5
spagnola: il cibo come ricorso letterario. Inoltre ha l’intento di 
proporre un’analisi delle correlazioni tra la situazione storico sociale e 
le opere, in questo, scritte.  
Dopo aver esplorato i diversi significati che sono stati 
assegnati al cibo e le funzioni che esso ha avuto, come atto 
comunicativo, a livello personale, conviviale, sociale, la ricerca si 
focalizzerà sull’ambito letterario: una brevissima panoramica del cibo, 
quindi, nella letteratura universale. In linea cronologica, ma allo 
stesso tempo trasversale: il cibo e la cultura, il convivio, il cibo come 
peccato, il cibo ed il basso corporeo-trionfo del materiale, il paese 
della Cuccagna, il cibo ed il romanzo, il cibo come mito, il cibo come 
ossessione, il cibo come indicatore di status, il cibo come presenza 
nella memoria, il cibo come simbolo, il cibo, l’erotismo e la 
seduzione, il cibo ed il romanzo giallo, il cibo come provocazione; allo 
scopo di evidenziare la ricchezza di questo tema. 
Il passo successivo è la storia della gastronomia spagnola, 
ovvero si cercherà di tracciare un percorso del ruolo del cibo nella 
realtà: partendo dalle origini, da quando l’uomo era un essere più 
vicino agli animali, per arrivare ai giorni nostri, attraverso l'analisi di 
quanto e in che modo il cibo è stato presente nella quotidianità. 
Iniziando, quindi, dalla pura e semplice necessità di nutrirsi e 
sopravvivere, seguendo l'evoluzione umana, considerando le 
influenze dei domini stranieri, osservando, nel corso dei secoli, il 
susseguirsi sia di fame e di ricerca disperata di cibo, sia di 
sovrabbondanza e stravizi, esaminando i mutamenti delle abitudini 
alimentari seguiti all’avvento della borghesia o all’influenza della 
cultura francese, per arrivare al benessere attuale, nel quale la  
presenza del cibo è diventata, ormai, quasi scontata e dove ristoranti 
e fast-food riflettono aspetti della società contemporanea.  
 6
S’indagheranno i riflessi di questi mutamenti nelle opere 
letterarie delle relative epoche, cercando di ripercorrere la letteratura 
spagnola in chiave gastronomica. 
Infine, si ritornerà nuovamente a un percorso cronologico, 
dalle origini all’età contemporanea, che vuole offrire una breve 
“degustazione testuale” delle opere spagnole ritenute più espressive 
per quel che riguarda l'area semantica d’interesse, ovvero verranno 
esaminati testi che mettono a fuoco con maggior efficacia e 
persuasività gli usi ed i significati degli alimenti e della tavola, dal 
referenziale al figurativo. A causa delle vaste dimensioni 
dell’argomento, si sono dovuti selezionare drasticamente gli autori e 
le opere da trattare.  
Un’indagine storiografica sistematica, quindi, per poter 
analizzare alcuni momenti e testi salienti, che diano il senso della 
ricchezza, delle diversità e degli sviluppi della tematica cibo. 
Si vuole precisare che i ricettari sono stati volutamente 
tralasciati, trattandosi di semplici istruzioni–guida che meriterebbero 
una trattazione a parte, e sono poco pertinenti alla presente ricerca. 
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Il cibo, oltre ad essere un elemento indispensabile per la 
perpetuazione della specie, acquisisce dei valori che oltrepassano la 
mera funzione fisiologica. Basta pensare all’importanza della 
convivialità, il senso d’ospitalità e d’accoglimento manifestati 
attraverso l’offerta e la condivisione del cibo, tratti che fanno parte 
della nostra storia, ma anche del nostro presente. Il bambino, del 
resto, compie le sue prime esperienze conoscitive ed affettive 
attraverso il contatto orale con il seno della madre, attraverso il 
nutrimento: attraverso il cibo, il bambino entra in contatto per la 
prima volta con il mondo, e la bocca, organo destinato alla 
nutrizione, alla comunicazione verbale ed anche connotato erotico, è 
