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Introduzione
La letteratura austriaca e il linguaggio del potere
Nel presente lavoro si propone un‘analisi di tre opere autobiografiche scritte dall‘autore
ebreo austriaco Albert Drach. Le opere in esame coprono il periodo che va dalla metà degli
anni Trenta del Novecento fino ai primi anni del secondo dopoguerra. In esse ritroviamo
dunque una testimonianza diretta del clima che imperversava in Europa, in particolare in
Austria tra il 1935 e il 1938 prima, in seguito in Francia, dove l‘autore si trasferirà negli anni
centrali della guerra fino alla sua conclusione, e poi ancora nell‘Austria postbellica. Questo è
sì lo sfondo storico delle tre opere, ma la prospettiva della narrazione si concentra invece in
tutte e tre le opere soprattutto sulla dimensione privata del protagonista. In tale dimensione
agiscono e impongono però la loro determinante influenza gli avvenimenti storici,
dall‘annessione dell‘Austria al Reich, agli eventi bellici, alle persecuzioni contro gli ebrei
perpetrate dai nazisti.
Anche se le tre opere sono state scritte durante il periodo bellico o poco dopo, esse hanno
trovato un editore soltanto molto tardi, a partire dagli anni Sessanta. Va in ogni caso tenuto
presente che questo autore si inserisce nel solco della particolare tradizione letteraria austriaca.
A inizio secolo l‘impero austro-ungarico, o meglio ciò che di esso era ancora rimasto in
piedi, si trovava al centro di spinte che lo portarono inevitabilmente verso il suo definitivo
declino. «Wiener Jahrhundertwende» («il cambio di secolo viennese») è una definizione che
indica non solo il passaggio da un secolo a quello nuovo, ma anche il tramonto di un‘epoca.
Si iniziano a percepire i primi segnali dell‘instabilità della «Cacania», ormai ben noto termine
coniato dallo scrittore Robert Musil e che sta a indicare la monarchia delle due k, la «k. und k.
Monarchie» (kaiserlich und königlich, a indicare il doppio titolo di Francesco Giuseppe,
imperatore e re): l‘entità sovranazionale più longeva è ormai divisa in impero d‘Austria e
regno d‘Ungheria, da quando nel 1867, anno successivo alla sconfitta subita da parte della
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Prussia, l‘Austria è costretta ad accettare l‘Ausgleich, il compromesso secondo cui l‘Ungheria,
pur restando in territorio austro-ungarico, acquista autonomia statale. Compromesso di forte
impatto simbolico, oltre che concreto: l‘impero austro-ungarico subisce perdite territoriali, è
necessaria una riorganizzazione differente rispetto al passato; i moti indipendentisti sotto la
cui spinta si formano i primi stati nazionali, contribuiscono a smascherare il volto di una
entità statale, l‘impero sovranazionale appunto, che ormai sta diventando indubbiamente
anacronistica.
L‘Austria di fine secolo è «il luogo simbolico in cui muore la totalità della tradizione e
nasce la dispersione contemporanea»:
1
la crisi storica, gnoseologica e artistica che investe il mondo occidentale, mettendo in dubbio le
forme della conoscenza su cui esso si basava, viene avvertita qui in maniera più radicale che
altrove per quel travagliato processo di dissoluzione del sistema politico del passato,
accompagnato dal crollo delle strutture amministrative e sociali e da una radicale rottura con la
tradizione culturale ottocentesca.
2
L‘individualità si disgrega, l‘unità sembra non essere più possibile: ed è naturale che tutto
ciò finisca per rispecchiarsi in una letteratura sempre più frammentaria al suo interno, fatta di
accostamenti, i cui nessi risultano relativizzati e mutevoli. Come si disgrega la realtà esterna,
anche il soggetto si disgrega, si perde l‘unità dell‘identità. Manifesto di tale frammentarietà e
crisi è la Ein Brief (Lettera di Lord Chandos) di Hugo von Hofmannsthal, in cui l‘io perde la
capacità che fino a poco tempo prima gli sembrava innata e naturale, di vivere e percepire
l‘unità interna ed esterna, il collegamento tra mondo interiore e mondo esteriore, mentre ora
ogni singolo momento esperito (l‘Erlebnis, l‘esperienza che investe il soggetto in modo
diretto) diventa ineffabile. La tematica centrale dell‘opera è la sfiducia nei confronti della
1
Claudio Magris, L’anello di Clarisse, Einaudi, Torino 1984, p. 4.
