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INCIPIT
L’orecchio tagliato e riattaccato
Io non ho nessuna religione, non sono
un fanatico, ma la mia religione per
quanto riguarda il mio mestiere è que-
sta: quello che si vede e che si sente so-
no inseparabili.
Jean Renoir
PerchØ partire da una frase di Jean Renoir in una tesi con argomento il
sonoro nei film di David Lynch? Semplicemente perchØ questa sintetizza
l’altro lato della tecnica costruttiva cinematografica, propria di molti regi-
sti moderni. Ovvero, una perfetta sincronizzazione audiovisiva, che abbina
l’immagine ad un determinato suono reale o comunque realistico. Se un
aereo plana vicinissimo sopra la testa di un personaggio il rumore sarà as-
sordante e, in molti prodotti mainstream, sarà assolutamente paragonabile
al suo reale nella vita quotidiana. La concezione del suono in Lynch si
congiunge a quella linea di pensiero che vuole il sonoro come pilastro por-
tante l’intera struttura filmica. Emerge un secondo manifesto quasi ejzen-
stejniano, dove l’asincronismo viene sostituito dall’uso liberamente arbi-
trario di una massa sonora, in grado di camuffarsi sotto le mentite spoglie
di uno squillo di telefono, troppo acuto per essere veritiero, o persino di
essere annullato totalmente dentro uno scenario notturno, che dovrebbe es-
sere giustamente pieno di richiami ambientali, siano essi cittadini o natura-
li. Dunque la frase di Jean Renoir cede sotto i colpi imperterriti del fare ar-
te non conforme, sollecitando un’altra visione delle cose: dove quello che
si vede e che si sente sono separabili e vivono di vita propria.
Dopo questa breve premessa non sarà difficile capire il perchØ di un
orecchio tagliato in Velluto blu (Blue Velvet, 1986), o del sordo Gordon
Cole ne I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks, 1990-1991) o in Fuoco
cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk with Me, 1992), o il finto tonto
in Inland Empire: L’impero della mente (Inland Empire, 2006). Ancora
piø facile se pensiamo che il sordo o il tonto vengono impersonati dallo
stesso regista. La chiave di lettura è da cercare nell’abolizione di un ap-
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proccio classico del fare cinema sonoro, con la conseguente possibilità di
essere liberi di modellare il contenuto, frammentandolo o esasperandolo.
L’orecchio in Velluto blu è quello del pubblico, che viene invitato a sepa-
rare l’udito dalla vista, utilizzando i due sensi separatamente. Il condotto
uditivo fa scorrere il suono dentro la testa, dove il semplice rumore diven-
ta immagine e dove la sua forma può veicolare un contenuto differente da
quello della sequenza visionata.
L’orecchio tagliato è un mondo a parte, al suo interno troviamo fanta-
smi, sono quelli mentali del regista. La sua creatività trasforma questi fan-
tasmi in suoni. Sarà proprio per questo motivo che il sintetizzatore in fase
di missaggio è utilizzato per creare suoni continui trattenuti sul confine del
sento e non sento? O è un modo di esasperare le capacità demiurgiche del
regista, conscio di una libertà non conforme alla grande industria hol-
lywoodiana? Se l’ultima domanda dovesse risultare affermativa, Lynch
potrebbe essere accomunato a chi ha tagliato un altro orecchio senza gua-
dagnarci un Oscar, Quentin Tarantino nel suo Le iene (Reservoir Dogs,
1992) ad esempio.
L’orecchio viene posizionato all’angolo della sala cinematografica,
lontano dal suo proprietario. Vive di vita propria perchØ è l’unico modo
per poter sentire senza le convenzioni sociali, che richiedono un modo di
fare cinema stantio, dove ogni rumore lega il suo manifestarsi alla visione
di un oggetto. Lo spettatore è invitato a separarsi momentaneamente dal
suo organo sensoriale, lasciandolo avvolgere da un gioco audiovisivo, do-
ve ogni cosa non è come sembra o meglio, non è come suona.
Il senso del luogo è un fattore fondamentale in ambito cinematogra-
fico, perchØ quando guardi un film vuoi entrare in un altro mondo. Ogni
storia ha il proprio mondo, la propria atmosfera, il proprio stato
d’animo. […] Dipende tantissimo dalle luci e dai suoni. I suoni che en-
trano in una stanza possono aiutare a dipingervi un mondo intero e ren-
derlo piø particolareggiato.
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Lontano da quel mondo c’è la normalità della vita, dove ogni cosa
corrisponde al suo essere. Dunque l’importanza dell’orecchio è tale che
solamente tramite l’esclusione della vista è possibile captare rumori e suo-
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D. Lynch, In acque profonde. Meditazione e creatività, tr. it. Mondadori, Milano 2010
(2006), p. 129.
