2
e che nel contempo non possa essere riconosciuto come correzionale.
Ma appunto solo astrattamente. In effetti storicamente tutti i sistemi
che la penologia riconosce come correzionali si sono legittimati per la
«“mission” della special – prevenzione positiva»
3
, dove la pena risulta
essere relativamente indeterminata e comunque flessibile a livello
esecutivo, in cui prevalgono valutazioni personologiche e giudizi di
pericolosità e in cui il sistema sanzionatorio si offre come uno spettro
disciplinare.
Secondo quanto osservato, di fronte alla crisi del modello
correzionale e dell’ideologia social – preventiva della pena, emerge la
tentazione ad un ritorno alla pena “giusta”, ovvero finalisticamente
non orientata.
Mia intenzione è quindi, innanzitutto ripercorrere i passaggi
sostanziali di tale visione del diritto penale, mettendola,
successivamente, in contrapposizione con le teorie della “pena utile”
in modo tale da dimostrare come tale distinzione non è stata in grado
di capire il presente della questione criminale.
In due distinte occasioni tematiche questa distinzione si è
palesata convincente ed assunta in termini paradigmatici dalla società
dei giuristi e degli scienziati della legislazione penale.
Alle origini del diritto penale moderno, la “pena utile” indicava
quella in astratto (perché il Principe ha il diritto di punire) e quindi
coincideva con lo scopo del diritto penale che, a fatica, si legittimava
politicamente a fini utilitaristici di prevenzione. Perché? «I limiti che
si ponevano al potere o diritto di punire del Principe erano deducibili
dalla fondazione contrattuale del diritto penale stesso; la sua origine
pattizia determinava, quindi, il contenuto degli interessi generali da
proteggere e la loro rilevanza, indicando, contemporaneamente, anche
3
Vedere nota (1).
3
i beni individuabili contrattualmente disponibili e quindi sacrificabili
per l’interesse generale»
4
.
“Pena giusta”, invece, indicava, per scrupolo di garanzia, la
pena in concreto (perché, quando e come il Principe può e deve
punire) cioè il momento commisurativo, ove la persona non può
essere mai oggetto di politica criminale. Si riduceva, pertanto, ad una
pena senza scopo.
In questa originaria distinzione, come è evidente, il momento
esecutivo semplicemente non era presente.
Così, come descriverò ampiamente, almeno dalla seconda metà
dell’Ottocento, l’opposizione tra pena giusta e pena utile è utilizzata
per distinguere la fase commisurativa da quella esecutiva vera e
propria, dove per esecuzione dobbiamo intendere amministrazione e
gestione di uomini per un tempo di libertà sottratto coattivamente.
Originariamente, quindi, la scelta ricade solo sulla pena carceraria.
Alla pena giusta - ovvero meritata per il fatto – segue una pena
esecutiva costretta a fare i conti con il problema di trattare con gli
uomini, cioè con la disciplina.
Ciò premesso, sposterò la mia trattazione sui perché del trionfo
della pena utile sulle resistenze poste dalla pena giusta, fino ai modi
attraverso i quali questo processo di egemonia si è storicamente dato.
Rivolgerò il mio sguardo alla fase esecutiva, primo terreno di
occupazione dell’egemonia utilitaristica della pena.
Per poter operare questa disamina farò riferimento, in un primo
momento, alla situazione italiana, protagonista della progressiva
erosione al principio dell’inderogabilità del giudicato in fase
esecutiva, esigenza decisiva, quest’ultima, alla affermazione del
valore della pena meritata per il fatto come pena giusta.
Prenderò atto del fatto che la penalità meritata per il fatto è
sempre stata solo virtuale rispetto a quella effettivamente eseguita.
4
M. Pavarini, I nuovi confini della penalità, Ed. Martina, Bologna 1996 (pag. 60 e ss).
4
La penalità nei fatti, in Italia, è sempre stata «governata
attraverso politiche di tipo indulgenziale»
5
. Il nostro sistema politico
non si è mai limitato a perseguire scopi di utilità attraverso la penalità
in astratto (attraverso la pena edittale), ma costantemente ha governato
anche la penalità in concreto per necessità utilitaristiche di varia
natura: di governo del carcere, di economia finanziaria, di consenso
politico, ecc. Insomma, è sempre stata oggetto di “scambio” per
ragioni di utile.