il primo mezzo per conoscere ed accostarsi ad esso. L’atto del 
mangiare si converte in atto comunicativo e di condivisione del 
mondo. 
L’alimentazione tocca una serie di complessità, dalla religione 
ai rituali, dalla psicologia individuale e collettiva alla tradizione, dalla 
sopravvivenza dei comportamenti atavici dei cacciatori agli 
adattamenti all’ambiente ed alle contingenze, alle tecniche, alle 
pratiche materiali di dominio dell’ambiente, in un processo crescente 
che ha portato la scimmia eretta che si alimentava con la raccolta 
 8
spontanea di bacche e per cui il nutrirsi era affare individuale, a 
diventare, con l'uso della caccia, anche carnivora. 
Il mangiare è divenuto così un elemento essenziale 
dell’organizzazione e dell’identità sociale, rispecchiando particolari 
gerarchie simboliche e culturali. 
Uno dei grandi criteri della vita quotidiana è riassunto dalla 
frase: “Dimmi ciò che mangi e ti dirò chi sei”. Un proverbio tedesco 
lo dice a modo suo: “L’uomo è ciò che mangia”. Il significato è 
comunque il medesimo: il cibo consumato è sempre stato per l’uomo 
un simbolo del suo rango sociale, della civiltà e della cultura di cui fa 
parte. 
Non esiste momento della vita individuale e sociale dell’uomo 
che non sia correlato con il cibo. La vita quotidiana è scandita da 
tempi e luoghi destinati all’atto del mangiare. Qualsiasi itinerario, sia 
esso lungo un percorso cittadino o extra-cittadino, sia personale o tra 
amici offre occasioni di tempi e spazi per il cibo e per le bevande. 
Lungo i percorsi sociali, nelle circostanze della vita relazionale, 
il piacere di un buon cibo e di una buona bevanda diviene una 
necessità che si aggiunge alla necessità precisa di sostentamento, 
quasi a sanzionare quei momenti sociali conferendo rilassamento e 
sollievo. Queste modalità si inseriscono nella vita di relazione degli 
individui fino a diventare dei veri e propri codici che ne esprimono lo 
stato sociale. 
Esiste un uso non alimentare del cibo, un uso sociale e 
culturale: in una parola, simbolico. Il cibo non è solo ciò che è buono 
da mangiare, ma ciò che è anche buono da pensare, da immaginare, 
e da sognare. Può essere un’arma formidabile per intessere delle  
relazioni sociali, e per svilupparle. Il cibo in quanto prodotto 
culturale, è espressione di una civiltà, e la funzione simbolica del cibo 
non comincia dai prodotti grezzi offerti dall’habitat naturale, ma dalla 
loro trasformazione in alimenti. In questo senso il cibo è un simbolo 
 9
dell’umanità; l’uomo non consuma immediatamente ciò che la natura 
gli offre, ma trasforma in cibo, con il lavoro, ciò che la natura gli dà, 
rendendolo idoneo al suo organismo e ai suoi fini. Per questo 
possiamo richiamare nuovamente il proverbio tedesco ”L’uomo è ciò 
che mangia”. 
Le trasformazioni culinarie, quindi, possono accompagnare e 
riflettere il passaggio dalla Natura-il crudo alla Cultura-il cotto, come 
dimostra il grande antropologo Lévi-Strauss, nel suo famoso studio 
sulla mitologia sudamericana Il crudo e il cotto: la cucina è concepita 
come mediazione tra la naturalezza e la socializzazione.  
Il cibo diviene spesso un criterio di identità etnica, un segno di 
continuità tra passato e presente, una specie di radicamento 
all’interno di una società che rimane forte nonostante essa abbia 
disperso i suoi legami con la tradizione ed il passato.  
Le pratiche alimentari producono identità, ma anche diversità 
e separazione: mangiare il cibo di un altro gruppo significa quasi 
assimilarsi ad esso, come se, attraverso il cibo, si trasmettessero 
abitudini, idee, sentimenti. 
Il cibo consente di tenere in piedi la propria identità etnica, di 
avere una radice, un territorio, di ritrovare i valori di cui ci si è nutriti 
fin dall’infanzia. 
 
