Più predittivo della futura rilevanza del problema è invece il quadro di
evoluzione mediatica che si profila all’orizzonte e che allargherà
quantitativamente e qualitativamente l’area di influenza di questo tema; di
pari passo con le evoluzioni della comunicazione commerciale che si spinge
con i new media su sentieri inesplorati. L’informazione, anche quella politica,
proviene da canali sempre più numerosi e sempre più diversi nelle tecniche e
nelle modalità di veicolazione dei significati.
La legge n. 28/2000, come tutto il dibattito che l’ha preceduta, si
focalizza su due aspetti principali, che sarebbe fuorviante ridurre in un’unica
generale discussione. Solo il primo di questi, infatti, si riferisce propriamente
alla ormai famosa formula latina. Esso fa capo all’intenzione di sancire
l’eguaglianza delle possibilità di comunicazione per i vari soggetti politici,
cioè di regolamentare la ripartizione degli spazi mediatici in maniera
paritetica. La seconda finalità, invece, meno appariscente ma altrettanto
chiara, della legge è di disciplinare le stesse modalità stilistiche della
comunicazione politica. Una volontà che nasce dal confronto e dal contrasto
con le leggi della comunicazione commerciale.
L’esempio più immediatamente visibile riguarda il divieto degli spot
elettorali e la loro sostituzione con “messaggi autogestiti”, concentrati in
appositi contenitori. E’ chiaro che questo provvedimento ha poco a che fare
con la par condicio o, almeno, con il significato originario di questa
espressione. Qui si vuole invece stabilire quali siano le modalità di
comunicazione più adatte alla veicolazione dei messaggi politici.
La mia trattazione riguarda questo secondo problema, cioè, appunto, la
disciplina delle forme della comunicazione politica.
A ben vedere, sotto la superficialità delle contingenze politiche e
mediatiche, il discorso sulle forme dei messaggi politici ha sempre avuto il
suo fulcro nel confronto con la comunicazione commerciale. Di solito è stata
quest’ultima a sperimentare e primeggiare nell’innovazione dei metodi, presto
o tardi entrati anche nel più complesso mondo della politica, dove tuttavia
spesso sono stati percepiti come inopportuni.
Così le leggi sulla comunicazione politica sono nate in molti casi per
frenare l’invadenza dei metodi del marketing commerciale in un mondo in cui
il paradigma vendita-consumo non può venire accettato.
Lo sfondo unificante che si può leggere nelle legislazioni di tutti i paesi
che hanno affrontato il problema, perfino nei liberali Stati Uniti, è il tentativo
di ritagliare per la comunicazione politica uno spazio di protezione e di
diversità rispetto alla comunicazione commerciale. Le modalità e la
profondità di questo distacco segnano le differenze tra le “politiche della
comunicazione politica” presenti nei vari stati occidentali.
Da questo punto di vista, la normativa deve regolare i rapporti del
mondo politico con le modalità di espressione che vigono nel mercato. E’
lecito usare i metodi del marketing commerciale in politica? Quali tra di essi
sono opportuni e quali no?
Per usare le categorie interpretative proprie della comunicazione
d’impresa, utilissime proprio in virtù del confronto che si sta facendo tra il
mondo commerciale e quello politico, si potrebbe suggerire l’utilizzo di un
concetto già presente nelle discipline aziendali, quello di “macromarketing”.
Il problema che esaminerò si potrebbe così classificare come
appartenente all’ambito del “macromarketing politico”.
Il concetto di macromarketing considera la promozione delle vendite
come un’istituzione sociale ed esamina sia gli effetti del marketing sulla
società, sia l’impatto delle forze sociali sui sistemi di marketing
(Tamborini, 1992, pag.26). Coerentemente con questa visione, il marketing
va valutato non solo come tecnica di promozione del singolo soggetto
economico ma anche come subsistema sociale unitario che produce effetti e
assolve funzioni.
