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I. La nuova punitività
1. Un nuovo paradigma
Parlare di “nuova punitività” (new punitiveness) significa far riferimento a «le nuove
frontiere, i nuovi strumenti, le nuove ideologie del controllo sociale e della risposta alla devianza»
2
.
Questa espressione tenta quindi di raggruppare sotto un‟unica etichetta tutto il variegato mondo
delle recenti strategie di contrasto alla criminalità, siano esse policies o prassi giuridiche. Negli
ultimi decenni, infatti, tanto nei tribunali che nei back-office delle stazioni di polizia, si sono
affermate nuove tattiche per combattere la delinquenza, che si sono diffuse enormemente e che
hanno dato vita ad un dibattito completamente nuovo. Esse sembrano mostrare, insieme come causa
e conseguenza di una nuova sensibilità collettiva nei confronti del crimine, un filo rosso comune.
Quale nuovo sentire, dunque, quale nuova weltanschauung si può rintracciare dietro queste
pratiche? Quali obiettivi collegano fra loro tutte queste misure, di natura sia giuridica che politica?
Quale disegno, più o meno consapevole, dietro le attuali strategie repressive? Il concetto di nuova
punitività, che racchiude le risposte a tutte queste domande, ci rivela l‟esistenza di un nuovo modo
di concepire non solo gli strumenti preposti ad arginare la criminalità, ma anche la criminalità stessa
ed il suo rapporto con la collettività in generale.
Le nuove strategie di contrasto alla criminalità sono tutte accumunate una “urgenza” di tipo
strumentale: combattere la criminalità, anzi un tipo specifico di criminalità, hic et nunc. La nuova
punitività non deriva in prima istanza da una elaborazione teorica, frutto di un dibattito accademico;
la querelle tra gli studiosi si svilupperà in un secondo momento. Le nuove conoscenze repressive si
configurano come un sapere applicato, policy oriented, derivante dalla pratica concreta nei confronti
del crimine. A quale risultato condurrà presumibilmente l‟adozione di una certa strategia? Quale
intervento darà più garanzie di funzionamento in un determinato contesto? La risposta a queste
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CIAPPI Silvio, La nuova punitività. Gestione dei conflitti e governo dell’insicurezza. RubettinoUniversità,
S. Mannelli, 2007.
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domande diventa fondamentale. Non è un caso che la scienza della prevenzione del crimine (di cui
parleremo in seguito) diventi il fulcro delle nuove politiche criminali. I decision-makers devono
essere messi in condizione di decidere: per farlo, devono poter disporre di indicazioni precise su
quali tattiche funzionino e quali invece siano da scartare. Niente più ricerca sulle cause ultime della
delinquenza, sul suo perché, né proposte di riforma di lungo periodo; la criminalità, fenomeno
normale all‟interno delle società, interessa nella sua manifestazione concreta e situazionale.
Potremmo dire che, in fondo, la nuova punitività risente più in generale della moderna tendenza
decostruttiva, avversa all‟affermazione di pretese conoscitive forti e orientata alla prassi: qualsiasi
domanda sulla natura dei fenomeni viene giudicata astratta, vaga, inutilizzabile.
Questa prima osservazione ci permette di fare un collegamento tra il nuovo modo di punire e
l‟orientamento della criminologia contemporanea. Quest‟ultima, da disciplina che tenta di
comprendere la delinquenza in generale e le cause sociali che la provocano (paradigma eziologico),
diventa un sapere strumentale incentrato sull‟analisi delle misure di prevenzione della criminalità,
una scienza effettiva, una «criminologia amministrativa»
3
. Il suo fuoco d‟attenzione si sposta dal
reato astratto alle circostanze particolari del suo accadimento (il luogo, il contesto). La
criminologia, secondo la nuova morale punitiva, è rimasta legata troppo a lungo a questioni di
principio inaccessibili, oltremodo lontane dalla realtà, da ciò che in ultima istanza interessa
davvero: sapere come proteggersi dai crimini concreti. E‟ in atto un passaggio, per usare le parole di
De Giorgi
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, dal «progressismo criminologico» allo «scetticismo criminologico». Il criminologo
sembra debba diventare niente più che un tecnico della sicurezza: deve dirci, in quella specifica
situazione, per combattere quel tipo di delinquenza, quale sia l‟intervento migliore a difesa della
sicurezza pubblica. Questa figura professionale non lavora più insieme a sociologi, giudici,
assistenti sociali, psicologi, ma insieme alla polizia e a coloro che decidono sulla sicurezza.
