2
riconoscimento di un linguaggio inclassificabile che determinati autori della scena
hanno adottato per esprimersi.
La prima parte si chiuderà con il manifesto artistico che gronda dall’insieme del
testo, del film e dello spettacolo.
Appartengo ad una generazione che osserva distante qualsivoglia espressione
d’arte o-scena, non forse per una volontà mal riposta o per un’incapacità congenita alla
generazione, ma forse perché priva di un’eredità culturale violenta, capace di non
bastare solo a se stessa, una classe d’età perciò assopita e distratta da più facili e
superficiali modelli sottoculturali di riferimento. Dato il livello di qualità mediatico
eccezionalmente basso al quale siamo sottoposti, data ormai per certo una perdita di
linguaggio alto, che più volte nel tempo è stato raggiunto, non ci resta che ammettere la
sconfitta subita e da essa ritrovare la necessità imperante di una nuova cultura. In
sostanza, una martirizzabile sensibilità è ciò di cui abbiamo bisogno, ora, anche per
accorgerci e poter comprendere un gesto come Agogno la gogna.
Innanzitutto bisogna dire qual’è l’importanza di parlare di un’opera come questa:
ed è fondamentale affermare il valore che Agogno la gogna ricopre in un panorama
teatrale ormai sconfinato e nella contemporaneità sconfitto. Non posso parlarne se non
precisando sin da ora che l’argomento trattato non si riferisce esclusivamente ad un
testo, ma ad una vera e propria azione artistica che si esprime su più livelli, e per questo
degna di studio. A questo punto è evidente che un determinato linguaggio e la
descrizione delle varie immagini che il componimento artistico ci porterà ad utilizzare,
saranno propri all’oggetto che stiamo analizzando e non per forza applicabili in generale
a trattazioni analoghe.
Qui ci occupiamo dell’opera di un contemporaneo nella quale è possibile
ravvisare quella che per molto tempo è stata la matrice autoriale dell’attore-
drammaturgo, dell’attore-poeta con l’orecchio teso (o tagliato) a quel particolare filone
quasi sempre etichettato con l’aggettivo “maledetto”; anche se la tragedia di Benadduce
pare scalciare da una condizione definibile.
3
CAPITOLO I
Il filo nero nella letteratura o-scena
I.1.Il delitto della speranza.
Agogno la gogna è una scrittura feroce, che in forma teatrale condensa intenzioni
in varia natura: prosa, poesia, manifesto e invocazione. Dall’inizio alla fine lo sguardo
rabbioso e l’occhio gravato de L’artista
2
sono rivolti al suicidio.
3
Il protagonista della
tragedia in essere è pronto a riconoscere la sua verità: la fine è necessaria. Il centro di
tutto è costituito dal tormento dell’Arte contro l’umanità, che condotta alla rovina,
L’artista lamenta nelle parole:
Che l’arte coli a picco
di fossa in fossa e poi
di fossa in fossa.
4
Parla del suicidio e non riesce ad attuarlo; per tenere fede alla verità affida a
qualcuno questo compito: porta in corteo
5
alla gogna la speranza. Ciò accade
volutamente, si getta a gran voce agli uomini. Essi rappresentano il possibile, lui non
può e non vuole averci a che fare, perché sa che è un inganno, la speranza è un baro.
Porta il desiderio, eterna ambizione, al massacro. Il corteo rappresenta il desiderio che è
gogna in quanto impossibile, dunque non ha fondo, altrimenti smetterebbe di essere
desiderio. L’artista è lì pronto a resuscitare i dormienti, anche se sa che la sua, come
ogni altra speranza verrà uccisa.
A differenza di autori precedenti, che ancor prima di Benadduce han teso quelli
che possono definirsi i fili neri della letteratura, troviamo dunque nella nostra opera la
totale assenza di speranza. È un punto fondamentale: in Agogno la gogna viene
dichiarata la sconfitta dell’arte sul mondo, l’impossibilità di un cambiamento in
2
Personaggio chiave della tragedia e alter-ego dell’autore.
3
È fondamentale distinguere che sebbene sia la Morte il suo fine ultimo, ad essa deve precedere
necessariamente il gesto del Suicidio come volontà di negazione della vita e se vogliamo anche della
morte “naturale” quale conclusione del processo umano prestabilito.