1
Provando dunque una nuova applicazione del concetto, il
macromarketing politico sarà la considerazione dei sistemi di promozione
dei soggetti politici nella loro totalità, come un’istituzione sociale. Se ne
dovranno analizzare perciò sia gli effetti sulla società nel suo complesso, sia
l’impatto delle forze sociali, mediali, culturali sui sistemi di comunicazione
politica.
Non basta perciò, per riprendere la distinzione a cui accennavo tra le
due anime della legge cosiddetta della par condicio, dare a tutti spazi uguali
per comunicare. Bisogna anche vigilare affinchè l’insieme di quelle
comunicazioni non produca effetti sistemici contrari ai benefici che da esse
la società nel suo complesso si aspetta di ricevere. Per organizzare
legislativamente la comunicazione politica c’è bisogno di pari opportunità
nella concorrenza tra i soggetti politici ma occorre che anche l’insieme delle
loro voci non risulti stonato (visione macro).
E a queste stonature l’opinione pubblica è più sensibile di quanto non lo
sia riguardo alla comunicazione delle imprese.
Il concetto di macromarketing si può, perciò, agevolmente importare
nella comunicazione politica, dove anzi, oserei dire, ha una rilevanza ancora
maggiore.
Lo sguardo di macromarketing riguarda infatti sempre di più l’anima
della scelta elettorale, e quindi della stessa democrazia rappresentativa.
Ed ecco che al fondo di tutto c’è un problema di filosofia politica: in
base a che tipo di informazione i cittadini devono scegliere?
1
Il micromarketing è ciò che viene più comunemente conosciuto semplicemente
come marketing. Cioè l’ottica di conduzione della singola azienda nelle sue
interrelazioni con il mercato o con i mercati in cui opera.
“Se una democrazia piena e funzionante sia possibile solo con una
cittadinanza razionale, informata, partecipante, è una questione intorno alla
quale si è sviluppato per secoli un vivace dibattito filosofico, e a cui hanno
cercato di dare risposte più sistematiche i pensatori politici contemporanei
elaborando una serie di teorie della democrazia” (Mazzoleni, 1998, pag. 297).
Quanta informazione politica sia necessario possedere da parte dei
cittadini per il buon funzionamento del sistema democratico, e soprattutto di
che tipo di informazione ci sia bisogno sono domande a cui il dibattito sulle
regole della comunicazione politica deve dare una risposta. E vedremo più
avanti qual è la risposta della legge n. 28/2000.
La par condicio arriva in cima all’agenda politica italiana negli anni ‘90,
nel momento in cui in Francia , Germania, Gran Bretagna e in molti altri paesi
europei si stavano concludendo gli iter dibattimentali e legislativi per la
regolazione mediatica delle campagne elettorali.
2
Arrivati al pettine anche in Italia i nodi della questione, in ritardo
rispetto alle altre democrazie dell’occidente, lo scenario sembra presentare
aspetti che rendono il confronto tra le parti politiche non solo assolutamente
peculiare ma anche estremamente conflittuale.
Il primo motivo di questa maggiore rilevanza del problema sta nel
sostanziale ritardo dell’intervento legislativo rispetto al cammino veloce del
marketing politico. L’assenza di regole condivise ha permesso che sulla
2
A dettare le norme in materia di propaganda elettorale sono in Francia la L.n.55
del 1990 e la L.n. 1067/86; in Germania la legge sui partiti del 1967 e le leggi in
materia di attività radiotelevisiva dei singoli Lander; in Gran Bretagna il
Rapresentation of the people act del 1983, (artt. 92 e 93) e ill Broadcasting Act del
1990; in Spagna la legge organica n. 5 del 1985, e successive modificazioni, la
legge organica n. 2 del 1988, la legge organica n.10 del 1991 e la legge organica
n. 14 del 1995; negli Stati Uniti il Federal communications Act del 1934. Tuttavia
va rilevato che negli USA assume inoltre fondamentale importanza la
giurisprudenza elaborata dall'autorità federale di vigilanza (la Federal
commission) e dalla Corte suprema.
questione della televisione, degli spot, della propaganda mediatica si
giocassero e si stabilissero i rapporti di forza tra le formazioni politiche, senza
troppe limitazioni. L’intervento a posizioni già conquistate non poteva che
risolversi in uno scontro, di cui la stessa tardività causava la violenza.