2
Grazia Pulvirenti, Oltre la scrittura. Frammento e totalità nella letteratura austriaca moderna, Campanotto,
Pasian di Prato (UD) 2002, p. 21.
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lingua, divenuta incapace di descrivere e rappresentare la realtà, e soprattutto l‘unità, quella
totalità che forse è solo utopica e non concretamente possibile e raggiungibile.
L‘Io è solo un nome, è solo un‘illusione. È un espediente di cui noi abbiamo bisogno a livello
pratico per ordinare le nostre idee. Non esistono altro che unioni di colori, suoni, calore, pressioni,
spazi e tempi, e a queste connessioni sono legate disposizioni d‘animo, sentimenti e volontà. Tutto
è in eterna trasformazione. Quando noi parliamo di continuità o di persistenza lo facciamo solo
perché alcuni mutamenti avvengono più lentamente. Il mondo si trasforma incessantemente, e
trasformandosi si distrugge incessantemente. Non esiste però null‘altro che questo divenire.
3
È evidente in questa descrizione come scaturisca la crisi dell‘identità, crisi che, per quanto
riguarda ciò che ci interessa in questo lavoro, spiega perché in questo periodo sia più forte lo
scetticismo nei confronti di un genere come l‘autobiografia, che proprio quell‘identità
vorrebbe poter esprimere e mettere per iscritto: è dunque possibile un‘autobiografia in un
periodo in cui l‘Io si scopre scisso, molteplice, inafferrabile se non addirittura inesistente?
A proposito di questo non si può infatti scordare l‘importanza e il ruolo di uno studioso
fondatore della nuova scienza di inizio secolo, che influenza non solo il modo di pensare al sé
ma il modo di fare e, spesso anche troppo, di interpretare l‘opera letteraria: si tratta di
Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi. L‘importanza del rapporto tra psicoanalisi e
letteratura è ben rappresentata, per esempio, dall‘interesse reciproco che Freud e Arthur
Schnitzler provano l‘uno per l‘altro, l‘uno per le idee dell‘altro; e non si può certo dimenticare
l‘importanza che questa nuova scienza ha per la sua influenza sul cosiddetto movimento
surrealista. D‘altra parte, la letteratura non poteva che reagire con estremo interesse a questo
«nuovo» campo di studi, o per lo meno al nuovo modo in cui esso viene trattato, ossia in
modo scientifico. L‘io si disgrega, perde d‘unità, o quanto meno essa non è data affatto per
scontata, e il soggetto è investito da una profonda crisi.
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L‘estratto fa parte del saggio di Bahr Das unrettbare Ich, pubblicato sul «Neues Wiener Tagblatt» il 10 aprile
1903; cfr. Hermann Bahr, Il superamento del naturalismo, a c. di Giovanni Tateo, SE, Milano 1994, p. 154.
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Ma tale crisi non è certo solo percepita a causa di tali e simili correnti di pensiero. Per
qualcosa di nuovo che sorge (e quindi i caratteri più moderni dell‘epoca), c‘è anche qualcosa
che ci si lascia indietro, o qualcosa che dal passato continua in qualche modo a esercitare la
sua influenza, e nella letteratura austriaca non può prescindere dalle immagini e dai temi
costitutivi di quello che solo in seguito sarà definito e riconosciuto come «mito absburgico».
Parlare di letteratura austriaca del Novecento non può infatti prescindere da un confronto
con ciò che di essa ci racconta Claudio Magris nel suo noto Il mito absburgico nella
letteratura austriaca moderna. Con il 1918 l‘impero austroungarico non esisteva più,
disgregato e amputato della maggior parte dei suoi territori, ma il suo mito continua a
sopravvivere, mentre l‘immagine di quell‘epoca «felice» è da molti autori nostalgicamente
ricordata e rimpianta. Scrittori come Joseph Roth, Stefan Zweig, Robert Musil, per citarne
alcuni, non mancavano certo di riconoscerne e citarne anche i difetti, descrivendo e a volte
parodiando quella vecchia macchina burocratica, lenta e pedante: nonostante ciò il ricordo
lasciava spazio anche alle virtù dell‘epoca, come il tanto amato decoro, la correttezza, la
tranquillità, viste come caratteri opposti ad una modernità sempre più caotica. Un mito
costruito senza dubbio all‘insegna di una visione deformata della realtà austroungarica,
osserva Magris, e non solo: il processo di costruzione di tale mito sarebbe iniziato già prima
del definitivo declino di quell‘epoca. Un mito quindi costruito nel corso dei decenni
precedenti la caduta definitiva dell‘impero, e che a inizio Novecento si trova nella sua ultima
fase, quella nostalgica, e rimane ora solo nella descrizione di quegli ultimi autori, nel loro
rimpianto per un‘epoca che non sarà stata perfetta, e che tuttavia riusciva ad apparire in
qualche modo rassicurante.
