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Sono questi gli interrogativi che dominano questo lavoro di tesi e che ultimamente
regnano nei fatti di cronaca, suscitando l’interesse dell’opinione pubblica e del mondo
dei media.
Dunque, l’obiettivo che viene proposto è quello di analizzare l’infanticidio secondo
prospettive e punti di vista diversi, non con la pretesa di dare risposte definitive e
certe, ma con l’intento di indagare e cercare di comprendere le motivazioni, i vissuti, i
profondi, nascosti e a volte, perversi percorsi, che spingono tali donne a compiere un
simile gesto.
Nel primo capitolo, dopo un’analisi giuridica, viene proposto un esame antropologico
del fenomeno per rendersi conto di quanto tale delitto sia frequente tra gli animali e, di
come, dal punto di vista storico, in passato, ed anche attualmente, in molte civiltà,
l’infanticidio, non solo era ed è tollerato, ma in alcuni casi era ed è incentivato da
valori sociali e culturali.
Ma comprendere il fenomeno implica innanzitutto lo studio della gravidanza e dei
cambiamenti che questo periodo comporta in alcune principali aree, così come
descritto nei capitoli secondo e terzo, : la relazione di coppia e con la famiglia
d’origine, l’immagine corporea, l’attitudine materna, le fantasie rispetto al bambino
che arriverà, la presenza di eventi traumatici che in questa fase possono riattivarsi.
Nel quarto capitolo vengono, a tale proposito, presentati due strumenti di indagine,
l’IRMAG e il DSSVF, utili ad indagare il sistema di rappresentazioni che accompagna
l’evento nascita a partire dalle prime fasi della gravidanza. Il legame con il feto,
infatti, durante la gestazione si forma in modo analogo a quanto avviene nella
relazione madre-bambino dopo la nascita. Questo processo è catalizzato
dall’esperienza dei movimenti fetali, che rappresentano per la madre il segnale della
vitalità del feto e della sua reale esistenza.
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La maternità si apre, quindi, al futuro come tappa evolutiva perché un’altra
generazione è nata, ma contemporaneamente, assume una valenza regressiva che
rimette in questione i fondamenti costitutivi dell’identità femminile (Ammaniti, 1995).
Le motivazioni che sottendono per una donna al desiderio di maternità sono svariate;
alcune sono di natura sociale e culturale, altre ripercorrono le strade
dell’identificazione della donna con la propria madre, il bisogno di confermare la
propria identità sessuale o ancora la rivalità verso le altre donne. Per una donna capace
di integrare questi aspetti, la gravidanza è uno stato di pienezza di sé (Nicolò,
Zampino, 2002).
Sono state descritte alcune alterazioni di questo processo che non appartengono a
quadri psicopatologici precisi, ma si riferiscono alle situazioni di diniego della
gravidanza ed a condizioni in cui la madre vive il feto come un intruso ed un elemento
di disturbo sia fisico sia psicologico.
“Mamme nella cui testa scatta un meccanismo di follia” dice lo psichiatra Claudio
Mencacci, primario del “Centro depressione donna” della Macedonio Melloni, unica
struttura in Italia a occuparsi di questa patologia.
Si sentono inadeguate, incapaci di crescere quel figlio; allora, a poco a poco,
elaborano una visione di rovina totale per sé e per il bambino (Mencacci, Anniverno,
2005), che le spinge a compiere il delitto.
L’attenzione viene, dunque, focalizzata, nei capitoli quinto e sesto, sugli aspetti
psicologici personali concernenti le madri che uccidono i propri figli, esplorando il
tema della criminalità femminile e proponendo una classificazione delle motivazioni
al delitto.
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Dal punto di vista psicologico sono stati descritti diversi casi esemplificativi dei
possibili disturbi correlabili al fenomeno dell’infanticidio e che nella maggior parte
delle situazioni sono collegabili a manifestazioni depressive e a psicosi puerperali.
