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INTRODUZIONE
Da molti anni a questa parte si è aperto, e continua tutt’oggi, un acceso dibattito
sui sistemi previdenziali, sulla loro struttura e sulla loro adattabilità al Paese cui
si fa riferimento. Le proposte di riforma dei sistemi pensionistici sono
certamente questione di interesse delle generazioni in pensione, in quanto esse
ricevono dal sistema il reddito necessario al sostenimento e al consumo nel
periodo di vecchiaia. Ma le generazioni in pensione non sono di certo le uniche
interessate alle riforme dei sistemi pensionistici: le generazioni attive, ovvero i
cittadini che esercitano la loro attività lavorativa nel periodo cui ci si riferisce,
trovano anch’esse interesse nel sistema previdenziale in quanto ricevono da
quest’ultimo, in cambio del pagamento di contributi, promesse per il periodo in
cui cesseranno la loro attività lavorativa, lasciando il posto alla “nuova”
generazione attiva, ossia la generazione futura del periodo di riferimento della
presente analisi, la quale osserva attentamente il comportamento delle
istituzioni circa le riforme pensionistiche in quanto su di essa gravano i benefici
pensionistici elargiti alle generazioni precedenti dai governi.
La nascita dei sistemi pensionistici risale alla fine dell’Ottocento e va
sicuramente ricondotta al cancelliere tedesco Otto von Bismarck (1889), il quale
rivolse le prime pensioni agli operai industriali, proteggendo, così, tramite
un’assicurazione sociale obbligatoria, i lavoratori più esposti al rischio nell’età
della vecchiaia, definendo il cosiddetto “modello bismarckiano”: un modello il
cui fine è mantenere il tenore di vita dei lavoratori nell’età anziana, grazie ai
contributi versati nell’età attiva ed elargendo loro prestazioni collegate al
reddito. Questo modello copre i lavoratori, e non tutti i cittadini: è, dunque, di
tipo occupazionale, frammentandosi e diversificandosi, nelle successive
evoluzioni ed espansioni, a seconda delle diverse categorie di lavoratori
assicuratisi. Il modello appena descritto ebbe molto successo sviluppandosi
nell’Europa continentale e mediterranea, espandendosi in Austria, Paesi bassi,
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Francia, Spagna, Italia (in cui, con il d.lgs n.603 del 1919, venne istituita una
tutela obbligatoria dell’invalidità e della vecchiaia per i lavoratori dipendenti
afferenti al settore privato), Belgio, Grecia e Portogallo. Focalizzando
l’attenzione sul caso italiano, si registra che nei primi anni successivi
all’intervento legislativo gli assicurati aumentano a 10 milioni, partendo da
650.000.
L’analisi condotta nel seguente elaborato verterà dapprima sul dibattito circa la
riforma dei sistemi previdenziali, entrando nel dettaglio dei differenti sistemi
pensionistici, mettendo in evidenza le diverse modalità di finanziamento degli
stessi sinergicamente ai differenti metodi di computo, in modo tale da
evidenziarne i rendimenti, nonché i rischi. In particolare, si individuerà il
contesto storico-sociale all’interno del quale è nato il sistema a ripartizione e
quali sono state le “cause” della sua nascita, così come si definirà l’origine dei
problemi incorsi in seguito alla sua adozione. Seguirà l’analisi dell’evoluzione
demografica che ha caratterizzato la popolazione mondiale negli ultimi anni e
la conseguente crisi dei sistemi pensionistici, la quale ha trovato nel rapporto
della Banca mondiale del 1994 un tentativo di attenuazione.
Successivamente, nella seconda parte, si tratterà in maniera approfondita del
sistema pensionistico italiano, delle sue caratteristiche e delle numerose riforme
avvenute nel corso della storia, arrivando ad analizzare la situazione attuale e le
prospettive future del sistema. Si delineerà, dunque, l’Italia come esempio di
sistema a ripartizione, comparandola, nell’ultima parte dell’elaborato,
all’esempio per eccellenza di sistema a capitalizzazione, il Cile, facendo
risaltare i benefici che tale tipo di sistema ha portato alla popolazione locale e
l’esempio che una riforma di così vasta portata ha dato ai Paesi vicini e non
solo.
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I. IL DIBATTITO SULLA RIFORMA DEI SISTEMI
PREVIDENZIALI
1. I diversi tipi di sistemi previdenziali
Allo scopo di fornire un quadro completo sulle caratteristiche e le peculiarità
dei differenti schemi pensionistici, la presente analisi verterà dapprima sulla
situazione economico-sociale antecedente alla creazione di appositi sistemi
previdenziali.
In numerose società, tra cui sicuramente la società occidentale, tutti i
cittadini lavoravano fino a quando era loro permesso dalle proprie
condizioni fisiche e fino a quando ne avevano la possibilità, accumulando
capitale necessario affinchè avessero potuto far fronte, nel periodo di
inattività lavorativa, alle esigenze di consumo che si sarebbero presentate
(Bonasia, 2013). Dunque, provvedevano al loro sostentamento in età
“anziana” già a partire dal loro periodo attivo, coadiuvati, senza dubbio, dal
sostegno dei figli, i quali nel frattempo diventavano lavoratori attivi, e della
famiglia in generale, i quali consentivano di evitarne lo stato di povertà ai
quali gli “anziani” sarebbero sicuramente andati incontro nel caso in cui non
avessero accumulato sufficienti risorse in età attiva per far fronte ai bisogni
che indubbiamente si sarebbero presentati nell’età inattiva e fino al momento
della morte. Si creava, in tal modo, un legame molto stretto all’interno della
famiglia, la quale occupava il posto degli attuali sistemi pensionistici, che si
è protratto per molto tempo e che lascia i suoi segni anche nella società
contemporanea, dove il grado di defamilizzazione è molto basso.