Storicamente, basta guardare già alla Codificazione Rocco: i
regimi della sospensione e della liberazione condizionale hanno avuto,
da subito, il fine di consentire al momento edittale e a quello
commisurativo della pena di soddisfare esigenze general – preventive
«senza dovere sopportare i costi che simili scelte determinano a livello
esecutivo»
6
.
In seguito, con la riforma penitenziaria del 1975 n. 354, nel
nostro sistema entra il principio della “pena flessibile” per sole ragioni
special – preventive. La scelta tecnica è stata quella della
negoziazione in fase esecutiva, facendo in modo che la pena
acquistasse la virtù di essere più breve o più mite, quanto più lunga o
più severa fosse quella originariamente meritata.
Tale sistema è andato avanti fino alla cosiddetta “legge Gozzini”
(legge di riforma n. 663 del 1986), la quale ha segnato un
cambiamento radicale. Si è accentuata la flessibilità della pena in fase
esecutiva per ragioni, sempre più lontane da quelle special –
preventive, per aderire ad una premialità finalizzata a suscitare nel
condannato la volontà di assumere comportamenti ritenuti utili.
5
M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell’Italia del XX secolo,
in L. Violante, a cura di, La criminalità, Annale n. 14 di “Storia d’Italia”, Torino, Einaudi.
6
Dalla relazione ancora in progress del prof. M. Pavarini dal titolo (ancora provvisorio),
«Ubu Re» e la pena, ovvero il grottesco nella penologia contemporanea, (pag. 7 e ss).
5
Tutto ciò si è, successivamente, inasprito negli anni novanta con
la disciplina della differenziazione trattamentale per ragioni di
pericolosità apportata dalla legislazione emergenziale in lotta con la
criminalità organizzata. Mi riferisco alla esasperata premialità
promessa in caso di collaborazione del mafioso, utile per contrastare il
crimine organizzato, ma fallimentare nei fini special – preventivi.
Infine, con la riforma Simeone – Saraceni del 1998 si sono
estesi ulteriormente i termini della flessibilità oltrepassando quelli
posti dalla negoziabilità.
Di seguito, in secondo momento, mi occuperò dell’aspetto
nuovo, enucleato durante la conferenza, che si connette più
direttamente al concetto di pena utile. Esso può essere indicato
brevemente: tra gli effetti dell’affermarsi di un fondamento
utilitaristico della pena va indicato l’irrompere della negozialità nella
fase commisurativa ed esecutiva dei castighi legali e in conseguenza
di ciò la produzione di ampie zone di ineffettività penale, generando
un'involuzione verso un diritto penale diseguale, frammentario e
soprattutto ineffettivo ed incerto.
È un aspetto di sensibilità comune il fatto che la certezza e
l’uguaglianza delle pene, oggi, siano ovunque minacciate; dai più
emerge una sorta di volontà di restaurazione di queste, celando,
invece, contrariamente alle esigenze del diritto penale, una istanza di
maggiore penalità
7
.
7
Ipotesi condivisa da L. Eusebi ne La nuova retribuzione, in G. Marinucci e E. Dolcini, a
cura di, “Diritto penale in trasformazione”, Milano Giuffrè, 1985 pp. 93 e ss.
1
I Capitolo
Riflessioni sulle teoriche della pena giusta
1.1 Il concetto di pena giusta
Per poter valutare come il concetto di pena sia stato modificato
nel corso del tempo, si pensi a come la letteratura medievale fosse
ricca di narrazioni riguardanti pene capitali crudeli e violente, sale di
tortura, pene come le amputazioni, le marcature, lugubri prigioni con
celle buie e segrete.
La pena medievale aveva carattere punitivo e privatistico.