4
A. Benadduce, op. cit., p. 33.
5
Altro personaggio della tragedia.
4
qualcosa che migliori il mondo stesso, la presa di coscienza che ciò ch’è sempre apparso
effimero alla commedia umana in effetti può ben poco nei confronti di un universo
avverso che si oppone, nonostante sempre sia stato raffigurato, descritto, detto.
Vediamo la Speranza percepita come un male, qualcosa che quando si rende
necessaria anestetizza l’animo umano indirizzandolo verso una tranquillità ingannevole,
e che spesso smorza l’impulso ad agire (anche in modo osceno), in una maniera tale da
permettere la liberazione da uno stato di sottomissione dello spirito. È una circostanza
di iniquità che affonda le sue radici lontano, con tutta probabilità agli albori della
letteratura occidentale, nel mito di Pandora, e che illustrata da Esiodo nella parte finale
della sua Teogonia, ha aperto un dibattito oggi ancora vivo tra i critici. All’interno di
Opere e giorni ad esempio, il suo autore indaga su Prometeo e la sua colpa:
Nell’Iliade (XXIV, 527 sgg.) Zeus tiene in una giara i mali e in
un’altra i beni: c’erano dunque i mali nella giara aperta da Pandora?
Ma allora perché c’è la Speranza? Era anch’essa un male per
Esiodo? Oppure nella giara c’erano i beni e Pandora li disperse? Chi
preferisce questa seconda interpretazione ricorda che i Greci nelle
giare conservavano appunto le derrate. Esiodo però non dice che ,
aperta la giara, i beni si dispersero: dice che si diffusero i mali!
Bisogna forse pensare che nella giara c’erano sia i mali sia i beni? Il
problema è ulteriormente complicato dalla circostanza (vv. 42-50)
che Zeus nascose il βίος agli uomini prima ancora di inviare
Pandora: già quando negò loro il fuoco. Dunque, disperdendo il
contenuto della giara, Pandora non disperse il βίος (che era stato già
nascosto da Zeus), ma diffuse solo i mali. E cosí il cerchio si chiude:
se Pandora diffuse i mali, perché nella giara c’era anche la
Speranza?
Evidentemente è un male anche la Speranza, perché spesso è attesa
vana di ciò che non si realizzerà.
6
Esiodo evidenzia il problema sin dal proemio alle Muse nella Teogonia, calcando
sull’aspetto doppio della realtà da loro direttamente rivelatogli: le Muse dichiarano di
saper dire il vero ma anche il falso. Il poeta
parlerà di Contesa buona (la gara) e di Contesa cattiva (la lite), cosí
accennerà alla Speranza non buona e al Pudore non buono,
presupponendo i loro contrari. [...] Se ogni cosa può avere una
6
G. Aurelio Privitera – R. Pretagostini, Storia e forme della letteratura greca. I Età arcaica ed età
classica, Milano, Einaudi scuola®, Edumond Le Monnier s.p.a., 1997, 2006
13-14
, p. 74.
5
doppia natura, come si riconosce la buona dalla cattiva? Quando si
agisce bene o male? Da cosa deriva per gli uomini il male?
7
L’artista spudoratamente quindi affronta la scena del mondo, gettandovisi a
capofitto senza vergogna, convinto del valore che ogni artista dovrebbe vedersi
attribuito ma che troppo spesso si estirpa al suo ruolo nella società. È facile infatti
constatare come nella storia coloro che creano siano stati spesso vittime di un’onta
gettata loro addosso da quanti hanno provato terrore o semplicemente timore verso il
loro operato. E
“vergogna” viene infatti da vereor gognam che significa “temo la
gogna, la mia esposizione pubblica”. E questa è la ragione per cui
solitamente non ci si vergogna della colpa, ma della sua
pubblicizzazione, ossia della nostra esposizione agli altri, che il
pudore avverte più disdicevole della colpa.
Quando dico: “Non ho nulla di cui vergognarmi” non sto dicendo
solo: “Non mi vergogno, quindi non sono colpevole”, ma anche:
“Non mi vergogno, quindi non temo l’esposizione agli altri. Ho
oltrepassato quello che per chiunque sarebbe il pudore, e ho fatto
della spudoratezza non solo la mia virtù, ma la prova della mia
sincerità e della mia innocenza”.