Dunque la comida penetra dagli occhi, si gusta con la bocca, si 
annusa con il naso e si sente con le orecchie quando se ne parla. 
Anche il tatto possiede la sua importanza e pertanto il fatto di 
mangiare si converte in qualcosa che impressiona i cinque sensi e 
che forma parte della cultura come manifestazione artistica di 
massima importanza. 
Secondo un’interpretazione dell’UNESCO, per determinare il 
livello culturale di un paese arretrato si utilizzano fondamentalmente 
tre criteri o fattori: la musica, la cucina e la ceramica.  
 10
In un primo stadio dello sviluppo culturale, i popoli si 
esprimono attraverso manifestazioni che non richiedono la 
conoscenza di nessuna lingua, cioè sono pure espressioni della 
capacità creativa, tra cui la cucina, come arte di trasformare le 
risorse che offre la natura in piatti che riescono a produrre anche una 
soddisfazione estetica evidente. 
 
 
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Tante sono le strade che partono dal bisogno semplice, 
indispensabile, elementare del nutrirsi: l’alimentazione come 
segnalatore di problemi sociali, economici e politici, un particolare 
cibo come simbolo di un intero popolo, le idee sulle combinazioni 
alimentari ottimali, il cibo e l’arte figurativa. 
Tracciare una mappa che definisca il territorio dove il cibo e la 
letteratura si incontrano risulta impossibile; la letteratura si è riferita 
alla comida forse da quando la scrittura è iniziata come attività 
umana. Quasi da subito non si tratta solo di enumerare e trasmettere 
le conoscenze sugli alimenti: il cibo è anche fonte di piacere e 
pertanto gli autori s’interessano a trasmettere le loro impressioni su 
questo piacere e sui modi di ottenerlo. 
Gli autori mangiano e parlano di questo, ma sono soprattutto i 
personaggi da loro creati che mangiano. Come Sancho Panza e il 
Quijote o Gargantua e Pantagruel che dedicano la loro vita al cibo e 
da qui estraggono le loro riflessioni. Talvolta la comida si converte in 
paesaggio, in caratteristica di uno o dell’altro, in obiettivo o in filo 
conduttore di una trama. Se è vero che è impossibile comprendere la 
letteratura senza riferirsi all’amore-sesso o al potere-denaro, i due 
grandi motori letterari degli ultimi due secoli almeno, è anche vero 
 11
che il cibo è intimamente in relazione con questi o con la somma di 
questi: la famiglia e, per estensione, il sociale. 
Diceva Elsa Morante: ”La frase d’amore più vera, l’unica è:- 
Hai mangiato?”. 
È anche poi il caso di riflettere sul fatto che alcuni referenti 
culinari - le materie prime della cucina, i riti, i gesti - sono segni reali 
e culturali che si trasformano in segni verbali nei vari trattati di 
gastronomia e d’igiene alimentare che dall’antichità fino ad oggi 
hanno accompagnato e poi dato ordine scientifico alle esperienze e 
alle scoperte umane nell’ambito nutritivo. 
Già nell’antichità, alcuni generi letterari si definiscono con 
vocaboli usciti dalle cucine, ancora nelle mani dei cuochi più che in 
quelle, forse solo apparentemente più raffinate, dei commensali che 
attendono avidi e affamati a tavola: dalla satira, che si richiama a un 
piatto formato da diversi elementi, una specie di piatto misto di oggi, 
alla farsa, che è un “ripieno” che farcisce il tempo, come interludio 
comico, tra due momenti di un’azione scenica seria. Cuochi e 
letterati, dunque, sono abili manipolatori, artefici di metamorfosi “dal 
crudo al cotto”, sapienti mescolatori di sostanze e di sapori da offrire 
a onnivori lettori. 
 
 
 
 
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Il cibo ricorre in tutta la storia letteraria, assumendo 
importanti valori sociali e psicologici. 
 