Compiere un reato, cos� come considerato anche dall'attuale codice
penale, significava trasgredire determinate regole ma il suddito, a
differenza del cittadino odierno, doveva il proprio rispetto alle regole
imposte dal suo signore che era l'unico soggetto deputato ad emanare
gli ordini e a giudicare il reo. La presenza di codici o leggi passava in
secondo piano in quanto la definizione delle pene era stabilita in base
a regole riconosciute da un sistema sanzionatorio che aveva come
fonti primarie la consuetudine e l'arbitrio del signore che giudicava a
seconda del soggetto imputato.
Tutto il sistema giurisdizionale si basava, dunque, sulla legge
del taglione intesa nel suo significato etico - giuridico: era necessario
pareggiare i danni derivanti dal reato, privando il reo di quei beni
riconosciuti dalla comunit� come valori sociali (la vita, l'integrit�
fisica e il danaro). La crudelt� e la spettacolarit� accompagnavano
queste procedure di espiazione con una funzione prettamente
deterrente.
La pena era considerata come fine a se stessa, e in ci� consisteva
la caratteristica della sua assolutezza; una teoria che escludeva la
presenza di scopi specifici, particolari, �relativi�. La giustificazione
della pena medievale o assoluta o retributiva non stava, dunque, in
2
uno scopo che essa avrebbe dovuto raggiungere, bens� nella
realizzazione dell�idea di giustizia.
Il principio su cui si fondava l�idea della retribuzione, � che
fosse giusto, legittimo o doveroso retribuire il male con il male,
�rendere male per male�.
8
Tutto ci� scaturiva dalla convinzione che �dall'unico Dio non
poteva che spirare un unico principio di legittimazione del potere. E di
qui nacque quel principium unitatis che appunto legittimava tanto il
potere esercitato nell'ambito spirituale (Chiesa) come quello esercitato
nell'ambito temporale (Impero), legandoli a doppio filo�.
9
Si era venuti a fare di ogni reggimento politico un reggimento
gerocratico (dominio politico della classe sacerdotale), di ogni crimine
un peccato, di ogni pena inflitta da un'autorit�, fosse spirituale o
secolare, una pena che si assumeva fondata nel "divino".
Il fondamento della pena, tale da essere sentita come giusta, si
rinveniva, pertanto, dalla premessa di un Dio "delegante".
La pena di Dio veniva vista come l'unica che, in realt�, potesse
riparare mentre la pena umana veniva vista come uno strumento nelle
mani del potere: per cui, non doveva preoccuparsi di nessuna
riparazione, in quanto a questa avrebbe provveduto, a tempo debito,
Dio stesso.
8
Wiesnet E., Pena e Retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra
cristianesimo e pena, Milano Giuffr�
9
AA.VV, parte curata da D. Velo Dalbrenta, Pena e riparazione, Cedam, Padova
3
1.2 La pena umana vista come retribuzione divina
La pena medievale, come argomentato, viene considerata
"perfetta" potendosi dire scevra da profili problematici, operando in
un mondo che si assume ordinato in maniera compiuta perch�
definitivamente ordinato da Dio, perfezione suprema.
Trionfano, quindi, quelle teoriche nelle quali la pena appare
come un'irradiazione dell'essenza divina.
Il titolare del potere punitivo va esente da critica perch� opera,
sempre e comunque, per il bene dell'uomo.
10
La potest� del signore medievale � chiamata ad un compito
molto importante: difendere la societ�. A tal fine � pronto ad
intervenire, retribuendo le disubbidienze in nome e per conto dei
consociati. Non, per�, per conto di tutti ma solo in difesa dei
componenti il consorzio sociale che riconoscono in essa l'impronta di
Dio in terra.
Si riesce, dunque, ad intendere come il potere punitivo venga a
contraddistinguersi per la sua indiscutibilità, prendendo lentamente il
luogo della verit�, della giustizia.
L'autenticit� della pena umana trova nella inscindibilit� col
divino il proprio fondamento, richiedendo cos� una concreta
giustificazione in termini di riparazione.