Il termine mito, che di per sé indica un‘alterazione e una deformazione della realtà […] acquista in
questo caso una particolare accezione. Il mito absburgico non è cioè un semplice processo di
trasfigurazione del reale, proprio di ogni attività poetica, ma è la completa sostituzione di una
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realtà storico-sociale con un‘altra fittizia ed illusoria, è la sublimazione di una concreta società in
un pittoresco, sicuro e ordinato mondo di favola.
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Quali sono allora secondo Magris, gli elementi che vanno a costruire il «mito»
dell‘impero absburgico? Innanzi tutto l‘ideale della sovranazionalità, anacronistico in quegli
anni di risveglio delle forze nazionali, che voleva riunire sotto lo stesso imperatore popoli ed
etnie differenti. Il secondo elemento costitutivo del mito è quello burocratico, quel
«retrogrado immobilismo» che assume però un significato positivo di «superiore saggezza:
così i limiti e i difetti diventano pregi e virtù».
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Non solo le azioni, ma anche le emozioni
restavano quindi quasi mascherate da quell‘immobilismo, e da quel rituale di quotidiane
abitudini, che permettevano di non uscire mai dai binari di decoro e dignità. È per questo che
l‘«eroe» prediletto dalla letteratura austriaca è il vecchio burocrate, il funzionario, magari
mediocre, ma che ha il controllo su ogni aspetto della sua composta vita. Infine il terzo
motivo fondamentale individuato da Magris, ossia quello edonistico, rappresentato e descritto
anche in letteratura dalla gioia di vivere della città di Vienna, con i suoi valzer, le donne
maliziose e le avventure.
Non tutti gli autori però cercano in un tipo di letteratura rassicurante e nostalgica un
rifugio da quel «tramonto»: è questo per esempio il caso di un altro scrittore ed esponente
della letteratura austriaca dell‘epoca, ossia Karl Kraus. La distruzione di quell‘impero e di
quell‘epoca è per lo scrittore un‘«apocalissi»: nella commedia Die letzten Tagen der
Menschheit tutto è rappresentato in «un grottesco balletto» e una «orgiastica confusione».
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E
dietro non c‘è nemmeno la capacità di portare qualcosa di nuovo. Kraus, feroce e ironico
critico dei valori che confluiranno in ciò che chiamiamo mito absburgico ne svela quindi la
vacuità: come a dire, dietro quelle rigide forme non si nasconde nulla. Sempre Magris ci
spiega però di non vedere in ciò una critica progressista: Kraus tramite i suoi scritti
4
Claudio Magris, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino 1963, p. 15.
5
Ivi, p. 20.
6
Ivi, p. 258.
12
polemizza anche contro i nascenti movimenti nazionalisti, contro la società di stampo
capitalista, e seppur ebreo proprio contro il capitalismo ebraico (non razzista, in ogni caso,
perché comunque opposto a Hitler e le sue idee).
Veri e propri interpreti nostalgici di quell‘impero ormai tramontato sono invece autori
come Joseph Roth e Stefan Zweig. Roth si rivela in un primo momento interprete della
scomparsa dei valori al crollo dell‘impero, della perdita di una vita sicura e protetta, benché
statica all‘interno di quella compagine sovranazionale regolata e rassicurante (in Die Flucht
ohne Ende, del 1927, dove il protagonista Franz Tuinda è un personaggio impegnato in una
continua fuga senza meta).
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Solo in seguito emergeranno invece i tratti meno pessimistici e
più prettamente nostalgici e polemici nei confronti della moderna civiltà nascente. È infatti
con il Radetzkymarsch (1932) che l‘autore, di quell‘impero racconta l‘epopea.
8
E ancora
Zweig nel suo Welt von Gestern (Il mondo di ieri) ne coglie i tratti più tipici e caratteristici:
l‘autore, che scrive il romanzo quando ormai è in esilio, periodo che terminerà tragicamente
con il suo suicidio, rievoca qui quell‘epoca offrendone un‘immagine sentimentale e tenera,
nonostante non manchino i giudizi negativi verso alcuni dei suoi aspetti
9
.