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L’alleanza tra gastronomia e cultura si manifesta anche nei 
libri di ricette, forma letteraria più modesta, che hanno a che vedere 
con la chimica, mentre i libri di gastronomia con la grande 
letteratura: sono state scritte pagine grandi, magnifiche e sontuose  
sull’arte di cucinare e sull’arte di mangiare.  
La ricetta è l’equivalente del racconto nella narrativa e del 
poema in poesia. Le ricette sono appassionanti perché possiedono la 
capacità di trasmettere un patrimonio orale. 
A questo proposito vanno menzionati due testi che sotto 
forma di trattati culinari, trasmettono osservazioni sui costumi 
dell’epoca, aneddoti e proverbi, costituendo, allo stesso tempo, un 
prezioso laccio tra gastronomia e letteratura: La scienza in cucina e 
l’arte di mangiar bene dell’italiano Pellegrino Artusi (1891) e la 
Physiologie du goût  del francese Jean Antheme Brillat–Savarin 
(1825). 
Artusi, amabile letterato di Forlimpopoli, inventore, 
volgarizzatore e divulgatore dei segreti della grande arte, con La 
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, produce un’opera 
indispensabile per capire alcuni tratti e sviluppi non solo 
gastronomici, ma anche storici, politici e culturali dell’Italia 
ottocentesca. È il libro di cucina che segna la definitiva affermazione 
dei nuovi costumi della borghesia a scapito dei ceti popolari 
attraverso un accostamento tra scienza e arte, tra positivismo ed 
 13
estetismo fin de siècle, con l’apporto linguistico di una nomenclatura 
culinaria nazionale e di uno stile semplice e chiaro. Manuale gremito 
di aneddoti, facezie, bozzetti, considerazioni stravaganti, storielle e 
amenità varie farcite da ricette. Nell’introduzione, a cura di Piero 
Camporesi, lo stesso afferma che Artusi ”svolse anche, in modo 
discreto, sotterraneo, impalpabile, il civilissimo compito di unire ed 
amalgamare, in cucina prima e poi, a livello d’inconscio collettivo, 
nelle piaghe insondate della coscienza popolare, l’eterogenea 
accozzaglia delle genti che solo formalmente si dichiaravano 
italiane”.
1
 Un accorto dosaggio, quindi, delle diverse cucine regionali, 
dà all’Italia un unico codice alimentare, e riesce a creare un codice 
d’identificazione nazionale.  
 
Brillat–Savarin, invece, si serve della tavola come pretesto per 
illustrare figure e caratteri della società da lui frequentata. 
La cucina e la tavola sono complementari nell’esercitare la 
funzione di soddisfazione umana che, se esagerata, raggiunge i limiti 
del dannoso, e invece, nelle giuste proporzioni, dà godimento. 
L’attenzione dell’uomo verso tali soddisfazioni ha portato 
all’esposizione letteraria, non solo mediante l’elogio della cucina e dei 
piatti, ma anche attraverso la narrazione di scene ed episodi in cui la 
cucina e la tavola fanno da scenario imprescindibile, quando non 
giungono ad essere le protagoniste. 
Il maestro della cucina francese traccia la sottile separazione 
tra i due tipi di piacere dicendo: “Il piacere di mangiare presuppone 
la sola fame e il necessario per soddisfarla, mentre il piacere della 
tavola presuppone altre mille attenzioni che precedono e 
accompagnano il cibo, incluse la preparazione del luogo e la scelta 
dei commensali. Con parole fisiologiche si potrebbe dire che la cucina 
                                                 
1
 Op.cit. in BIASIN,1991, pag.14 
 14
si riferisce al modo grato di soddisfare la fame, e, la tavola, ai modi 
squisiti di eccitare e soddisfare l’appetito”.
2
 
 Il libro, un trattato sul mangiare bene, è ricordato da molti 
come la bibbia della gastronomia; quello che è certo è che è il primo 
testo gastronomico scritto al mondo, dato che, prima di questo, i libri 
esistenti, cominciando dal romano Apicio, erano solamente dei 
ricettari. Savarin inaugura la letteratura gastronomica. Il testo tratta 
le relazioni tra la gioia dell’uomo, la sopravvivenza, il dominio della 
terra e la sua abilità di conoscere e provare i piaceri dati dal gusto. 
Due sono i fini di tutte le azioni umane: la preservazione 
dell’individuo e la continuità della specie. Per raggiungere questi 
scopi, l’uomo è dotato di sensazioni attuali e dirette per soddisfare il 
suo bisogno di mangiare; inoltre è  dotato di una ponderata, abituale 
ed appassionata preferenza per qualsiasi cosa soddisfi il gusto. E 
Savarin conclude dicendo che la gastronomia regola la vita umana in 
ogni suo aspetto. La sua sostanza è tutto ciò che può essere 
mangiato, il suo fine la conservazione degli individui, e i suoi mezzi la 
cultura che produce, il commercio che porta allo scambio, l’industria 
che prepara e l’esperienza che aiuta a trovare sempre il miglior 
vantaggio nelle cose.  
È stato detto che l’autore ha convertito l’arte culinaria in 
un’autentica scienza, ricorrendo alla chimica, alla fisica e 
all’anatomia. Molti dei suoi aforismi sono diventati dei veri e propri 
luoghi comuni: ”Il piacere della tavola è proprio di qualsiasi età, 
classe, nazione o epoca; si può combinare con tutti gli altri piaceri ed 
esiste fino all’ultima ora per consolarci dalla perdita degli altri”
3
, fino 
al classico ”Dimmi ciò che mangi e ti dirò chi sei”
4
. 
 