11
A questo punto, sulla base di questi cenni, posso abbozzare
quale fosse l'idea archetipica della �pena retributiva divina”:
a) � l'idea del ripristino di un ordine umano che ha il suo
fondamento nel trascendente.
b) Tale ripristino si giustifica nel caso concreto in quanto ci
rivela l'indistinguibilit� della pena da una modalit� di reciprocit�
(retribuzione) che vede �lo stemperarsi del male di una lesione nel
10
Il sistema delle pene, doc. internet
11
AA.VV, parte curata da D. Velo Dalbrenta, Pena e riparazione, Cedam, Padova
4
bene di una reazione e viceversa»
(ecco la ricerca del riequilibrio
in una situazione oggettiva).
Pertanto, “ripristinare” l�ordine divino significava rendere
nuovamente visibile mediante il dolore del reo un ordine nel mondo
umano. Il sommo male andava evitato in tutti i modi. Di qui, la
giustificazione del supplizio, che si compenetrava totalmente con lo
scopo general � preventivo (�punisco te, affinch� gli altri imparino a
non delinquere�): lo strazio che la pena contemplava nel corpo del
condannato, ammoniva severamente gli astanti a non deviare e,
paradossalmente, �il concepire il dolore come contenuto della pena,
in ossequio alla divina necessità della stessa, apriva al potere la
possibilità di fare della medesima un uso strumentale�.
12
Si pensava
che coloro che deviavano dall�ordine voluto da Dio, lo facessero solo
per irrazionalit�. Giusto era allora atterrirli: giusto era che gli
irrazionali si astenessero dal peccato almeno per istintivo timore di
incorrere nei rigori della pena.
La pena retributiva, secondo i fautori di tale teoria, diviene un
prezioso strumento per intimidire coloro i quali trovano nel timore
della sanzione una istintiva controspinta psicologica che contrasta
efficacemente la motivazione a compiere un reato.
Il concetto retributivo della pena viene assunto come scopo -
base diretto a consolidare un potere di fatto, mentre gli altri due scopi,
general - preventivo e special � preventivo (�punisco te, affinch� tu
impari a non delinquere�), si rapportano alla retribuzione stessa come
modulazioni o correttivi.
13
La figura del giustiziere si affianca in tal modo a quella del
Sovrano e a quella del magistrato, arbitro delle sorti dell�uomo, e
12
F. D�Agostino, La sanzione nella esperienza giuridica, Torino Giappichelli Ed., 1999
13
J.M. Kelly, A short History of Western Legal Theory, 1992, trad. It., Storia del pensiero
giuridico occidentale, Bologna, 1996.
5
l�ordine divino viene ad �incarnarsi� proprio nel condannato al
supplizio, in colui che aveva dato a vedere di respingerlo.
6
1.3 La secolarizzazione della pena giusta nell'età moderna
Nell'et� moderna cambia tutto: l'uomo pu� rivendicare
un'esistenza totalmente autonoma ed autarchica.
Ha un diritto suo, il diritto naturale, per cui l'et� moderna
risolve la natura umana nella ragione e pi� precisamente nella capacit�
della ragione di discernere principi immutabili ed eterni cui affidare la
vita dell'uomo.
Si pone una distinzione tra pena inflitta da Dio e pena inflitta
dall'uomo.
La costituzione dello Stato moderno muta le procedure di
regolazione dei conflitti, della convivenza civile e della sanzione
penale.
Secondo Hobbes, il diritto di punire spetta solo allo Stato e,
dunque, alla legge - e solo alla legge. Crollerebbe, quindi, il
fondamento teologico della pena. L'autorit� statuale diviene il
fondamento laico della pena.
14
La retribuzione divina sembrerebbe non sussistere pi�, mentre il
campo corrispondente all'odierno diritto penale appare occupato dal
diritto umano. Ma scrutando in profondit�, si nota che il problema
della pena circa la titolarit� del potere punitivo, dove il detentore di
esso � considerato inamovibile / irresponsabile, resta ancorato alla
premessa di un Dio come garante esterno dell'ordine in terra. Agli
occhi dell'uomo medievale, come ho affermato nel paragrafo
precedente, si presentava un'evidenza: un ordine del mondo che
conduceva direttamente ad un Dio ordinatore, per cui �se tale ordine
veniva ricomposto nell'umana ragione, pure essa sembrava ordinare la
realtà. Tale evidenza dell'ordine di Dio in terra veniva percepita dalla
14
D'Agostino, Diritto e secolarizzazione, sta in "Pagine di filosofia giuridica e politica",
Milano pag. 55 e ss
7
ragione unitamente al parimenti evidente disordine del mondo
umano�.