3
ni timbrici particolari. Il sibilo, le grida, la perfetta quanto assurda destrez-
za recitativa di Dennis Hopper nel personaggio di Frank Booth in Velluto
blu, piena di parole smorzate e di frasi dette serrando le mascelle, soltanto
tramite un mondo interiore formatosi dando piena vita all’udito, possono
essere recepiti come miracolo d’ingegno.
Diverso è il contesto prettamente musicale, qui i sensi della vista e
dell’udito vengono riconnessi, perchØ la musica in Lynch non deve estra-
niare lo spettatore, ma deve assorbirlo all’interno dell’immagine:
La musica deve sposarsi con il film e valorizzarlo. Non puoi sempli-
cemente tirar fuori un pezzo e pensare che possa funzionare, anche se si
tratta di una delle tue canzoni preferite in assoluto. PerchØ potrebbe non
aver nulla a che fare con la scena. Quando musica e immagini si sposa-
no, riesci a sentirlo. Il film si riempie di vita, ed ecco che il risultato può
essere “superiore alla somma delle parti”.
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Dunque perchØ la musica in certe sequenze filmiche lynchiane non
riesce a essere collante tra pensiero e visione del pubblico? Il perchØ è da
cercare nella grande capacità del regista nel creare un groviglio di suoni
piø o meno familiari, che sembrano accompagnare l’immagine alla perfe-
zione, anche quando il loro utilizzo sembra straniare il contenuto ritmico o
testuale (Rebecca Del Rio in Mulholland Drive (2001) dà vita ad una can-
zone struggente, circondata da un’atmosfera falsa e irreale). Ma è nuova-
mente l’orecchio che, se non tiene conto del fittizio scenografico tramite il
supporto visivo, riesce a cogliere le sfumature timbriche della voce, la so-
avità delle parole pronunciate, il riverbero ambientale, gli acuti o la sdol-
cinatezza della canzone Sixteen Reasons di Connie Stevens, interpretata
nuovamente in playback dentro un teatro di posa pieno di gente indaffara-
ta.
Due pianeti (quello visivo e quello auditivo) di uno stesso universo
possono interagire, dando una visione completa della sfera filmica; posso-
no convivere forzatamente, prendendo il sopravvento uno sull’altro.
L’indipendenza dell’orecchio viene sempre in primo luogo, anche
quando Lynch ha dovuto fornire le proprie capacità registiche alle grandi
distribuzioni cinematografiche, o al palinsesto televisivo con serie piø o
2
Ibid., p. 51.
4
meno fortunate. Lo spettatore medio osserva e ascolta contemporaneamen-
te. Ma cosa succede quando chiude gli occhi isolando un solo organo di
senso? Si rende conto di come un episodio, all’apparenza monotono come
Blackout (1993), possa essere un mondo di onde sonore, un continuum
sensoriale interrotto da parole, rumori o tuoni improvvisi. Riaperti gli oc-
chi, non resta che una normale sequenza d’immagini lontane dai comuni
canoni. ¨ dunque una sospensione momentanea della funzione visiva.
L’effetto acustico è paragonabile a molta ambient music. Ma le parole dei
personaggi stabiliscono un contatto conscio con la proiezione filmica.
Esempi a confronto
Cosa diversifica il contesto sonoro di Lynch da quello di altri registi a
lui contemporanei? Lynch ha la capacità di creare un sonoro sempre pre-
sente, ma che emerge in certe circostanze precise. ¨ un sottosuolo sonoro,
poche volte musicale, confinato al ruolo d’atmosfera in certi passaggi, ma
pronto a mettersi in evidenza qualora venga richiesto.
Ciò che diversifica un b-movie come La casa dei 1000 corpi (House
of 1000 Corpes, 2003) di Rob Zombie da Inland Empire è la grande af-
fluenza musicale del primo. Mentre il film di Lynch ha un sonoro quasi
onnipresente, affidando però la sua costruzione a un utilizzo perfetto del
missaggio, con lampi acuti o estranei alla situazione, e quindi fa affida-
mento a un regista ormai tecnico del suono, perfettamente in grado di cre-
are una linea audio, che richiede una certa perizia tecnica o comunque par-
ticolate attenzione per accorgersene, il film di Zombie assegna un ruolo da
protagonista al sonoro, caratterizzato da urla lancinanti, risate terrificanti e
tantissima musica metal, che si mette in primo piano per tutta la durata del
film e risulta difficile non accorgersi della sua presenza. ¨ una forma di
protagonismo musicale non-narrativo, che Vincenzo Ramaglia chiama lu-
dico.
3
Zombie mette a disposizione una carrellata d’immagini d’exploitation
in bianco e nero, ritagli di giornale di cronaca nera, istantanee di corpi de-
3
V. Ramaglia, Il suono e l’immagine. Musica, voce, rumore e silenzio nel film, Dino Au-
dino, Roma 2011, p. 80.