Tutto questo fu possibile, anche grazie alle società di mutuo soccorso
operaio e la beneficenza ecclesiastica che offrivano una tutela discrezionale
e occasionale (Ferrera, 2020), fino alla seconda metà dell’Ottocento, periodo
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in cui l’industrializzazione originò profondi cambiamenti sociali ed
economici che resero insostenibile questa forma di assicurazione familiare.
Cosicchè, vennero introdotte le prime forme di protezione pubblica della
vecchiaia, dapprima in Germania nel 1889, ad opera del cancelliere Otto von
Bismarck, in cui gli schemi pensionistici erano rivolti agli operai industriali
e agli anziani poveri, dunque si trattava di un’assicurazione sociale
obbligatoria per quei lavoratori, gli operai appunto, più esposti al rischio di
indigenza nel periodo di inattività. Questo modello, conosciuto come
modello bismarckiano occupazionale e radicatosi successivamente nei vari
Paesi occidentali europei, ha come fine quello del mantenimento del tenore
di vita dei lavoratori e finanzia le prestazioni pensionistiche grazie ai
contributi versati degli assicurati nell’età lavorativa, frammentandosi a
seconda delle differenti categorie occupazionali.
A questo modello si contrappone il modello beveridgeano, frutto
dell’istituzione, in Danimarca nel 1891, di uno schema assistenziale rivolto
ai cittadini bisognosi operato tramite “prova dei mezzi”, che prende il nome
da Lord Beveridge, il quale, nel 1942 nel Regno Unito, introdusse un sistema
di protezione sociale universalistico rivolto a tutti i cittadini.
Il modello bismarckiano interessò anche l’Italia che nel 1919 istituì uno
schema di protezione obbligatorio diretto ai dipendenti privati, che si
aggiunse al provvedimento del 1864 tutelante i dipendenti statali. Gli
assicurati, nel primo anno, passarono da 650mila a più di 10 milioni (Ferrera,
2020). Questa impostazione occupazionale si rafforzò durante il periodo
fascista, fino ad arrivare al cosiddetto “trentennio glorioso” (1945-1975),
durante il quale la crescita economica sostenuta, la crescita demografica e
quindi una società giovane e l’elevata spesa sociale spinsero alla formazione
dei primi sistemi pensionistici intesi nell’accezione attuale (Ferrera, 2020).
In linea generale, i sistemi pensionistici rappresentano la sintesi del concorso
al loro funzionamento da parte di due aspetti fondamentali, le modalità di
finanziamento ed il metodo di calcolo del beneficio pensionistico.
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Ponendo l’attenzione sul primo aspetto, un sistema pensionistico è detto “a
ripartizione” quando viene finanziato mediante una sorta di solidarietà
intergenerazionale, in cui la generazione di lavoratori immediatamente
finanzia, attraverso il versamento di contributi proporzionali al loro reddito
da lavoro, l’erogazione dei benefici pensionistici alla generazione inattiva
dello stesso periodo di riferimento. Un sistema, diversamente, è detto “a
capitalizzazione” quando ogni lavoratore versa una porzione del proprio
reddito da lavoro in un fondo pensione privato individuale, investito sui
mercati finanziari e rivalutati secondo il rendimento degli investimenti, in
modo da assicurarsi una rendita nel periodo di pensionamento, provvedendo,
così, da sé all’erogazione di benefici previdenziali nell’età di quiescenza.
Due metodi, quindi, diametralmente opposti che verranno esaminati nel
dettaglio nei paragrafi seguenti.
Focalizzando, ora, l’analisi sui metodi di computo delle pensioni,
distinguiamo il meccanismo retributivo, altrimenti detto “a benefici
definiti”, ed il meccanismo contributivo o “a contributi definiti”. Nel primo
caso, siamo di fronte ad un accordo tra individuo e settore pubblico basato
sulla definizione aprioristica del rapporto tra beneficio pensionistico e
salario, individuando una percentuale fissa della retribuzione da lavoro e del
numero di anni di contribuzione, che sarà percepita dal futuro pensionato.
Le pensioni sono, sicchè, calcolate in percentuale sulla media dei salari degli
anni di lavoro, generalmente gli ultimi anni oppure i migliori, ma anche tutta
la vita attiva, come accade in Germania (Ferrera, 2020). Nel secondo caso,
invece, è definito il rapporto tra contributi e salario, dunque il pensionato
riceverà un beneficio dipendente dal rendimento che la gestione a cui sono
stati versati i contributi ha realizzato, quindi un altro parametro
fondamentale, qui, è rappresentato dal tasso di rendimento degli
investimenti, quale può essere il tasso di crescita del PIL o altri indicatori
economico-finanziari.