                                                 
2
 Op.cit. in Recopilación de GARCÍA MERCADAL, 1962, introduzione 
3
 www.aei.org 
4
 Ibidem 
 
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Il cibo è fondamentale anche in tutta la tradizione del convito 
o del banchetto: già ai suoi albori, segnati dal Simposio di Platone, 
viene imitata presto dal poeta latino Petronio nel Satyricon. Ma il 
convivio è importante anche nel Decamerone di Boccaccio, dove lo 
stesso funge da momento sociale ma anche da ambientazione per 
molti dei brevi racconti.  
In seguito, nell’ambito delle letterature romanze, il convito 
diviene uno degli elementi base nella descrizione della vita altamente 
cerimoniale ed avventurosa della società feudale, assieme ai tornei, 
alla caccia ed alle partenze per la guerra. 
Gli autori pre-boccacciani presentano l’immagine del convito 
nella duplice interpretazione realistica e metaforica. Nel complesso 
mondo dantesco, l’immagine è assunta a importantissima metafora: 
è il Convivio, simbolica ”mensa dove lo pan de li angeli si manduca”, 
opera che il poeta fiorentino destina a promuovere la propria 
immagine come sapiente.  
Il Boccaccio, invece, sfrutta la tematica in chiave realistica e 
metaforica allo stesso tempo, fondendo l'occasione reale dell’incontro 
conviviale con la celebrazione delle virtù. L’immagine del convito è 
impiegata con crescente rilievo e frequenza nell’arco della produzione 
letteraria del Boccaccio. Nel Decamerone  appare come elemento 
vitale ed unificatore delle novelle. E se la comida fa da sfondo 
pittoresco alle delizie del paese di Bengodi, dove chi più dorme più 
guadagna e viene dipinta una montagna di formaggio grattugiato dal 
quale rotolano giù maccheroni e ravioli, nella novella che vede 
protagonisti Chichibio e la Gru, il convito con gli ospiti forestieri a 
casa di Currado Gianfigliazzi è la scena dove comincia il conflitto tra i 
due personaggi principali, proprio quando Currado 
”meravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse 
 16
divenuta l’altra coscia della gru…Currado per amore de’ forestieri che 
seco avea non volle dietro alle parole andare”.
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Il ruolo del cibo è gia fondamentale nell’Antico Testamento 
quando si parla della caduta di Adamo ed Eva; la teologa Clara 
Spada, in una rilettura profana della Bibbia, ha osservato che nel 
Paradiso ci sono soltanto cibi crudi, naturali e che paradossalmente 
la gastronomia sarebbe una conseguenza della punizione divina. 
Quello a cui porta il frutto prioibito, la mela, è l’associazione tra cibo 
e peccato, tra cibo e gola. Nella cultura medievale il concetto è 
predominante, soprattutto riferito a particolari cibi, quali la carne o il 
vino, che vengono considerati stimolanti degli appetiti sessuali. La 
gola, strettamente connessa alla lussuria, viene considerata un vizio 
che porta alla decadenza dello spirito.  
La cultura cattolica, ossessionata dal peccato e dalla carne 
presenta la tavola come luogo di distruzione. Da qui la celebrazione 
del digiuno, inteso come atto di purificazione sia fisica che mentale. 
Ma la relazione tra i piaceri della tavola ed il peccato si ritrova 
anche nella letteratura contemporanea. In Il pranzo di Babette di 
Karen Blixen, i membri di una comunità religiosa danese, che predica 
un’assoluta ortodossia della frugalità, di fronte ad uno straordinario 
pranzo non riescono più a fare distinzione tra gli appetiti del corpo e 
quelli dell’anima, finendo per trovare l'armonia interiore con gli altri 
proprio lasciandosi elevare dal gusto sopraffino di ciò che hanno 
mangiato. Sono le persone che si arrendono all’amore per il cibo, 
ovvero all’amore per la vita, e per il divino che l'ha creata. Lo spirito 
e la carne possono condividere la stessa mensa, gli opposti si 
                                                 
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 www.unizh.ch 
 17
attraggono: ”Misericordia e verità si sono incontrate, amici miei. 
Rettitudine e felicità debbono baciarsi”. E cucinare è una sublime 
forma d’arte, un dono per gli altri che può redimere il cuoco dai suoi 
peccati. 
 