Infine non si può non citare Robert Musil, interprete e voce di quella crisi in atto di cui si
è accennato, proprio attraverso le sue novità linguistiche e stilistiche. Il romanzo ottocentesco
ormai non è più pensabile, si prepara la strada a nuovi moduli narrativi e linguistici, e Musil
nel Mann ohne Eigenschaften in particolare ne è il maggiore interprete. Stile e novità che
contrastano in modo forte con quel «vecchiotto amabile sfondo k.u.k.».
10
Ulrich, protagonista
del romanzo, ne rappresenta e riflette la realtà frantumata.
Non c‘è storia nell‘Uomo senza qualità; c‘è il volto di un‘epoca, il profumo di un tempo
irreparabilmente perduto, l‘indagine sociologica di sentimenti e costumi, l‘attimo senza età della
7
Cfr. ivi, p. 279.
8
Cfr. ivi, p. 280.
9
Cfr. ivi, p. 293.
10
Cfr. ivi, p. 301.
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perdizione amorosa e dell‘estasi mistica. Ma non c‘è il senso del concreto cammino dell‘uomo, del
divenire storico, della dinamica immanente a una società.
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Questo breve accenno al mito absburgico ci permette di osservare un aspetto essenziale
della letteratura austriaca, cioè quello del linguaggio. C‘è infatti un filo conduttore che lega le
opere austriache, ossia uno stile spesso conforme al linguaggio del «potere», di chi in
quell‘epoca comanda: ed è in questo caso e per quest‘epoca quello tipico del funzionario
burocrate, pedante e ligio alle regole, venato di un conformismo esasperato ed esasperante.
Interessanti su questo tema sono le osservazioni di Juliane Vogel nel suo saggio
«Portable Poetics». Nuove considerazioni in margine a un tema della letteratura austriaca,
12
che tratta proprio il problema del linguaggio nella letteratura austriaca. Secondo la Vogel è
evidente come il motivo dell‘ordine si reiteri in gran parte di quella letteratura, e che il ruolo
costitutivo di tale motivo sia proprio il linguaggio: quello della religiosità cattolica prima,
quello del potere esecutivo statale poi. La Vogel vuole in proposito focalizzare l‘attenzione
sul rapporto tra storia e lingua, e su come tale rapporto influenzi poi la letteratura di un dato
periodo. Proprio per l‘assolutezza dei diversi linguaggi del potere succedutisi nel tempo, e la
loro forza, c‘è stato una sorta di vero e proprio impedimento alla nascita di un linguaggio che
fosse solamente letterario e slegato da quello istituzionale. Nel XVIII secolo non esiste per lo
spazio letterario austriaco nessuna tradizione letteraria che si possa definire ―autonoma‖.
Mentre la letteratura tedesca è attraversata da una serie di movimenti caratterizzanti – la
Aufklärung, la Empfindsamkeit, lo Sturm und Drang – e lentamente il linguaggio della
letteratura riesce a svincolarsi dal linguaggio a cui la tradizione religiosa prima la legava, in
Austria questo cambiamento inizia a verificarsi solo più tardi, all‘epoca del regno di Giuseppe
II. Si osserva allora che come prima i vincoli alla scrittura letteraria erano dati dall‘autorità
della Chiesa cattolica, solo dopo il cosiddetto «disgelo a Vienna» e il regno di Giuseppe II i
11
Ivi, p. 308.
12
Il saggio si trova in Luigi Reitani (a cura di), Geometrie del dissenso. Tendenze della letteratura austriaca
contemporanea, Campanotto Editore, Udine 1995, pp. 35-48.
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letterati austriaci iniziano a scrivere contro quel potere e quella lingua. Si afferma inoltre che
è con lo svilupparsi della religione protestante, con il suo impulso rivolto ai fedeli a imparare
a leggere e a usare un proprio linguaggio individuale, che la lingua riesce a emanciparsi da
quei vincoli religiosi. Nonostante ciò, sembra che la letteratura austriaca non riesca a liberarsi
della costrizione linguistica del potere: è così che quest‘ultimo se prima era esercitato dalla
Chiesa diventa ora il potere burocratico, quello dei funzionari dello stato giuseppino. Il
linguaggio letterario finisce quindi per trovare nuovi vincoli. È inoltre frequente la doppia
attività degli scrittori austriaci, che spesso accanto all‘attività letteraria ne svolgono anche una
burocratica; gli uffici e i tribunali diventano il luogo per antonomasia degli eventi, e l‘uomo
diventa «caso». La Vogel definisce perciò il linguaggio burocratico, diventato il nuovo mezzo
letterario, come una «armatura verbale», mentre gli esseri umani sono solamente «sudditi» in
un mondo che diventa per loro una «colonia penale».
