si analizzerà in maniera critica l’insieme di norme che
compongono lo statuto di non decettività cercando di rispondere alle diverse
questioni sollevate negli anni tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, si studierà
il fenomeno dell’inganno alla luce delle posizioni dei soggetti in gioco e si
cercherà di stabilire un punto chiaro sul complicato contemperamento degli
interessi meritevoli di tutela.
1 Marchi e decettività.
1.1 Nozione di marchio e capacità
distintiva.
La disciplina del marchio d’impresa, come la nozione stessa di marchio, è oggi
dettata, oltre che dal diritto nazionale, anche e soprattutto dal diritto comunitario, non
solo perché il diritto nazionale è oggi armonizzato comunitariamente, tendenza
iniziata a partire dalla Direttiva 89/104/CEE sul ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (attuata in Italia con il D. lgs.
480/1992 poi abrogato dal più recente Codice della proprietà industriale
1
), ma anche
perché al marchio nazionale si è affiancata la figura del marchio comunitario istituito
dal Regolamento CE 40/94 (recentemente codificato con il Regolamento CE
207/2009
2
).
Di fatto sono molte le normative di riferimento per quanto riguarda il diritto dei
marchi che influiscono sul nostro ordinamento:
Convenzione di Unione di Parigi per la protezione della proprietà intellettuale
(CUP), testo di Stoccolma 14 luglio 1967.
1
Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30.
2
In attuazione della nuova Direttiva 2008/95/CE, il regolamento sostituisce l’originario regolamento
CE n. 40/94 e successivi emendamenti, senza contenere sostanziali modifiche.
Marchi e decettività
9
Accordo di Madrid per la registrazione internazionale dei marchi, testo di
Stoccolma 14 luglio 1967.
L’Accordo di Nizza del 1957.
Protocollo relativo all’Accordo di Madrid, Madrid 27 giugno 1989.
Agreement on Trade-Related Aspect of Intellectual Property Rights (TRIPs),
Marrakesh 15 aprile 1994.
Il trattato sul diritto dei marchi di Ginevra del 1994, ratificato in Italia con la
l. 29 marzo 1999, n. 102.
Codice della proprietà industriale (CPI) – Decreto legislativo 10 febbraio
2005, n. 30 e successive modifiche.
Regolamento CE n. 207/09 del Consiglio, 26 febbraio 2009, sul marchio
comunitario.
Sulla base di quanto accennato è dunque legittimo citare la definizione di marchio
riportata sul sito dell’UAMI, non eccessivamente tecnica, ma piuttosto
esemplificativa:
“Un marchio è un segno che serve a distinguere i prodotti e i servizi di
un’impresa da quelli di altre imprese”.
Più tecnicamente, il marchio è un segno di identificazione o di distinzione
suscettibile di rappresentazione grafica, in particolare le parole, i disegni, le lettere, le
cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le
tonalità cromatiche. Segno di distinzione, abbiamo detto, atto “a distinguere i
prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”. Si evince quindi dalla
stessa definizione di “marchio d’impresa”, ricavata dall’art. 2 della Direttiva
2008/95/CE e dal corrispondente art. 4 del Regolamento 207/2009/CE sul marchio
comunitario (nonché dall’art. 7 del Codice della proprietà industriale, per quanto
riguarda il nostro diritto nazionale, analogo alla direttiva), la sua funzione principale
di segno distintivo.
Marchi e decettività
10
Senza andare troppo a fondo sul concetto di idoneità del segno a distinguere, con
relative conseguenze a livello di tutela che derivano dalla presenza o assenza di tale
caratteristica, è interessante ai fini del nostro lavoro richiamare l’attenzione su alcuni
punti.
La normativa europea, indifferentemente che si parli di direttiva o regolamento,
come quella italiana, dopo aver definito cos’è un marchio di impresa, passa con
l’elencare le motivazioni per cui quel marchio non può essere oggetto della tutela
riservata dalle istituzioni ai marchi registrati. Si tratta di quegli impedimenti alla
registrazione, “assoluti” o “relativi”, nei quali il segno può incorrere al momento
della domanda o, se già registrato, successivamente ad essa.
