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Molti pazienti sono morti, altri hanno smesso di parlare per mesi. Alcuni hanno trovato
ospitalità e protezione nelle case famiglia, altri hanno imparato a fare piccoli lavoretti o
ricamare. Di altri non si è saputo più nulla, né dove siano, né come stiano.
Molti interrogativi appassionanti hanno da allora attraversato la mia curiosità, poi
finalmente, dopo diversi anni da quel periodo, dopo riflessioni, letture, ragionamenti,
confronti, incontri e scontri, è giunta con questa tesi l’occasione di poter testare con me
stessa la fondatezza delle mie convinzioni personali. Per meglio dire: ho iniziato a
scrivere consapevole di avere un giudizio in merito alla questione della appropriatezza
della Legge Basaglia, ma senza essere assolutamente certa se il mio lavoro di ricerca
avrebbe portato alla conferma o alla smentita delle mie convinzioni.
Il tentativo è dare una risposta concreta - poiché basata sull’evidenza dei dati e quindi
asettica da sentimentalismi e concettualizzazioni - all’interrogativo iniziale da cui
questo lavoro prende le mosse: le politiche attuate per dare vita ed organizzazione alla
presa in carico, assistenza, cura e riabilitazione del paziente affetto da malattia mentale
hanno avuto o meno esito positivo? E se no, dove e perché hanno fallito?
Ho ritenuto opportuno iniziare il lavoro cercando di enucleare dal pensiero basagliano il
significato del concetto di salute mentale ed evidenziando come la Legge 180 abbia
creato una frattura con il passato proprio perché nata dalla volontà di agire sulla
dicotomia malattia/salute, facendo prevalere il concetto di salute su quello di malattia,
prevalenza assolutamente inversa rispetto alla storicità.
Pertanto nel primo capitolo - “Dalla de-istituzionalizzzazione della malattia mentale
all’affermazione del concetto di salute mentale” – viene condotto un breve excursus
descrittivo in merito all’evoluzione dei sistemi di cura, fino all’approfondimento, di
maggiore interesse ai fini della ricerca, del concetto di salute mentale nel pensiero
basagliano, le sue implicazioni ai fini della formulazione normativa ed il suo significato
letto in rapporto al contesto sociale di riferimento.
L’attenzione è stata volutamente posta sui concetti derivati di reintegrazione ed
accettazione sociale sia perché realmente prioritari nell’attuazione dell’idea basagliana,
sia perché elementi determinanti nella comprensione reale dell’entità della riforma,
forse della sua utopia.
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Pertanto il nostro viaggio parte da un’immagine: il paziente affetto da malattia mentale
è in mezzo a noi. E procede con una sensazione forse leggermente ansiosa: la sua salute
dipende anche da noi.
Come conseguenza logica di tale premessa teorica, cornice entro la quale attori e
dinamiche sociali compiono le loro azioni, discende la necessità di capire in quale modo
sono stati pensati e adibiti gli spazi, i mezzi e le risorse da destinare alla realizzazione
del progetto dipartimentale di salute mentale.
Con il secondo capitolo ci si addentra dunque nel nucleo tematico portante del presente
lavoro: l’individuazione delle soluzioni intraprese e l’esame dei risultati ottenuti in
applicazione della 180, attraverso un’analisi delle modalità con cui le policies hanno
affrontato la chiusura dei manicomi, evidenziando quali problematiche appaiono risolte
e quali sembrano essere ancora aperte.
L’analisi parte dall’allarme lanciato dagli organismi internazionali in merito
all’espansione esponenziale dei casi di malattia psichica registrati a livello mondiale e
focalizza l’attenzione sul caso italiano, osservando il trend riportato dall’Istituto
Superiore di Sanità relativo al tasso di mortalità della popolazione italiana per cause
psichiche dal 1980 al 2002, tasso che in detti anni è passato da 1,15 decessi ogni
100.000 abitanti a 16,90.
La parte centrale del secondo capitolo è dedicata alla ricerca di dati significativi
riguardanti lo stato di attuazione del processo di costruzione ed organizzazione della
rete di servizi territoriali disciplinato dai Progetti Obiettivo 1994-1996 e 1998-2000.
La ricerca è stata condotta in merito ai tempi di applicazione della Legge Basaglia, alle
strutture realizzate ed al personale dedicato, come rilevati dal Ministero della Sanità
all’anno 2001, ed infine ai finanziamenti stanziati, evidenziando la misura di
raggiungimento dei targets, qualora previsti dalla normativa.
Lo studio sullo stato di realizzazione dei percorsi di cura alternativi messi in atto e
pertanto la riflessione sulla loro efficacia, alla luce dei dati riportati dall’Istituto
Superiore della Sanità sopra ricordati, ha condotto ad ulteriore curiosità e ricerca in
merito alla percezione che gli organismi istituzionali possano avere avuto del problema
in oggetto.
Posti i dati allarmanti diffusi sulla realtà dell’assistenza psichiatrica, come hanno reagito
e verso quale direzione si sono mossi gli attori politici? Da questa questione è scaturita
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la ricerca condotta nel terzo capitolo sui tentativi esperiti di riforma normativa sia in
materia di trattamento sanitario obbligatorio, sia in materia di organizzazione territoriale
dei luoghi di cura e riabilitazione.
Dalla XIV legislatura ad oggi i disegni di legge sono proliferati.
Il lavoro proposto ha cercato di far conoscere i testi ritenuti maggiormente significativi,
( Proposte di Legge “Burani Procaccini”, “Ce’”, “Gubetti”, “Cento”, “Moroni”,
“Bertinotti”, “Carrara”, “Barbieri”) provando a rendere visibile e chiara la linea di
demarcazione che ha inevitabilmente separato, nella formulazione delle proposte di
legge, la posizione e l’intenzione dei riformisti dei partiti del centro destra da quelli del
centro sinistra.