8
Come nel componimento Sempre perdendosi di Silvia Bre sulla figura di
Sebastiano martire, poema tragico dedicato a Benadduce e da quest’ultimo più volte
interpretato,
9
scorgiamo una figura che si getta a gran voce al mondo offrendogli il
fianco:
Pura è la notte.
Più puro vedere la rovina
senza pudore. Io
il servo
mi strappo il male di dosso
e lo inchiodo qui,
sulla bocca di tutti,
mi metto in mostra
come una vergogna
7
Ivi, p. 72.
8
U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore,
2007
1
, 2008
8
, pp. 61-62.
9
S. Bre, Sempre perdendosi, Roma, ©Silvia Bre, Edizioni Nottetempo, 2006. Prima del testo, l’autrice
dedica il testo: <<Ad Alfonso Benadduce / per la continua trasparnza in cui scompare / via dalla
scena>>.
6
in cerca di qualcuno che la provi.
10
Ma il mondo non può fare a meno dei suoi artisti: <<Il modo aspetta, aspetta che
L’artista faccia il mondo>>,
11
riproponendo un nuovo che <<deve all’inizio
infrangersi contro la tenacia e l’ancor valida coesione dell’antico>>.
12
Il mondo fa
nascere artisti-eroi per rigenerarsi e poi li porta alla gogna tanto che
i grandi eroi della storia sono [...] personaggi tragici di questo tipo,
in cui la nuova idea s’incarna in tutta la sua purezza, senza
compromessi. Essi s’innalzano in una luce fulgente. All’inizio nessuno
comprende ciò di cui essi sono i portatori, ma poi il mondo del
passato avverte indistintamente il pericolo, e allora tutte le sue forze
si uniscono per distruggere il nuovo nella persona del suo più
autorevole rappresentante.
13
Ma noi comprendiamo che
difronte al tragico, la sconfitta dell’eroe ci manifesta l’intimità
profronda dell’essere. Nel tragico, trascendendo orrori e miserie, noi
attingiamo il fondo stesso delle cose.
14
Antonin Artaud professava l’uso di una violenza dei gesti, del linguaggio e della
scena che riconducessero lo spettatore ad una dimensione quasi primitiva, pura,
tendente quindi al recupero di uno stato primordiale della natura divina dell’uomo.
10
Ivi, pp. 9-10.
11
A. Benadduce, op.cit., p. 17.
12
K. Jaspers, Del tragico, trad. it. di I. Alighiero Chiusano, Milano, SE srl, 1987
1
, 2000, p. 32; tit. or.
Über das Tragische, München, R. Piper & Co. Verlag, 1952.
13
Ibidem
14
Ivi, p. 61.
7
I.2. Artó: la crudeltà alla radice.
Non si può continuare a prostituire l’idea di teatro, poiché il suo
valore risiede esclusivamente in un rapporto magico e atroce con la
realtà e il pericolo.
15
A. Artaud
16
Nella sua opera Artaud auspica una palingenesi
17
totale dell’arte della scena, la cui
esperienza espressa attraverso l’atto scenico, attivi il mondo pulsionale interiore dello
spettatore incidendo sui sensi e sulla mente:
Vogliamo fare del teatro una realtà alla quale si possa credere e che
dia al cuore e ai sensi quella specie di concreta sferzata inseparabile
da qualsiasi sensazione autentica. Come i nostri sogni esercitano
un’influenza su di noi, mentre la realtà agisce sui nostri sogni, così
pensiamo si possano assimilare le immagini mentali a un sogno che
risulterà efficace nella misura in cui sarà proiettato con la necessaria
violenza. E il pubblico crederà ai sogni del teatro a condizione che li
consideri realmente sogni, e non calchi della realtà; a condizione che
gli permettano di dar libero corso alla libertà magica del sogno che
egli riconoscerà soltanto se impregnata di terrore e di crudeltà.
18
15
A. Artaud, Il Teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, a cura di G.R. Morteo e G. Neri, trad. it. di
E. Capriolo, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 1968 e 2000, p. 204; tit. or. Le Théâtre et son double,
Paris, Editions Gallimard, 1964.
16
È il 1938 quando Antonin Artaud (1896-1948) da alle stampe Il Teatro e il suo doppio, testo
fondamentale per tutto il teatro del ‘900 e definito da molti come la più affascinante estetica scenica del
XX secolo.