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formati e varie sequenze cruente girate con una digitale nella propria casa
adibita a teatro di posa. La musica fluisce non tenendo conto del miscuglio
visivo. Alcune parole vengono surclassate dai colpi di batteria o dal riff di
chitarra elettronica. Immagini e suoni danno vita a una danza audiovisiva
priva di una meta narrativa a cui approdare.
¨ anche un discorso di stereofonia e del suo diverso utilizzo. Come
giustamente analizza Paola Valentini.
[la stereofonia] diviene una delle grandi sfide del cinema contem-
poraneo teso innanzitutto […] a dipingere dei grandi affreschi sonori,
dei paesaggi sonori per citare uno degli epiteti piø frequenti, che come e
forse piø delle atmosfere delle immagini catturino e imbriglino la memo-
ria dello spettatore.
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Se i flussi sonori vengono interlacciati tramite missaggio, creando un
contesto ambientale (pieno di rombi di tuono o cicale) e musicale perfet-
tamente amalgamati in Una storia vera (The Straight Story, 1999), il film
di Zombie proietta il suo flusso narrativo verso contesti che annullano
quasi la spazialità stereofonica, creando uno spessore solidissimo di musi-
ca che copre i suoni ambientali, dando vita all’effetto videoclip (inoltre
Zombie utilizza lo split screen, tipico di molti video musicali).
Il palinsesto di Mtv è pieno di videoclip dove le immagini sono di-
sarmonizzate dalla componente musicale. In un altro film di Zombie, La
casa del diavolo (The Devil’s Rejects, 2005), è la sequenza finale a essere
presa come grande esempio di contrasto video-audio. I tre criminali si ap-
prestano a scagliarsi contro un posto di blocco con la loro auto. Capiscono
d’essere ormai spacciati. Comincia una musica hard rock, mentre si sus-
seguono immagini al ralenti che alternano sequenze diegetiche, piene di
colpi di fucile che vanno a segno, a ricordi spensierati, dove i tre perso-
naggi ridono e scherzano. La canzone Free Bird della band americana
Lynyrd Skynyrd che, per la sua carica di libertà già dal titolo, risulta esse-
re in accordo con le immagini dei ricordi, diverge, invece, con quelle della
sparatoria. Ma se questa sequenza viene analizzata da un punto di vista in-
tellettuale, può essere la negazione visiva delle parole della canzone: gli
4
P. Valentini, Il suono nel cinema. Storia, teoria e tecniche, Marsilio, Venezia 2006, p.
103.
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uccelli-uomini che volevano volare liberi sono stati abbattuti. Tuttavia, la
sequenza interamente avvolta da questa musica sembra dissolvere lo stato
di tensione generatosi all’inizio.
Lo stesso Cuore selvaggio (Wild at Heart, 1990) di Lynch venne ac-
cusato di stile da videoclip,
[…] a causa dell’impiego di immagini molto marcate in quanto tali,
immagini che si possono prendere isolatamente, come delle fotografie;
dei contrasti forti tra una scena e l’altra; dello stile di montaggio insito e
brusco, e infine del ritorno periodico di brevi visioni mentali (o piuttosto
di blocchi suono-immagine) che scompaiono alla stessa velocità con cui
sono apparse.
5
¨ un concetto che oggi risulta alquanto caduco, se si pensa come una
struttura sonora venga trasportata da un videoclip musicale a un contesto
diegetico in film contemporanei. La casa dei 1000 corpi non accontenta il
pubblico con sequenze musicali sporadiche, come appunto i film di Lynch
fanno, ma tartassa lo spettatore con un continuo di batteria, bassi, chitarre
o persino con la versione in playback (anche questo molto apprezzato da
Lynch) di I Wanna be Loved by You cantata da Helen Kane. Comunque
sia, citando Laurent Jullier:
[…] giungiamo ad avere l’impressione che sonoro e immagini si ac-
cordino meravigliosamente bene, e che sarebbe fuori discussione imma-
ginare queste ultime associate ad altri suoni e viceversa – tale “corri-
spondenza” perfetta, cara ai romantici, si definisce effetto sinestetico
[…].
6
La definizione piø consona per etichettare l’utilizzo del sonoro nei
film di Lynch è ancora prestata da Jullier, ed è quella di effetto circo: co-
me l’orchestra di un circo, “il cui direttore tiene sempre d’occhio la pista
[…]”
7
, viene ripetuto un motivo musicale che funge d’attesa all’azione
dell’acrobata, e “se l’acrobata fallisce, viene immediatamente eseguito un
tema di transizione finchØ questi non riprende l’esercizio”. Nel cinema ciò
5
M. Chion, David Lynch, tr. it. Lindau, Torino 2000 (1992), p. 176.
6
L. Jullier, Il suono nel cinema. Storia, regole, mestieri, tr. it. Lindau, Torino 2007
(2006), p. 59.