La letteratura austriaca non a caso è permeata di personaggi come von Trotta o il
funzionario Zihal, stravaganti burocrati le cui vicende, e quindi in generale le vicende di
questo tipo di letteratura, vedono come luoghi per eccellenza le aule di tribunale o gli uffici.
La figura del burocrate riassume l‘essenza dell‘impero, i suoi metodi di governo e i suoi immobili
valori, la panacea politica contro il dinamico incalzare del tempo e i fermenti centrifughi. Senso
dell‘ordine e della gerarchia, avversione a ogni titanismo e rinuncia ad ogni attiva trasformazione
delle cose vengono sublimate nel personaggio del burocrate, che ricorre in tutta la letteratura
austriaca da Grillparzer a Musil […].
13
Ma il fatto che la letteratura sia condizionata dalla lingua e dai modi di chi in quel periodo
detiene il potere, non significa per forza che ad esso sia totalmente fedele, o che comunque sia
questa una forma di deferenza ed elogio. Tratti ironici, per esempio, nelle descrizioni di quel
seppur conosciuto, e come tale sicuro, mondo della k.u.k. non mancano, e sono evidenti nella
pedanteria di cui alcuni personaggi vengono tacciati. Ma è anche vero che alcuni autori
13
Magris, Il mito absburgico, cit., p. 22.
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tramite il linguaggio del potere nelle loro opere letterarie mettono in luce i meccanismi,
spesso falsi, sempre complicati e ambigui di questo linguaggio burocratico, all‘interno del
quale l‘essere umano finisce per sentirsi in trappola. Come si osserva nell‘interessante saggio
critico di Ernst Fischer su Kraus, Musil e Kafka,
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proprio quest‘ultimo rappresenta nei suoi
romanzi quella burocrazia e non solo come sinonimo di potere, ma anche e soprattutto di
prigione per il cittadino che ne rimaneva vittima. Una vera e propria trappola, il cui mezzo
principale era il linguaggio, che diventava arma e anziché avvicinare, cosa che dovrebbe
essere alla base della capacità comunicativa allontanava. Allontanava, ma anche accerchiava,
distruggeva ed estraniava. L‘individuo diventava un «caso» verbalizzato, quasi spogliato della
sua umanità, dei suoi legami con la vera vita, la vera esistenza.
È chiaro che oltre all‘ambientazione che può essere, ma non deve esserlo per forza,
un‘aula di tribunale, è il linguaggio utilizzato ad avere la capacità di ricreare quello stesso
linguaggio burocratico del potere che è la vera gabbia, la vera prigione senza via d‘uscita in
cui il cittadino si ritrova rinchiuso. E in letteratura non ci sono immagini ma descrizioni,
parole che possono ricreare quel tipo di ambientazione e di atmosfera, e le sensazioni di
costrizione, di raggiro, di vera e propria trappola in cui un cittadino può sentirsi nel momento
in cui si trova a fare i conti con la giustizia (e nel caso del signor K. come anche nel caso di
Zwetschkenbaum, protagonista di uno dei romanzi protocollari più noti di Albert Drach e di
cui accenneremo più avanti, chi è fatto oggetto di tale persecuzione non riesce nemmeno a
scoprirne il motivo).
Uomini in balia delle parole dei burocrati, che non riescono a venirne fuori, non trovano
soluzione né assoluzione, diventano documenti, e ciò che esiste di loro è solo ciò che viene
verbalizzato, che passa per procedure legali. Altro sembra non esserci, e questi estraniati,
dalla vita, dall‘esistenza, sono estraniati anche da se stessi. Divenire documento,
14
Ernst Fischer, Karl Kraus, Robert Musil, Franz Kafka. Tre grandi autori e il loro critico uniti nella visione o
nella profezia della grande crisi del nostro secolo, La Nuova Italia, Firenze 1962; si veda in particolare il cap.
III, Franz Kafka, pp. 85-146.