La par condicio si impone all’attenzione in un momento in cui è
evidente una sproporzione nell’uso delle tecniche del marketing politico nelle
due coalizioni in competizione. Per di più, tutto fa intravedere un successo dei
nuovi metodi di propaganda politica e l’adozione dello stile della
comunicazione commerciale sembra premiare chi vi investe. Dall’opposto
fronte politico, lo stesso che concepirà la legge 28, si osserva con sospetto
questa intromissione del commerciale nel politico, e, sia per la mancanza di
mezzi per una efficace competizione sullo stesso piano, sia per una ritrosia
pregiudiziale a farlo, si cerca di cavalcare l’avversione di una parte
(minoritaria) dell’opinione pubblica verso la politica degli spot.
La seconda causa delle peculiarità del dibattito sulla comunicazione
politica nel nostro paese, peraltro a tratti sovrapposta alla prima, è
riconducibile alla famosa “anomalia italiana”: cioè alla commistione di
interessi, persone e logiche competitive tra il sistema dei media e quello della
politica.
Ecco dunque dipinti i principali tratti del quadro che provoca
un’atmosfera di sospetti e recriminazioni reciproche e che produrrà quella
spaccatura politica netta di cui dicevamo sopra. E’ questa una questione che
voglio solo citare per completezza ma su cui non mi dilungherò, essendo essa
del tutto marginale rispetto alla discussione generale sulle modalità di
trasmissione dei contenuti politici.
Per discutere i diversi modelli di forme della comunicazione politica è
necessario un approccio multidisciplinare: gli interessi scientifici che questa
materia è in grado di suscitare spaziano dal diritto costituzionale alla
sociologia, dalla scienza politica al marketing, dalla psicologia alle scienze
della comunicazione.
Il percorso analitico che intendo sviluppare ha come obiettivo una
visione “macro” del problema. Particolare attenzione sarà posta sull’impatto
sociale della comunicazione politica e sui meccanismi della creazione del
consenso che le decisioni politiche in questo campo toccano da vicino.
Nei primi due capitoli, pertanto, cercherò di delineare le attuali
caratteristiche del sistema politico e del sistema dei media che più insistono
sulla definizione del cosiddetto problema della par condicio, o meglio della
parte del problema che riguarda la decisione sulle forme di comunicazione
politica.
Nel terzo capitolo discuterò le innovazioni portate dalla legge 28,
focalizzandomi sulle prescrizioni che hanno a che fare con il cambiamento
delle modalità della comunicazione politica e che permettono di parlare di una
legge “controcorrente”.
Nel quarto capitolo importerò nella comunicazione politica le categorie
interpretative, provenienti dalle scienze della comunicazione, di “push” e
“pull” e proverò a spiegare la funzione euristica che possono ricoprire nella
discussione delle novità portate dalla legge e più in generale nel campo della
comunicazione politica.
Nel capitolo quinto sono discussi alcuni dati di ascolto dei messaggi
autogestiti, che aiutano a capire la quantità e la qualità delle performance
televisive delle nuove forme introdotte.
Infine il sesto e ultimo capitolo descrive il ruolo dello spot nelle
campagne elettorali e analizza il tipo di comunicazione da esso veicolato. Si
discuteranno anche le diverse visioni in merito alla funzione di costruzione
dell’opinione pubblica ricoperte dalle diverse forme di comunicazione
politica.
Capitolo1
Aspetti politici
Il carattere di urgenza e di assoluta centralità con cui si è presentato in
questi ultimi anni il tema delle regole della comunicazione politica ha
origini complesse.
In superficie stanno innanzitutto le contingenze della situazione
politica e l’attuale assetto proprietario mediatico, le gocce che hanno fatto
traboccare il vaso: la confluenza del potere politico e mediatico, il duopolio
bloccato Rai-Mediaset, lo scalpore suscitato dalle prime vere elezioni
mediatiche nel 1994.