Sono esclusi dalla registrazione o, se registrati, sono dichiarati nulli, si legge
nell’art. 3, n. 1, lett. a), della Direttiva 2008/95/CE, “i segni che non possono
costituire un marchio d’impresa”. La normativa sottolinea e colloca su un piano
“preliminare” l’attitudine del segno a costituire un segno distintivo, svolgendo una
funzione precisa e distinta dalle preclusioni alla registrazione previste alle lettere
successive.
Regolamenti esecutivi, direttive interne di organismi nazionali e internazionali,
forniscono definizioni delle differenti categorie di segni suscettibili di registrazione,
sostanzialmente distinguibili in due categorie: marchi ”tradizionali” (marchi
denominativi, figurativi, tridimensionali) e marchi “nuovi” (combinazioni e tonalità
cromatiche, suoni e profumi)
3
. L’elenco è potenzialmente aperto e non è quindi
limitato a quanto riportato dalla norma e questo è già stato dimostrato dall’art. 4
Regolamento 207/2009, per esempio, che nella lista di segni che possono essere
rappresentati graficamente non comprende esplicitamente i colori, i profumi e i suoni
3
G. SENA, Il diritto dei marchi, Giuffré, Milano, 2007, pag. 78; M. RICOLFI, I segni distintivi di
impresa. Marchio, ditta, insegna, in Diritto industriale: proprietà intellettuale e concorrenza,
Giappichelli, Torino, 2005, pag. 74.
Marchi e decettività
11
(diversamente dal nostro art. 7 del Codice che riporta esplicitamente “i suoni” e “le
combinazioni o le tonalità cromatiche”). L’ampliamento delle categorie dei marchi
dipende probabilmente dal maggior valore attribuito alla “percezione del pubblico”,
stimolata nei giorni nostri con molteplici mezzi.
La Corte di Giustizia, da parte sua, definendo una prassi applicata anche
dall’UAMI in sede di amministrativa, ha specificato che possono essere registrati
come marchi segni che, pur non essendo percepibili visivamente, siano suscettibili di
rappresentazione grafica mediante figure, linee o caratteri, e che questa sia chiara,
comprensibile e oggettiva
4
.
La mancanza di rappresentabilità grafica, dunque, rappresenta l’impedimento più
“pesante” tra quelli elencati dalla direttiva all’art. 3 o dal Regolamento all’art. 7, che
va oltre la considerazione di “funzione essenziale” del marchio e prende in esame il
4
Sentenza della Corte di Giustizia CE del 27 ottobre 2003, C – 283/01, Shield Mark BV contro Joost
Kist h.o.d.n. Memex, par. 64.
Si veda anche la sentenza della Corte di Giustizia CE del 6 maggio 2003, C – 104/01, caso
Libertel, noto leading case in materia di marchi di colore, punto 29.
In materia è interessante analizzare le recenti sentenze della Cour d’Appel de Paris del 22 giugno
2011, Zara France S.A. contro Christian Louboutin S.A., e della United States Court, S.D. New
York del 10 agosto 2011, Christian Louboutin S.A. contro Yves Saint Laurent America Inc.
Nell’articolo, A. GRADINI, La tutela del marchio di colore in due recenti decisioni straniere: un
passo indietro?, in Riv. Dir. Ind., 2012, p. 147, l’autrice cerca di chiarire come la Corte francese
abbia eseguito un’analisi completa della situazione. Infatti questa in un primo momento chiarisce
come la figura depositata dalla società Christian Louboutin al momento della registrazione non
fosse affatto “chiara”, “sufficiente” e “precisa”, così come richiesto tassativamente per la
registrazione dei marchi “non tradizionali”, ma chiarisce altresì come, anche se si fosse considerata
la forma in esame effettivamente una suola, tale forma sarebbe imposta dalla natura stessa e dalla
funzione del prodotto e, pertanto, priva di qualsivoglia carattere distintivo.
Simile è la decisione della Corte statunitense, la quale però, pur riconoscendo ai marchi di colore
che hanno acquisito un secondary meaning una stretta capacità distintiva, sottolinea, affermando la
c.d. “dottrina della funzionalità”, che non può essere protetto un elemento funzionale di un
prodotto che influisca sul prezzo e sulla qualità dello stesso.
È da notare che la Commissione di ricorso dell’UAMI, contrariamente a quanto affermato dal
primo esaminatore di una domanda di registrazione del marchio in esame, ha valutato
positivamente la politica attiva di Louboutin contro le contraffazioni.
Attualmente pendono ben quattro opposizioni contro la registrazione in questione.