Sono state, inoltre, individuate alcune situazioni conflittuali legate alla gravidanza:
una di esse si verifica, quando questa non è desiderata, è inopportuna o avviene in un
momento sbagliato per la donna e per la coppia; quando la gravidanza è complicata da
problemi fisici, socioeconomici o da eventi traumatici che possono rendere la donna
ansiosa e insicura; quando la gravidanza è sottovalutata o sopravalutata a causa di
esperienze precedenti della donna o della sua famiglia.
Nella parte finale viene proposta un’analisi del comportamento della madre infanticida
in seguito al delitto, prestando attenzione alla descrizione delle numerose variabili alla
base della confessione dell’atto criminoso; sono tratteggiati, inoltre, i rapporti con i
familiari, con gli altri figli, con le persone che devono giudicare, custodire o curare per
potere programmare il reinserimento e la riabilitazione. A tal proposito si è
evidenziato il ruolo dello psicologo nella fase di presa in carico e, successivamente, di
intervento e progettazione all’interno di una rete ampia in cui le diverse figure
professionali operino attraverso la prevenzione.
Spesso si tratta di donne troppo sole, perché dopo il parto c’è il vuoto. Il pediatra si
occupa del bambino, il marito è al lavoro, i familiari e le amiche sorridono al bebè. E
in questa società già di suo poco attrezzata verso la maternità molte donne scoprono di
sentirsi fragili e incapaci di chiedere aiuto (Mencacci, Anniverno, 2005).
Dunque, la prospettiva che viene proposta in questo lavoro evidenzia la necessità di
richiamare alcuni dei principali problemi e delle conoscenze attuali sul tema assai
complesso di uno tra i delitti di sangue che più colpiscono l’immaginario collettivo e
che crea difficoltà di diagnosi psichiatrica e di terapia per le madri che hanno ucciso il
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proprio figlio e delle quali, spesso e con certezza accusatoria, si afferma: “Non può
essere stata che lei”.
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CAPITOLO 1:
FIGLICIDIO E INFANTICIDIO
“…E’ come avere una mosca che, ronzando, rimbalza continuamente da una parte
all’altra del cervello. Non riesci a pensare ad altro e attorno a te c’è una nebbia fitta
che non ti permette di vedere nulla…Il pensiero, quando sei depressa, è un’ossessione
che non ti da tregua. Ed io, in quel momento, ho pensato che se mi fossi uccisa avrei
risolto ogni problema. “Ma non posso lasciare i bambini da soli”, mi dicevo: “così
piccoli non possono restare senza mamma”. Avrei dovuto uccidere anche loro…”
Queste sono le parole di una donna che soffre di depressione puerperale grave,
Ginevra, 34 anni, mamma di due bambini di 2 anni e mezzo e 14 mesi. Descrivendo il
suo disturbo, dice: “E non si venga a dire che non si vede: non dormi più, smetti di
mangiare oppure mangi pochissimo. Hai forti alti e bassi: a momenti di euforia si
alternano giorni in cui non ti vuoi vestire, non ti lavi i capelli per settimane, piangi,
piangi e piangi… Sei pallida, gli occhi spenti, sei trasandata, non ti curi, di solito sei
troppo magra o grassa… Hai sensi di colpa e non ti senti all’altezza, non sei in grado
di fare nulla...” (“Ho pensato di uccidere i miei figli.” di Daniela Condorelli, articolo
pubblicato su “D”, inserto del quotidiano “La Repubblica”, del 28 Settembre
2002).
Uccisi nei propri lettini, soffocati in auto con il gas di scarico o da un cuscino, gettati
da un balcone come fossero di carta, accoltellati, strangolati, annegati dentro ad una
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lavatrice, oppure nel fondo di un lago nero come gli abissi della depressione, della
solitudine o della rabbia più profonde.
Samuele, Matteo, Davide e tutti gli altri ancora. La cronaca ci consegna i nomi di
queste piccole vittime con scadenza che sconcerta e lascia ormai senza più parole.
29 Giugno 1995: una nobildonna fiorentina uccide il figlio di cinque anni nella casa di
famiglia, nel cuore di Firenze, tagliandogli la gola. Poi tenta il suicidio. Sarà assolta in
appello, che l'ha giudicata non imputabile per vizio totale di mente quando commise
l'omicidio.