 
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Il cibo è poi naturalmente al centro della contrapposizione tra 
penuria ed eccesso. Anche senza prendere in considerazione le 
manifestazioni patologiche dell’anoressia - specialmente religiosa - e 
della bulimia - che invece non sembra aver avuto particolare fortuna 
come argomento letterario, mentre il cinema ne ha sancito un amaro 
trionfo con La grande bouffe -, questa contrapposizione costituisce 
un prezioso materiale narrativo; infatti sia la fame che la crapula 
producono insoddisfazione e l’insoddisfazione produce movimento, 
attività, e quindi storia, racconto: si pensi ai tumulti del pane nella 
Milano dei Promessi Sposi o, per esempio, alla fastosa cena dello 
schiavo arricchito Trimalcione nel Satyricon che rappresenta, nel suo 
eccesso e nella sua volgarità, l’arroganza dei nuovi ricchi; oppure ad 
un libro tutto giocato su questa contrapposizione, come può essere il 
Lazarillo che, implicando il rapporto tra denaro e cibo e tra povertà e 
digiuno, riflette la realtà potenzialmente tragica del mondo dei picari.  
Da un altro punto di vista, l’eccesso di cibo, così come i 
riferimenti al sesso e a tutto ciò che è corporeo, può rappresentare la 
cultura non ufficiale medievale, l’abolizione provvisoria di tutti i 
rapporti gerarchici, privilegi e regole che dominano con il regime 
ecclesiastico, come nel caso di Gargantoi et Pantagruele di François 
Rabelais (1532-64) o come nel caso delle rappresentazioni del 
Carnevale nell’età media, per esempio il Libro del buen amor 
dell’Arcipreste de Hita. Si tratta di celebrare l'affermazione liberatoria 
 18
del basso, del corporeo, del materiale, della festa, del banchetto, 
dell’allegria, del gioioso, del benefico, del popolare, l’avvicinamento 
alla terra e l’allontanamento dall’idealismo astratto della cultura 
ufficiale, dell’ordine costituito, dalla paura dell’aldilà e della morte, 
dalla paura del potere, da ciò che opprime e limita.  
L’atmosfera di due canti all’insegna dello humor culinario della 
Divina Commedia riprende il simulacro dell’insaziata ingordigia 
corporale per descrivere l’inferno–cucina e coloro che vi dimorano 
con parole come ”i cuoci” e ”lor vassalli”, ”caldaia”, ”la carne”, i ”lessi 
bollenti” e i ”cotti”. Dante si rifà all idea della cucina–mattatoio, sede 
in cui le carni vengono sottoposte a squartamenti di ogni genere. Lo 
stesso Lucifero dantesco, mostro trifauce, è una figura di un gigante 
divoratore, mostro simbolo del rapporto alimentazione–digestione. La 
sua bocca mostruosa, enorme tritacorpi, macina, inghiotte, assorbe e 
digerisce le carni ridotte a poltiglia, ma, dopo averle divorate e 
assimilate, le erutta fuori. È una visione completamente disciolta 
nell’elemento corporale in cui la carnalità e la fisicità dominano con 
forza assoluta: dall’interazione tra divoratore e divorato, 
consumatore e consumato emerge un rapporto di filiazione–
procreazione che diventa una sorta di corto-circuito, sicchè il 
mangiatore ed il mangiato si alimentano tra loro: è una gigantesca 
allegoria del processo di ritorno del nuovo al vecchio e della nascita 
del nuovo dal vecchio, tipica dell’Umanesimo. 
Nell’arco del XVII secolo il mito della Cuccagna tramonta e la 
sua carica liberatoria si affievolisce. La Cuccagna, che solo in parte è 
stato un mito d’evasione per compensare le frustrazioni di un sistema 
economico e sociale regolato dai privilegi dei padroni, diventa una 
pratica vuota e malinconica, un rifugio che stordisce sempre meno 
chi si nasconde per scampare agli affanni della vita. Il banchetto 
collettivo popolare, festoso rito comunitario della tavolata aperta a 
tutti, cede il passo alla progressiva “privatizzazione” del gusto e del