17
Sul termine palingenesi: 1) Rinascita, rinnovamento, rigenerazione. È termine usato dagli stoici per
indicare il ‘rinnovamento’ del mondo dopo la conflagrazione periodica; ma il concetto che generalmente
vuole significare, e che rientra nell’ambito del pensiero religioso (reincarnazione dell’anima individuale,
rinnovamento morale dell’individuo in seguito all’iniziazione), risale particolarmente all’orfismo e al
pitagorismo. 2) fig. rinnovamento. Trasformazione radicale, di istituti, concezione SIM. Storia del
pensiero religioso. Il termine p. è usato in varie accezioni. I) spesso, con uso alquanto improprio, è
sinonimo di rinascita o reincarnazione (v.). Anche però riferito alle vicende dell’anima dopo la morte,
non implica necessariamente una teoria sistematica della reincarnazione; l’idea del ritorno, in nuovo
corpo, del morto tra i vivi, si riscontra anche in religioni primitive: al neonato si dà il nome di un suo
antenato (prevalentemente del nonno) che si crede sia rinato in lui. 2) Nell’antichità classica e cristiana
il termine assumeva il significato di rinnovamento morale, totale rigenerazione della personalità. Come
nei misteri (v.) il novizio subisce un processo di morte e rinascita, anche ritualmente espresso, così
l’uomo può rinnovarsi interiormente per effetto di una nova fede (in questo senso il termine è usato da S.
Paolo); mentre su un piano profano può riferirsi anche a una semplice reintegrazione nelle posizioni
pubbliche precedentemente perdute (Cicerone dopo l’esilio). 3) Sempre nell’antichità il termine si
riferisce anche a un rinnovamento cosmico, nel quadro della teoria, accennata dai presocratici e
sviluppata dagli stoici, di una periodica conflagrazione e successiva p. dell’universo nell’età moderna
tale concezione, intrinsecamente combattuta tanto dalla teologia cristiana quanto dalla scienza naturale
e dallo storicismo idealistico, è riapparsa soltanto in formulazioni sporadiche. Tra esse è
particolarmente da ricordare quella nietzschiana della Widergeburt, che presume la limitatezza delle
possibili combinazioni degli elementi cosmici e quindi conclude con la necessità di un loro ciclico ritorno
a combinazioni già realizzate. (da AA.VV., La Piccola Treccani, 1995, vol. VIII Naq-peris, pp. 710-711).
18
A. Artaud, op. cit., p. 201.
8
Per Artaud il teatro psicologico derivante da Racine aveva ormai cancellato
l’abitudine a quell’azione violenta e immediata propria del teatro. Eppure l’autore
sentiva l’urgenza di un ritorno ad uno spettacolo serio, capace di trasmettere immagini
sconvolgenti che agissero sullo spettatore come una <<terapeutica spirituale>>
19
la cui
azione fosse capace di imprimersi nel suo animo. Il Teatro della Crudeltà doveva
ricorrere ad uno spettacolo di massa agendo sui sensi quindi, scuotendo il pubblico
moderno, ormai ridotto all’inerzia, facendo leva sui nervi:
cercare nell’agitazione di masse numerose, ma convulse e
scaraventate l’una contro l’altra, un pò di quella poesia che esiste
nelle feste e nelle folle, i giorni, oggi troppo rari, in cui il popolo si
riversava nelle strade.
20
I.2.1. Il corteo dei desideri e affollamenti.
Come detto in principio, il corteo in uno dei suoi significati è il desiderio che si
instaura nell’uomo, nell’artista e col quale, L’artista, smette di fare i conti e di tirare le
somme: comprende che troppa speranza è il prezzo da pagare per un possibile che è
destinato a fallire.
Altra significanza quella che ci porta alla citazione appena fatta di Artaud e alla
sua idea di spettacolo: attraverso il film, come d’altronde capiamo dal testo e dallo
spettacolo di Agogno la gogna, è evidente come il corteo di <<incappucciati>>
21
sia
una ripresa di quei momenti popolari legati a feste, onori o commiati funebri tipici
soprattutto di alcuni luoghi del sud, e dei quali gli stessi momenti sono parte integrante
e forte, di una tradizione. Così, allo stesso modo essi sono accompagnati da musiche
generalmente eseguite da gruppi bandistici, e quelle dello spettacolo e del film ne
costituiscono un richiamo voluto. Riferendoci a qualcosa di tragico, naturalmente
l’atmosferà sarà adeguata, ed in questi momenti il tempo di marcia, costituisce il genere
di passo peculiare: <<Trionfa una marcia funebre beffarda. [...] Gli uomini che la
seguono in processione portano a spalla la gogna>>.