Ma oltre alle condizioni particolari dell’attualità, che abbiamo visto
aver inserito la questione nello scontro tra le parti politiche, essa è
connaturata più profondamente ai cambiamenti del quadro economico e
sociale. In diversi contesti della società italiana si possono, infatti,
individuare delle linee di evoluzione che concorrono ad aumentare il peso
della comunicazione politica nella vita democratica. E che aumentano
perciò il conflitto sulle modalità del suo controllo e uso.
Il cambiamento del ruolo dei partiti, il crollo delle ideologie e della
partecipazione popolare alla politica, il sistema elettorale, le evoluzioni
della cosiddetta “costituzione materiale”, il mercato mediatico, il mercato
partitico sono solo alcune delle facce del problema, in un contesto in cui i
ruoli di causa ed effetto si mescolano e si sovrappongono.
A questo si aggiunge la poca certezza scientifica sui reali effetti di
influenza e persuasione della comunicazione politica (molto più che nel
caso della sorella maggiore, la comunicazione commerciale). Quest’ultimo
fatto getta un’ombra di incertezza sulla focalizzazione degli ambiti su cui
eventualmente intervenire. In secondo luogo, incerti restano pure gli effetti
attesi e la loro misurazione. Tanto che qualcuno chiude il cerchio,
dichiarando l’inutilità dell’intervento legislativo stesso. Per esempio
Zencovich (2000, pag. 6) critica decisamente, su un piano sia di metodo
che di merito, l’opinione diffusa della necessità di disciplina legislativa
della propaganda elettorale radiotelevisiva, considerando che “l’enunciato
della legge formale è solo un flatus voci se non trova chi vi si adegua,
l’interpreta, lo applica”.
E’ evidente che si tratta di un quadro di enorme complessità, in cui è
irrinunciabile, per l’analisi e per la decisione, la definizione di un quadro
interpretativo quanto più possibile completo. Un’individuazione
sistematica, anche se per definizione molto approssimativa, delle
declinazioni sociali della questione è importante anche per impostare il test
delle proiezioni future. Per verificare, cioè, l’impatto di una certa soluzione
valutandone gli effetti nel prossimo futuro, tramite la proiezione dei trend
attuali di trasformazione.
1.1 - Partiti e ideologia
Cominciamo con l’esaminare le caratteristiche evolutive del sistema
politico che influiscono maggiormente sull’emersione del problema della
comunicazione politica.
Innanzitutto grande importanza hanno in questo campo, come in
quello più generale del funzionamento della vita democratica, le
trasformazioni che hanno investito i partiti nel passaggio alla cosiddetta
“seconda repubblica”. Un passaggio per molti versi ancora in corso, a
meno che non si consideri quello attuale un quadro stabile e in equilibrio
duraturo.
L’attenzione che si deve al ruolo dei partiti, nell’analizzare le cause e
gli effetti della comunicazione politica, dipende dalla loro natura di
aggregatori delle opinioni, oltre che delle emozioni, identità, appartenenze.
Tutte funzioni che, a ben vedere, costituiscono obiettivi propri anche della
comunicazione politica mediale.
Sebbene con modalità molto diverse, e soprattutto con un diverso
risultato finale, la comunicazione politica aggrega opinioni ed emozioni,
forma identità ed appartenenze.
“Integrazione” e “aggregazione” sono state viste come le attività
svolte rispettivamente dai partiti e dai media. Nel primo caso l’unione si
regge sulla logica dell’inclusione personale ed esplicita. Nel secondo caso,
invece, anonime pluralità di individui convergono per selezionare le
alternative preferite o, meglio, per escludere quelle non compatibili
(Cotturri, 1996).
Ma questa intersezione di fini tra l’attività “integrativa” dei partiti e
quella “aggregativa” della comunicazione getta le basi di una potenziale
concorrenzialità tra le due istituzioni, che diventa chiara nel momento in
cui cambiano i loro rapporti di forza.
In questa concorrenza i due “competitors” possono giocare di comune
accordo o farsi la guerra. Possono esserci situazioni di prevalenza dell’uno
sull’altro come è anche possibile la creazione di monopoli. Certo è che la
loro interazione non può essere ignorata.