Il fatto che l‟oggetto principale di interesse diventi la gestione della criminalità, ci permette
di fare un passo ulteriore e osservare come questa esigenza modifichi profondamente il modo in cui
vengono considerati i protagonisti dell‟evento delittuoso. Prima l‟attenzione era rivolta soprattutto
verso l‟autore del reato, il quale, con il suo gesto, infrangeva una norma imposta dallo Stato:
l‟offender, da un lato, e la società, dall‟altro, erano quindi i soggetti principali nella definizione del
conflitto. Adesso l‟interesse si sposta prepotentemente sulla vittima e, di riflesso, sul contesto
sociale particolare che il criminale ha danneggiato. Il deviante non è più l‟attore principale della
scena, non si tenta più di spiegarne la carriera criminale con l‟idea di comprendere il suo vissuto:
esso da un lato torna ad essere, come voleva la criminologia classica, un essere razionale che
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DE GIORGI Alessandro, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, DeriveApprodi,
Roma, 2000.
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Ibidem.
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compie il crimine in seguito ad un freddo calcolo costi/benefici; dall‟altro perde importanza in sé,
come persona, diventa figura anonima, passa in secondo piano. Le sue caratteristiche, le sue
condizioni deficitarie di socializzazione e educazione, le privazioni materiali che può avere
sperimentato non sembrano più essere argomenti da esplorare. Egli riceve l‟attenzione indiretta dei
criminologi, solo come destinatario di interventi volti a neutralizzarlo, a sottrargli le opportunità di
delinquere o di farla franca.
I riflettori vengono ora puntati sulle vittime dei reati. L‟enfasi posta sui loro diritti è un
segnale chiaro della nuova tendenza. Nel nuovo clima punitivo, non solo è legittimo che queste
persone rivendichino un risarcimento per il danno subito, ma la sofferenza che hanno provato
dovrebbe anche dar loro un ruolo attivo in quel processo giudiziario dal quale esse sono in gran
parte escluse. In fondo il criminale ha un debito prima di tutto con un individuo particolare e con la
comunità, solo secondariamente nei confronti dello Stato. Il danno concreto prodotto dal reato viene
così posto in netta evidenza: esso deve essere riparato e, perché ciò accada, occorre un
coinvolgimento diretto della persona offesa. E non solo: diventa auspicabile anche la partecipazione
della collettività. L‟importanza di quest‟ultima non risiede tanto nel fatto che essa costituisce il
frame in cui il crimine si è consumato. La collettività potrebbe temere di diventare lei stessa la
futura vittima, potrebbe voler riaffermare la norma violata dal criminale e, comunque, assorbe i
costi, umani ed economici, del crimine e della sua punizione
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. In più la comunità potrebbe, una
volta punito il criminale, riaccoglierlo tra i suoi membri e svolgere un ruolo decisivo di mediazione
con la vittima, aiutando entrambe le parti a superare, per quanto è possibile, il conflitto. Ora, a
prescindere dalle problematicità che questa visione comporta (e di cui parleremo nel prosieguo del
lavoro), è chiaro che si delinea una “nuova geografia della relazione conflittuale”: in primo piano la
parte lesa dal reato, supportata dalla collettività; poco dietro il criminale, come comparsa; sullo
sfondo, sfuocata e distante, la sagoma dello Stato.
La riconsiderazione delle figure della vittima e dell‟aggressore provoca un primo esito
importante sotto il profilo giuridico: una profonda insoddisfazione sia per l‟ideale retributivo che
per quello riabilitativo. Entrambi, infatti, presupponevano un diverso oggetto di studio: il primo si
concentrava sul delitto, il secondo sul delinquente. Oggi, come abbiamo visto, il compito primario
della giustizia deve essere la riparazione del danno provocato alla vittima. La concezione
retributiva, da un lato, viene in parte salvata per ciò che riguarda il modo di intendere il
comportamento deviante: quest‟ultimo non è altro che una scelta consapevole compiuta da un
soggetto razionale, libero da condizionamenti sociali. Il Reasoning Criminal della moderna teoria
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OLSON Susan M. and DZUR Albert W., Revisiting Informal Justice: Restorative Justice and Democratic
Professionalism, in: Law & Society Review, Vol. 38, No. 1 (2004), pp. 139-176.