15
Per cui, si pu� sostenere come la pena della retribuzione divina
sia ormai divenuta pena di Stato, nella figura del Sovrano: lo scopo
retributivo della pena �, infatti, in et� moderna, dato per acquisito.
Ci si va spostando verso una concezione della pena che permette
al potere di perseguire dichiaratamente e per conto proprio l'ordine
pubblico attraverso esigenze di difesa sociale: gli scopi general -
preventivo e special - preventivo.
Secondo D�Agostino, la decentralizzazione della
amministrazione della giustizia, offuscando la persona fisica del
"delegato di Dio", fa passare in second'ordine lo scopo retributivo,
ormai dato per scontato nel delegato, onde dar libero corso all'operato
dei suoi funzionari con le loro peculiari interpretazioni di ci� che Dio
vuole per l'uomo.
16
La principale conseguenza, secondo l�autore, � l�affidamento
della pena nelle mani di un ceto, contribuendo a "devitalizzare" la
pena stessa, a trascurare il discorso sulla sua essenza, mettendo in
rilievo, semplicemente, gli scopi che ad essa venivano attribuiti dai
suoi amministratori.
Nell'et� moderna, pertanto, viene delineandosi un catalogo di
scopi della pena, cui il potere pu� attingere sulla scorta di quelle che
sono le sue peculiari esigenze, separandoli ovvero combinandoli (basti
guardare alla contrapposizione tra le teorie assolute -
retribuzionistiche e relative - utilitaristiche della pena che hanno
segnato tutta l�era moderna).
17
15
AA.VV, parte curata da D. Velo Dalbrenta, Pena e riparazione, Cedam, Padova
16
D'Agostino, Le buone ragioni della teoria retributiva della pena, sta in "Iustitia" 1992
17
E. Pessina, Dello svolgimento storico della dottrina dell'espiazione come fondamento del
diritto penale, in "Discorsi varii", Napoli, 1914, pp.106 - 107
8
Analizzer�, dunque, l�evoluzione di alcune teorie sulla pena,
presentatesi in tale epoca, partendo, innanzitutto dalla teoria
retributiva (ancora improntata sul concetto di pena giusta).
Secondo tale teoria, stando a quanto detto precedentemente, il
reo ha violato un comando dell�ordine giuridico: egli merita, dunque,
un castigo e deve essere punito. Questo criterio generale ha assunto
vari atteggiamenti, nel corso dell�era moderna, di cui due sono i
principali orientamenti: la retribuzione morale e la retribuzione
giuridica.
18
I seguaci della retribuzione morale sostenevano che fosse
�un�esigenza profonda e incoercibile della natura umana che il male
venisse retribuito col male, come il bene meritasse un premio�.
19
Poich� il delitto costituisce una violazione dell�ordine etico, la
coscienza morale ne esige la punizione.
La teoria della retribuzione giuridica, invece, affermava che il
delitto fosse ribellione del singolo alla volont� della legge, e come
tale, esigesse una riparazione che valesse a riaffermare l�autorit� dello
Stato. Questa riparazione � la pena.
20
Tradizionalmente, i maggiori sostenitori della concezione
retributiva della pena sono Kant ed Hegel. Vi sono valutazioni
discordanti sull�attribuzione dell�una o dell�altra teoria ai due filosofi.
Per quanto riguarda Kant, M.A. Cattaneo osserva che
�indubbiamente la radice ultima della sua dottrina penale � di natura
retributiva morale; egli sostiene, infatti, la doverosità della
retribuzione penale nel caso di commissione di un delitto, affermando
addirittura che la societ� della popolazione di un�isola, che sta per
sciogliersi, deve tuttavia prima giustiziare l�ultimo assassino ancora
18
D'Agostino F., La sanzione nell'esperienza giuridica, Torino Giappichelli.