Marchi e decettività
12
segno in quanto tale, senza avere neppure la possibilità di rientrare nella nozione di
marchio d’impresa.
Sono esclusi, continua la norma della direttiva, “i marchi d’impresa privi di
carattere distintivo”: secondo la legge, quindi, un marchio inidoneo a distinguere
l’origine imprenditoriale del prodotto o servizio non assolve la sua funzione
essenziale e non può quindi ottenere la tutela giuridica che l’istituto della
registrazione concede
5
.
In questa sede ci interessa, ai fini dell’analisi della decettività del segno, far
notare che l’assenza di capacità distintiva rappresenta, escluso il primo impedimento
riportato alla lett. a), il punto cardine dal quale far partire l’analisi sulla tutelabilità o
meno del segno. Si vuole inoltre sottolineare in che termini un marchio costituito
esclusivamente da indicazioni descrittive, o un marchio composto esclusivamente da
segni divenuti di uso comune, o ancora un marchio illecito perché di natura tale da
ingannare il pubblico circa la natura, la qualità o la provenienza geografica del
prodotto o servizio, sia sostanzialmente un marchio inidoneo ad assolvere alla sua
funzione essenziale.
Cos’è la funzione essenziale del marchio d’impresa? Da una formula utilizzata
più volte in diverse forme dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea:
“La funzione essenziale del marchio consiste nel garantire al consumatore o
all'utilizzatore finale l'identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato
dal marchio, consentendo loro di distinguere senza confusione possibile questo
prodotto o questo servizio da quelli di provenienza diversa (...) il marchio deve
costituire la garanzia che tutti i prodotti o i servizi che ne sono contrassegnati sono
5
Articolo 3, comma 1, lett. b) del Codice.
Marchi e decettività
13
stati fabbricati o forniti sotto il controllo di un’unica impresa alla quale possa
attribuirsi la responsabilità della loro qualità”
6
.
In punti:
1. Un marchio deve identificare l’origine dei beni o servizi sui quali è riportato.
2. Nel farlo, deve permettere ai consumatori o fruitori del servizio di distinguere
i beni e i servizi per i quali è utilizzato da quelli di altri imprenditori.
3. Deve farlo senza alcuna possibilità di confusione tra beni e servizi di diversi
imprenditori.
4. Perché tutto questo sia possibile, il titolare del marchio deve essere protetto
contro concorrenti che desiderano trarre un indebito vantaggio dalla reputazione
del marchio altrui.
7
Chiarito ciò che si intende per capacità distintiva e definita questa “funzione
essenziale” del marchio d’impresa, è interessante ai fini della nostra analisi sulla
decettività del marchio vedere come molti degli impedimenti alla registrazione, così
come i motivi di dichiarazione di nullità, siano ad essa riconducibili.
L’articolo 3, n. 1, lett. c), Direttiva 2008/95/CE, statuisce che sono esclusi dalla
registrazione o, se registrati, possono essere dichiarati nulli:
6
Sentenza della Corte di Giustizia del 12 novembre 2002, C – 206/01, Arsenal Football Club plc
contro Matthew Reed, par. 48, raccolta della giurisprudenza 2002 pagina I – 10273. La prima
formulazione è stata data dalla Corte di Giustizia molti anni prima della sentenza citata e delle
normative di armonizzazione con la sentenza Hoffmann-La Roche & Co. AG contro Centrafarm, C
– 102/77, del 23 maggio 1978.
7
I. SIMON, How Does “Essential Function” Doctrine Drive European Trade Mark Law”, in IIC vol.
36, 2005, p. 402. A riguardo, bisogna sottolineare che l’autrice, nella sua analisi, non distingue in
maniera chiara tra tutela della funzione distintiva del marchio in sé, disciplinato come oggetto di
diritto assoluto, prescindendo dalle caratteristiche dei prodotti o servizi che questo
contraddistingue, e tutela del marchio da un rischio di confusione, che la normativa vuole
escludere attraverso l’attribuzione del diritto di esclusiva sul marchio. A proposito si veda
G.SENA, Il diritto dei marchi, cit., 2007, pag. 63.