22
Successivamente la “musica
19
Ivi, p. 200.
20
Ivi, p. 201.
21
A. Benadduce, op. cit., p. 20.
22
Ivi, pp. 13-14.
9
bandistica” pare passare ad una tonalità maggiore, intonare tripudio, ma vediamo
proprio in quel momento una delle parti finali: la gogna avanza dal fondo in braccio al
corteo e viene deposta nel luogo <<esatto>>.
23
<<Giunti sul ciglio di una fossa la folla
cala la gogna>>.
24
È questa la piazza del mio suicidio?
il luogo esatto per la mia imperfezione,
per il gesto malato che sono?
25
Si ha sempre corteo, figuratamente, anche quando in una sequenza del film
L’artista è solo con la sua compagna trascinato con la corda nel bosco, ed egli <<merce
pubblica marcia. [...] traina l’ingiuria>>.
26
Come il montaggio filmico salta tra momenti tempo-spaziali diversi rispetto al
testo e con uno “sguardo” differente, altrettanto facciamo qui per continuare a
dimostrare quanto sia rilevante questo aspetto che contiene la folla e quella sorta di
atmosfera triviale da festa di piazza che parallelamente rivela un vero e proprio teatro
gettato in pasto al mondo (folla). <<Circondato dalla solita ronda lugubre>>,
27
in una
nuova ripresa di marcia funebre, il <<codazzo rompe le righe. Sputi, calci, fanga.
Musica, suoni e musica. Carni ovunque. Uteri e odori. Un gran teatro di mammelle.
Peti>>.
28
Finalmente per lui <<il patibolo si accende, la folla affolla la piazza>>
29
mentre
vede avanzare verso di essa <<uomini con i pennacchi sul capo. L’andatura è
cadenzata e sontuosa>>.
30
Le immagini filmiche ben definiscono questo corteo il cui
passo si evolve similmente a quello di cavalli che trainano carri da morto. L’effetto è
figurativo ma di forte impatto visivo, ed è anche nell’idea, un contrasto tra solennità che
la situazione richiederebbe e il senso di pericolo che la massa in tali eventi o nelle feste
emana.
23
Ivi, p. 14.
24
Ibidem.
25
Ibidem.
26
Ivi, p. 15.
27
Ivi, p. 29.
28
Ivi, p. 32.
29
Ivi, p. 36.
30
Ivi, p. 42.
10
Tornando ad Artaud, egli precisa che nella poesia esistono forze capaci di
mostrare ad esempio l’immagine di un delitto, presentato nell’adeguata condizione
scenica, tali da essere per lo spirito più terribili della realizzazione del delitto stesso. Per
rendere manifeste queste forze tocca all’attore farsi mezzo sensibile capace di
esternarne tutte le sfumature al fine di racchiudere la natura intera all’interno del teatro
così come noi lo conosciamo. Nonostante la vastità delle idee espresse nel Teatro della
Crudeltà, Artaud precisa che l’attuazione delle suddette non travalica il territorio della
scena ma specifica l’importanza di un teatro totale dal quale parlino oltre alle <<parole
che dicono poco allo spirito>>,
31
anche lo spazio, le immagini e i suoni:
in base a tale principio, miriamo a creare uno spettacolo in cui questi
mezzi d’azione diretta siano impiegati nella loro totalità; uno
spettacolo dunque che non abbia paura di andare lontano quanto
occorre nell’esplorazione della nostra sensibilità nervosa, con ritmi,
suoni, parole, risonanze e gorgheggi, la cui qualità e le cui
sorprendenti combinazioni appartengono a una tecnica che non deve
essere divulgata.
32
E per parlar chiaro, le immagini di certi quadri di Grünewald o di
Hieronymus Bosch ci dicono abbastanza esplicitamente cosa può
essere uno spettacolo in cui, come nel cervello di un qualunque santo,
gli oggetti della natura esterna appariranno sotto specie di
tentazioni.
33
31
A. Artaud, op. cit., p. 202.
32
Ivi, pp. 202-203.
33
Ivi, p. 203.