Per dirla un po’ alla buona: chi vuol cambiare cosa.
Dalla lettura ne deriva una conferma in parte deludente, in parte prevedibile,
dell’impasse operativo e creativo che ha caratterizzato quasi tutto il trentennio che
ormai ci separa dall’emanazione della Legge 180. Le posizioni risultano cristallizzate e
non addivengono ad un punto di incontro. La revisione estrema ed involutiva da una
parte, la mancanza di coraggio nell’accettare la mancanza di un contesto sociale maturo
dall’altra.
Il quarto capitolo, invece – “l’Italia e l’Europa. Percorsi a confronto” - è dedicato
completamente alla scoperta della legislazione attuale in materia di assistenza
psichiatrica in alcuni Paesi dell’Unione Europea ed alla estrapolazione e rielaborazione
comparata di dati pubblicati all’inizio dell’anno corrente dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità, riguardanti ospedalizzazione e decessi per causa psichiatrica.
Il tentativo è stato quello di far emergere l’esistenza o meno, nei Paesi europei, di una
tendenza dominante, sia normativa che fattiva, in merito all’utilizzo del ricovero, o più
specificatamente del ricovero ospedaliero, quale soluzione primaria per fronteggiare
l’emergenza. Il dato ricavato da ogni Paese studiato è stato poi messo a confronto con il
tasso di mortalità rilevato per cause psichiche, al fine di poter, seppur certo
parzialmente, misurare il livello di arginamento del problema e di efficacia delle
policies.
Infine con il quinto ed ultimo capitolo siamo tornati in territorio esclusivamente italiano
ed è stata illustrata la realizzazione dei lavori preparatori alla stesura del nuovo Progetto
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Obiettivo 2008 effettuati dalla Commissione “Consulta per le Associazioni della Salute
Mentale”, istituita ad hoc all’inizio dell’anno 2007 presso il Ministero della Salute.
Ho ritenuto importante soffermarmi e rendere noto questo tentativo, operato oltre che da
esponenti politici e medici anche da membri di associazioni di volontariato e familiari,
perché, attraverso lo svisceramento di quattro obiettivi prioritari (Obiettivi di cura: presa
in carico con risposta all’intera domanda di salute mentale; risposta all’emergenza
urgenza, riabilitazione e trattamento prolungato, studi quali-quantitativi dei drop-out e
degli insuccessi terapeutici; Obiettivi di salute: prevenzione, analisi del sommerso,
centri di ascolto; Obiettivi di qualità: accreditamento istituzionale, carta dei servizi,
indicatori sull’attività del DSM, formazione permanente degli operatori; Obiettivi di
economicità: valutazione della sostenibilità organizzativa di programmi e progetti,
razionale utilizzo delle risorse umane e strutturali) sembrava portare un progetto
concreto e condiviso, non unilaterale, non cieco, sembrava poter riuscire a superare
l’immobilismo delle parti contrapposte ed affrontare senza maschere le criticità emerse
e dilagate nel tempo.
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CAPITOLO 1
1.1 Dalla de-istituzionalizzazione della malattia mentale all’affermazione del
concetto di salute mentale.
La storia degli spazi destinati ai folli è la storia del percorso evolutivo, medico e sociale,
compiuto dall’assistenza psichiatrica: storia di stanze recintate e porte chiuse, storia di
nuovi ambienti luminosi e porte aperte, storia di celle nascoste e pratiche depravate,
storia di luoghi pubblici e rete di servizi.
Questi spazi sono stati via via trasformati per soddisfare le esigenze delle istituzioni;
nella loro destinazione d’uso si legge un percorso d’intenti: “ambienti con impianti per
l’idroterapia, colonie agricole e laboratori artigiani insieme a sale ricreative e spesso il
teatro, quando era la terapia morale a prevalere, fatta di lavoro, ma anche di svago
secondo il concetto della rieducazione del paziente; sale chirurgiche negli anni
Cinquanta quando, per fortuna limitatamente, a seguito della scoperta dell’angiografia
cerebrale nel 1936, si fece strada la psicochirurgia, poi neurochirurgia, avendo la
fisiopatologia evidenziato la funzione del lobo prefrontale nella regolazione dei processi
emozionali e della vita psichica: reparti esclusivi per idioti e imbecilli o per clamorosi
quando prevaleva la divisione degli alienati in degenerati inferiori, medi, superiori che
richiedevano cure e luoghi di ricovero specifici a seconda delle anomalie di carattere.”
(AA.VV, 2007: 16). Camere per elettroshock. Celle di isolamento per i matti furiosi. Le
stanze anatomiche. Le camerate. I letti destinati all’osservazione dello shock insulinico.
“Certamente i farmaci ad azione psicotropa hanno rivoluzionato dagli anni Cinquanta il
trattamento della malattia mentale e quindi anche la stessa organizzazione manicomiale,
[…], l’evoluzione della ricerca farmacologica è stato uno dei motivi della
trasformazione progressiva dell’ospedale psichiatrico verso strumento di riadattamento
sociale e di guarigione, non strumento che agevolava la cronicità” (ibidem) poiché, quasi
contemporaneamente all’avvento degli psicofarmaci e, pertanto ad una mitigazione e
sedazione dei comportamenti dei malati, si iniziò a pensare che “lo squallore, la povertà
di stimoli, la degradazione e la violenza delle istituzioni psichiatriche producevano seri
danni psicologici nei ricoverati.” (Corbellini e Jervis, 2008: 41).