Marchi e decettività
14
“I marchi di impresa composti esclusivamente da segni o indicazioni che nel
commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la
destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione
del prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o
servizio”
Come segno distintivo, il marchio dovrebbe essere un segno sì connesso al
prodotto e capace di differenziarlo, ma al contempo estraneo a questo e alle sue
qualità: se così non fosse “il marchio non sarebbe più mero segno distintivo, ma
caratteristica (in senso lato) del prodotto”
8
.
A conferma del principio che potremmo definire di “interdipendenza” tra gli
impedimenti di cui all’articolo 3, n. 1, lett. b) e c) della direttiva, e cioè che un
marchio essenzialmente descrittivo è un marchio sostanzialmente privo di capacità
distintiva, possiamo prendere in considerazione due interessanti sentenze della Corte
di Giustizia relative ai marchi Baby-Dry e Doublemint.
Nel caso Baby-Dry
9
, l’Ufficio per l’Armonizzazione del Mercato Interno (UAMI)
respinge la domanda di registrazione del sintagma “Baby-dry” perché composto
esclusivamente da termini che possono servire in commercio per designare la
destinazione del prodotto considerato
10
, sostenendo quindi che il marchio fosse privo
di carattere distintivo e, di conseguenza, non registrabile ai sensi dell’art. 7, n. 1, lett.
b) e c), Regolamento.
8
A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, GIUFFRÈ, MILANO, 2005, pag.
146.
9
Sentenza della Corte di Giustizia del 20 settembre 2001, Procter & Gamble Company contro UAMI,
Caso C – 383/99 P.
10
Si legge nella sentenza al par. 7: “Dato che i pannolini esercitano una funzione assorbente al fine di
tenere il bimbo asciutto, esso ne ha dedotto che il sintagma Baby-dry si limitava a informare il
consumatore della destinazione del prodotto senza comportare un ulteriore elemento atto a
conferirgli un carattere distintivo”.
Marchi e decettività
15
Considerando solo la parte che ci interessa ai fini della trattazione, in questa
sentenza si demarca chiaramente la prassi applicata dalla giurisprudenza nel valutare
la sussistenza o meno dell’impedimento alla registrazione di cui alla lett. c). Si
evidenzia, in primo luogo, come la giurisprudenza assolva il compito di impedire che
l’imprenditore acquisti un diritto monopolistico, potenzialmente senza tempo, sui
segni o sulle indicazioni, quando queste invece potrebbero costituire oggetto di uso
“normale” da parte di terzi. Si nota, in secondo luogo, come sia sempre la stessa
giurisprudenza a dare un peso “reale”, al fine dell’applicazione delle norme, alla
percezione del pubblico rilevante. Si tratteranno in seguito, più approfonditamente,
sia il concetto di “pubblico rilevante” sia il peso che l’appropriazione monopolistica
di un segno può avere ai fini della concorrenza, ma ci interessa subito porre in
evidenza come l’analisi della Corte, in questo caso, nel rilevare la capacità distintiva
di un segno descrittivo o espressivo, non nasca da una semplice consultazione di un
dizionario (se il sintagma si fosse trovato sul dizionario sarebbe stato chiaramente ed
esclusivamente descrittivo) e neppure da una semplice analisi dei due termini “baby”
e “dry”, ma da un’analisi linguistica piuttosto indicativa del suo metodo di
valutazione. La Corte ammette che “anche se ciascuno dei due termini che
compongono l’insieme considerato può far parte di espressioni proprie del
linguaggio comune per designare la funzione di pannolini per bimbi, la loro
giustapposizione, inusuale nella sua struttura, non costituisce un’espressione nota
della lingua inglese per designare tali prodotti o per presentare le loro
caratteristiche essenziali” (par. 43). La c.d. invenzione lessicale, secondo la Corte, è
sufficiente affinché il marchio svolga la sua funzione essenziale e l’inversione
dell’ordine normale dei termini è tale da rendere necessario che esso sia inserito in
una frase più lunga perché acquisisca un senso grammaticale
11
.
11
Resta, da parte di chi scrive, il dubbio sulla completezza dell’analisi linguistica della Corte, la quale
si limita a prendere in considerazione il punto di vista del consumatore di lingua inglese, per il
quale, si legge nella sentenza, il sintagma “baby-dry” è “inusuale”, ma tralascia la percezione del
consumatore non britannico della quale, per la registrazione di un marchio comunitario, si deve
Marchi e decettività
16
La Corte, nel caso Doublemint
12
, ritiene, diversamente, che sebbene l’espressione
possa non comparire nei dizionari, il grado di invenzione lessicale dispiegato nella
sua creazione si limiterebbe all'eliminazione dello spazio tra due vocaboli che
possono ben essere utilizzati congiuntamente in modo descrittivo: mancanza di
inventiva, stretta descrittività del marchio, incapacità a distinguere l’origine
imprenditoriale e quindi, per il segno, di svolgere la sua funzione essenziale.