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della scelta razionale (Rational Choice Perspective) richiama l‟homo oeconomicus della scuola
criminologica classica. Con una differenza: il “criminale razionale” non è un individuo diverso
dagli altri, “patologico”; la decisione di commettere un reato è legata a circostanze situazionali e
non è dissimile dal modo in cui si prendono decisioni quotidiane non devianti. Sembra insomma
che, nel momento in cui il crimine torna ad essere scelta consapevole, diventi anche evento comune
e come tale meno eclatante, di scarsa rilevanza. Il modello riabilitativo, dall‟altra parte, teso al
trattamento e alla risocializzazione del deviante, viene travolto negli anni ‟80 insieme alla crisi del
Welfare State. Risultati poco soddisfacenti in fatto di prevenzione del crimine e, soprattutto, della
recidiva, oltre che i suoi alti costi, ne decretano il superamento. Questa visione progressista del
fenomeno delittuoso diventa largamente perdente. Si afferma ora, in linea con la dottrina
vittimologica e la scarsa attenzione per il criminale, una concezione differente della giustizia la cui
parola d‟ordine non è più punire (modello retributivo) né trattare (modello riabilitativo), ma
riparare: fare in modo non che il criminale venga punito astrattamente, ma che risarcisca colui che
ha danneggiato, in modo tale da soddisfare il più possibile e in tempi brevi le sue esigenze. Una
visione, quindi, profondamente diversa della pratica giuridica, meno formale e garantista, quanto
piuttosto immediata, effettiva, tesa alla privatizzazione del conflitto entro la cerchia criminale-
vittima-comunità: essenzialmente, una giustizia “a misura di vittima”.
Ma la nuova punitività influenza profondamente anche lo scenario delle politiche criminali.
Obiettivo prioritario delle policies diventa ora la sicurezza collettiva, nei termini di una protezione
generalizzata contro il rischio. Dato che il crimine è evento normale, non patologico, all‟interno
della società, l‟idea di sconfiggerlo o di esercitare su di esso un controllo completo è impensabile.
Quello che adesso viene posto è un problema di gestione della criminalità: si tratta di individuare le
categorie più a rischio all‟interno di un certo contesto sociale e geografico, di isolarle, e di
neutralizzare poi i membri più problematici. Ecco il compito delle metodologie attuariali di
controllo sociale e della prevenzione situazionale, ovvero tecniche di difesa contro il crimine che
mirano ad individuare i potenziali criminali prima che mettano in atto comportamenti nocivi. Solo
così si elimina il rischio che possano danneggiare soggetti vulnerabili, le vittime, le quali diventano
incarnazione del cittadino medio, della persona onesta. L‟imperativo essenziale diventa governare i
segmenti minacciosi della popolazione, quelle “classi pericolose” che si contrappongono alla
“classe laboriosa” dei cittadini perbene (per i quali la giustizia deve seguire itinera diversi). Il
controllo sociale, insomma, non si esercita più sulla devianza prodotta, ma sulla devianza probabile.
Una prova lampante di tutto questo sta nel nuovo ruolo assunto dal carcere. Basta osservare la
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statistica dei detenuti elencati per posizione giuridica
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: ci si accorge in questo modo che più del
40% dei carcerati in Italia è solamente “imputato”, ovvero non ha ricevuto un giudizio definitivo.
«Carcere attuariale» lo definisce De Giorgi: le prigioni «prescindono esplicitamente dalla
consumazione di un reato, dalle caratteristiche individuali di chi vi è rinchiuso e da qualunque
finalità rieducativa o correzionale, per orientarsi invece allo “stoccaggio” di intere categorie di
individui considerate a rischio. […] Diventano sempre più una zona d‟attesa in cui si procede ad
assegnare i singoli individui alle diverse classi di rischio di cui dovranno continuare a far parte in
futuro»
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. Come è possibile tutto questo? Vedremo che tramite la misura della custodia cautelare, di
cui notoriamente oggi si abusa, si diffonde una pratica come quella della carcerazione preventiva.
Ma tentiamo di mettere, ognuno al loro posto, i tasselli del mosaico.
2. Le politiche criminali
2.1. Logica attuariale e filosofia del rischio
Il termine “attuariale”, com‟è noto, è particolarmente utilizzato nel campo assicurativo:
l‟attuario utilizza le sue conoscenze di natura matematica e statistica per calcolare la probabilità che
l‟evento assicurato si verifichi e su questa base calcola qual è l‟importo minimo da far pagare al
cliente che vuole assicurarsi. Ma la scienza attuariale non è più un valido strumento solo per
assicurazioni ed enti previdenziali pubblici. Negli ultimi anni questa professione ha conosciuto una
diffusione enorme, approdando anche nell‟ambito delle politiche criminali. Ma a quale scopo
servirsi della disciplina attuariale per questo tipo di policies?
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Dati del Ministero della Giustizia: http://www.giustizia.it/giustizia/it/homepage.wp
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DE GIORGI Alessandro, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, Ombre
corte, Verona, 2002.