7
Ibid.
7
si traduce con stacchi visivi che “interrompono la continuità di un oggetto
sonoro (frase, parola, melodia, rumore regolare…)”
8
.
¨ pur vero che non tutti i film di Lynch sono ascrivibili dentro una
dimensione sfuggevole del cinema commerciale. Un regista impiegato an-
che in ambito televisivo deve necessariamente confrontarsi con un pubbli-
co molto esteso e non confinato alla sala cinematografica. Per questo mo-
tivo l’etichetta di film sonoro narrativo può essere incollata sopra un ma-
teriale audio e video perfettamente consoni alla grande mole di prodotti di
facili consumi e con i quali lo spettatore medio fa maggiormente i conti.
Così chiarito, il legame Lynch-Zombie può essere ripristinato in virtø di
alcuni meccanismi immancabilmente presenti nei loro prodotti cinemato-
grafici. Dunque, è vero che Zombie ne La casa dei 1000 corpi crea un e-
norme video musicale splatter, pieno di scurrilità e forme di violenza gra-
tuita, dove la musica è costantemente presente; ma è altrettanto vero che
esistono sprazzi di puro cinema commerciale, perfettamente chiaro nel suo
mettere in evidenza un ambiente famigliare corrotto, dove ogni azione del
personaggio collima col giusto suono sincronizzato ed è corrispondente al
suo manifestarsi nel mondo reale. La stessa cosa vale per Lynch, dove an-
che le grandi ingegnosità tecniche terminano momentaneamente il loro
manifestarsi, lasciando intravedere comunissimi modi di fare cinema, con
un parallelismo alquanto facile.
Si tratta della piø elementare soluzione combinatoria tra livello so-
noro e livello visivo, in cui il primo si amalgama meticolosamente sul se-
condo, incarnando una funzione di accompagnamento, di commento a
supporto, a sostegno delle immagini.
9
Un paragone azzardato dal punto di vista narrativo, ma non da quello
prettamente tecnico, almeno per quanto concerne il sonoro, è possibile ri-
scontrarlo in uno dei piø importanti registi della nouvelle vague, Jean-Luc
Godard. Se un prodotto commerciale cerca di non mettere in evidenza
l’ellissi all’interno del film, Fino all’ultimo respiro (À bout de soufflØ,
1960) coglie un simbolismo tecnico che viene esplicato con
un’espressività artistica libera e lontana dalle convenzioni produttive. Ne
8
Ibid.
9
V. Ramaglia, cit., p. 23.
8
viene fuori un contesto poco dinamico, ma efficace nel mettere davanti a-
gli occhi dello spettatore diverse manipolazioni audio-video. Il sonoro
viene interrotto improvvisamente, senza preavviso, in contemporanea di
uno jump-cut che spezza la continuità temporale. Non si ha piø una diegesi
fluida, l’interruzione salta all’occhio e all’orecchio. Il passaggio repentino
da un segmento ad un altro crea un senso di shock, offrendo un caso limite
di spaesamento, che porta il pubblico in sala a essere continuamente certo
di vedere “soltanto” un film.
Qui subentra un’analisi uguale e diversa di certi film lynchiani. Ugua-
le perchØ anche in questo contesto il jump-cut è presente e cammina ap-
paiato all’ellissi sonora perfettamente in evidenza. Diversa perchØ film
come Inland Empire e Mulholland Drive risultano talmente lunghi da dare
l’impressione di essere davanti a sequenze interminabili. Viene dato tempo
allo spettatore di calarsi all’interno della storia, pensando a ciò che si vede
come a ciò che si sta vivendo. Però, una volta che il taglio arriva prepoten-
temente, la scossa emotiva risulta ancora piø forte rispetto a quella che ge-
nera il film di Godard, proprio perchØ la lunga attesa ha dato tempo allo
spettatore di assaporare le straordinarie possibilità di identificazione
nell’avventura, che solamente un film ben fatto può generare.
Il suono della crescita
Spirituale, mentale o fisica, la crescita è sempre stata un punto fermo
nella ricerca registica di Lynch. Questo percorso non è mai stato interrotto.
Ancora oggi, non solo nell’ultimo film ma anche nell’ultima produzione
dell’autore, My son, my son, what have ye done (2009) di Werner Herzog,
il protagonista è chiamato a risolvere un intricato percorso didattico, che la
maggior parte delle volte termina con la visione salvifica
dell’illuminazione (celestiale?), altre volte invece cede sotto i colpi del ca-
so avverso e la corsa alla redenzione è interrotta bruscamente. Tuttavia,
questa crescita genera rumore, ed è quello della manipolazione mentale
facilmente udibile in The Alphabet (1968), o quello di un seme che diventa
pianta e poi albero, mentre le sue radici cercano d’invadere tutto in The