Riassumendo, l’indicazione descrittiva può essere alterata, combinata ad altre
parole, modificata con prefissi e suffissi, ma perché sia idonea alla registrazione deve
essere creata una distanza minima fra marchi e caratteristiche o funzione dei prodotti,
restando la componente espressiva o descrittiva liberamente appropriabile dagli
imprenditori concorrenti
13
.
È molto importante ai fini della nostra trattazione che il concetto di marchio
descrittivo o espressivo sia chiaro, si fa notare, infatti, che un segno può essere
ingannevole solo nella misura in cui abbia un significato in rapporto ai prodotti o ai
servizi contrassegnati. Ogni qual volta il segno richiami e descrivi caratteristiche,
qualità, origine o anche provenienza del prodotto o servizio si pone, come avremo
ampliamente modo di verificare, un problema di decettività.
Parlando di marchi esclusivamente descrittivi o espressivi e per loro stessa natura
privi di carattere distintivo, non possiamo esimerci dal parlare di “distintività
acquisita” (argomento richiamato anche dalle parti in causa nelle sentenze appena
analizzate). Un’originaria mancanza di capacità distintiva del segno non osta alla sua
valida registrazione come marchio ove, prima della domanda di registrazione o prima
della declaratoria di nullità, a seguito di un intenso uso, il segno abbia acquistato un
ben tener conto: infatti, presupponendo una conoscenza non perfetta della lingua inglese, questi
potrebbe limitarsi alla traduzione letterale delle singole parole non percependo alcun tratto di
originalità nel sintagma, ma una semplice indicazione della finalità del prodotto contrassegnato.
12
Sentenza della Corte del 23 ottobre 2003, UAMI contro Wm. Wringley Jr. Company, causa C –
191/01 P.
13
M. RICOLFI, I segni distintivi, Giappichelli, Torino, 1999, pag. 50.
Marchi e decettività
17
significato diverso da quello c.d. primario
14
, e cioè abbia ottenuto, oltre ed accanto al
suo significato generico, anche uno specifico carattere distintivo di riferimento
all’impresa del titolare. Questo acquisto di capacità distintiva avviene “a seguito
dell’uso” e in tal senso si può considerare una congrua durata di uso esclusivo del
segno in connessione con un singolo bene o servizio, supportato da un’ampia
pubblicità, cosicché l’aggiungersi di un secondo specifico significato insieme a
quello originario si imprima nella percezione del pubblico fino al punto limite di
indurre lo stesso a dimenticare il valore semantico del segno distintivo che continua a
“vivere” unicamente come indicatore della provenienza del prodotto.
Nel caso di un marchio esclusivamente descrittivo “sfuggito” al controllo in fase
di registrazione, avviene una vera e propria “riabilitazione” del marchio, la quale si
sostanzia in una sanatoria di un marchio nullo al momento della registrazione. La
sanatoria del segno non ha però efficacia retroattiva al momento della domanda: la
tutela potrà riconoscersi solo dal momento in cui possa ritenersi compiuto l’acquisto
del significato secondario da parte del segno.
La percezione dei consumatori è qui di nuovo rilevante e questa affermazione di
fatto sul mercato di determinate caratteristiche del segno, questo significato
secondario (secondary meaning) idoneo a dotare di distintività il segno, ritornerà nel
corso della trattazione.
Possiamo qui giungere ad una prima conclusione: il marchio non può essere
esclusivamente (o anche solo “troppo”) descrittivo, altrimenti sarebbe nullo per
carenza di capacità distintiva, e nell’essere descrittivo non deve indurre in errore,
altrimenti sarebbe nullo per quest’altra ragione, a meno che la capacità distintiva non
sia acquisita attraverso l’uso o, come vedremo, l’attività del titolare elimini ogni
rischio di decettività del marchio.
14
Tribunale di Milano, 16 maggio 1969, in Riv. Dir. Ind., 1972, II, pag. 66.