19
M.A. Cattaneo, Pena diritto dignità umana (saggio sulla filosofia del diritto penale), G.
Giappichelli Editore, Torino
20
F. Antolisesi, Manuale di diritto penale, Parte Generale, III ed., Milano
9
presente in prigione, affinch� ciascuno riceva ci� che ha meritato�.
21
Tale doverosit� della pena � espressa da Kant con una, molto discussa,
definizione della legge penale come imperativo categorico: per cui, si
assimila un concetto volto a stabilire la doverosit� di un'azione in
quanto buona in se stessa (imperativo categorico), a un concetto volto
ad imporre l'obbligatoriet� di un'azione attraverso il timore della pena
(legge penale). Pertanto, pur nel caso di uno scioglimento concordato
della societ�, l�ultimo omicida che si trovasse in prigione dovrebbe
essere giustiziato: altrimenti il popolo diventerebbe corresponsabile
dell�evidente lesione della giustizia. M. Ronco osserva che �tal
esempio, nella sua paradossalit�, vuol contraddire radicalmente
l�ipotesi contrattualistica posta dagli autori illuministi a fondamento
della pena: questa, rispondendo a un�esigenza indefettibile di giustizia,
dovrebbe trovare applicazione anche nel caso in cui si sciogliesse il
consorzio sociale ove il delitto � stato realizzato. Non l�utilit� della
societ�, in vista della quale il contratto sarebbe stato stipulato,
giustifica la pena, bens� esclusivamente l�attuazione dell�imperativo
categorico imposto dalla giustizia�.
22
La pena, in altri termini,
giustificandosi in se stessa per il suo contenuto intrinseco di giustizia,
legittima il potere che si piega al rispetto del dovere di attuarla nella
concretezza storica.
Kant fonda, di conseguenza, il diritto penale direttamente sulla
morale.
Per quanto riguarda la dottrina di Hegel, questa � stata
presentata come rappresentativa della retribuzione giuridica. Il reato,
per il filosofo, � violazione del diritto: �bench� esso abbia un'esistenza
positiva, � in s� nullo (�) la sua nullit� consiste nell'aver eliminato il
diritto in quanto tale. Se quindi il reato � qualcosa di negativo, la pena
21
M.A. Cattaeno, op. cit.
22
M. Ronco, Il problema della pena (alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione
sulla pena), G. Giappichelli ed., Torino 1996
10
(poich� negazione del reato) � negazione della negazione. La pena �
retribuzione in quanto violazione della violazione, ovvero
restaurazione del diritto violato�.
23
Il colpevole deve essere sottoposto
a pena perch� � la sua volont� che d� consistenza al delitto e che deve
essere soppressa. Si capisce, quindi, che non soltanto � giusto in s�
che il colpevole sia sottoposto a pena, ma pi� ancora che il colpevole
ha un vero e proprio diritto alla pena, poich� essa � gi� implicata nella
sua volont� effettiva, nell�atto compiuto. Con la punizione del
criminale, lo si riconosce come essere razionale che pone la legge nel
momento stesso in cui la viola.
La pena, dunque, nella riflessione hegeliana costituisce la base
del concetto che definisce la realt� del diritto penale. Secondo Hegel,
� la pena che determina l�istituzione penale, e non viceversa, come,
invece, asseriscono le teorie illuministiche dello scopo (teorie relative
o della pena utile).
24
La riflessione dell�autore tedesco ripensa la pena
nella sua relazione di identit� con il fatto antigiuridico, in una
prospettiva in cui �non gli interessi oggettivi di stabilizzazione del
sistema sociale sono primariamente riguardanti, bens� � in questione il
profilo di ingiustizia di un contegno intrinsecamente contraddittorio
poich� fondamentalmente nichilistico�.
25
23
Cattaneo M.A., La filosofia della pena nei sec. XVII e XVIII, Ferrara
24
Hegel G.F.W., Grundlinien der Philosophie des Rechts oder Naturrecht und
Staatswissenschaft im Grundrisse (1820), a cura di M. Riedel, Frankfurt, 1968
25
Ronco M., Il problema della pena: alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione
sulla pena, 1996