La comunicazione di massa costruisce, infatti, la sua efficacia
persuasiva (e di qualsiasi tipo) nel rapporto con le altre interazioni che
l’individuo affronta nella sua esperienza, tra le quali hanno grande
importanza i gruppi sociali istituzionalizzati. Dalla cosiddetta “teoria degli
effetti limitati” (Lazarsfeld-Berelson-Gaudet, 1968) in poi, l’attenzione al
contesto sociale è rimasta strettamente legata allo studio dei mezzi di
comunicazione di massa. Wolf (1985, pag51) descrive così l’eredità di
questo filone di studi: “L’indicazione fondamentale, a mio avviso, di
questa teoria, che rappresenta un’acquisizione definitiva per la
communication research, non riguarda tanto la limitatezza degli effetti
quanto il radicamento completo e totale dei processi comunicativi di massa
entro cornici sociali molto complesse, in cui variabili economiche,
sociologiche, psicologiche, interagiscono incessantemente.”
Nel campo della politica, sono quindi i partiti e in generale i
movimenti e le associazioni di opinione ad esercitare potenzialmente il più
efficace ruolo di rielaborazione, interpretazione e concorrenza alla
comunicazione di massa.
La diffusione della partecipazione e dell’attivismo politico all’interno
di un partito agiscono sulla forza della comunicazione di massa per almeno
due aspetti. Il primo è di natura sociologica e attiene alla funzione di
relazione e appartenenza sociale che il partito svolge nei confronti
dell’appartenente. Nella fruizione dei messaggi politici mediatici questo
diventa un importantissimo filtro interpretativo. Inoltre rappresenta un
arricchimento delle fonti informative a disposizione del cittadino e
un’occasione di confronto interpersonale delle opinioni politiche.
Il secondo è invece di natura psicologica e ha a che fare con la
percezione cognitiva ed emotiva di sè all’interno di uno schema coerente.
Le opinioni politiche, le appartenenze affettive a una tradizione, il giudizio
e la conoscenza degli uomini politici formano un quadro unitario, e questo
costituisce, per così dire, una vischiosità al cambiamento di singoli
elementi del quadro.
Molto più forte, per coloro che vivono un’appartenenza ad una
formazione politica, è quel meccanismo di mantenimento della coerenza
interna noto con il nome di “dissonanza cognitiva”. (Festinger, 1957, citato
in Arcuri, 1995, pag. 274).
La teoria della dissonanza cognitiva afferma che “se una persona ha
delle credenze incongruenti o discordanti su un oggetto, prova una tensione
che lo spinge a ridurre la dissonanza attraverso un cambiamento delle
proprie credenze o del proprio comportamento”. (Arcuri, 1995, pag 534).
La riduzione della dissonanza avviene a scapito di ciò che, tra le credenze e
i comportamenti, risulta più debole e la cui eliminazione ha conseguenze
meno gravi sulla percezione di sè della persona.
Come dire che l’appartenenza ad un partito o a una qualsiasi
aggregazione sociale rende più difficoltoso il cambiamento di opinione e
inquadra le credenze di una persona in un quadro stabile che tende ad
essere coerente.
I meccanismi psicologici tendono a preservare la coerenza interna,
quelli sociali difendono la coerenza esterna, nei confronti della comunità a
cui ci si è presentati con una identità precisa.
Ne deriva che il crollo della capacità di integrazione dei partiti fa
emergere come maggioritari criteri di decisione e di adesione non più
“ipotecati da precedenti lealtà, da vincoli consolidati” (Cotturri, 1996, pag.
44).
Ma l’esistenza e la forza dei partiti applica i suoi filtri alla
comunicazione anche per coloro che non prendono parte attiva alla loro
vita. In un quadro stabile e chiaro di rappresentanze partitiche le opinioni,
gli atteggiamenti, le idee non potranno mai essere vissute di per sè, ma
inevitabilmente finiranno inquadrate e riportate agli schemi unitari che
definiscono le differenze tra gli schieramenti.