29 Aprile 1997: a Foggia, Anna Maria Colecchia, 35 anni, che soffriva da tempo di
crisi depressive, strangola i due figli di 5 e 8 anni, poi mette i loro corpi su un lettino
con le mani congiunte, e si uccide impiccandosi.
30 Agosto 1997: a Montecassiano (Macerata), Maria P., 37 anni, uccide i due
figlioletti, un maschio di tre anni e una femmina di sei, strangolandoli e annegandoli.
Poi si uccide impiccandosi con una corda ad una ringhiera.
2 Aprile 1999: a Prato (FI), una donna di 33 anni si getta dal quarto piano con una
bimba di due anni in braccio. Muore solo la donna.
18 Dicembre 1999: A Brescia, Marisa Pasini, 36 anni, uccide il figlio di 3 anni
Giorgio, gettandolo nelle acque gelide del fiumiciattolo Chiese in piena.
31 Gennaio 2000: A Padova, vengono trovati morti, nella loro abitazione, Isabella
Pasetti, 33 anni, e il figlioletto di tre anni e mezzo. Sul posto, è stata trovata una lettera
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della madre, in cui si annuncia l'intenzione di togliere la vita a se stessa ed al suo
bambino, e si fa riferimento ad una forte depressione dovuta a dissapori familiari.
21 Febbraio 2000: a Mestre (VE), una donna di 30 anni muore assieme alla figlia di
due mesi dopo essersi gettata dal sesto piano del palazzo in cui abitava con il marito.
11 Agosto 2000: a Castel del Sasso (Caserta), Anna Pendolino, una maestra di 36 anni
in crisi depressiva, si uccide con le tre figlie di sei, due e un anno, saturando l'interno
della macchina con i gas di scarico.
14 Settembre 2000: A Napoli, Carmen De Filippo, 29 anni, immediatamente dopo
aver scoperto che sua figlia è caduta dal sesto piano, si getta nel vuoto stringendo tra le
braccia la figlia più piccola.
16 Novembre 2000: A Sedriano (MI), prima di uccidere la bimba che aveva appena
partorito, infilandola ancora viva in uno zaino e nascondendolo poi sotto il letto della
nonna, una donna ha preso una cucitrice e ha riempito di spille le labbra della neonata
in modo che il suo pianto non si sentisse.
23 Gennaio 2001: A Statte (TA), una casalinga di 27 anni, ha ucciso il suo bambino di
2 mesi premendogli il cuscino sul volto.
19 Aprile 2001: a una trave del soffitto A Indago (MI), una donna ha soffocato il suo
bimbo di 19 mesi e poi si è impiccata a una trave del soffitto.
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20 Giugno 2001: In Texas, una donna di 36 anni, che soffriva di una grave
depressione, ha ucciso i suoi 5 bambini, che avevano dai 6 mesi ai 7 anni, affogandoli
nella vasca.
29 Giugno 2001: a Cretone, una frazione di Palombara Sabina (RM), una donna
macedone di 36 anni, sposata con un italiano, colta da un raptus, uccide con 30
coltellate i suoi due figli, di 6 e 5 anni.
2 Dicembre 2001: a Vittuone (MI), una donna di 40 anni uccide la figlia di 7 anni,
infilandole un sacchetto di cellophane sulla testa e stringendoglielo al collo con i suoi
collant di nylon.
12 Maggio 2002: a Madonna dei Monti, frazione di Santa Caterina Valfurva (SO), una
donna di 31 anni uccide la figlia di 8 mesi mettendola nella lavatrice alla quale fa
compiere un ciclo di lavaggio.
17 Maggio 2002: a Imola (BO), una donna di 34 anni uccide a coltellate la figlia di 7 e
si suicida usando la stessa arma, un coltello da cucina.
3 Giugno 2003: Herika Rebelo strangola e poi affoga in un water dell'ospedale di
Desio (MI) la figlia di tre mesi, ricoverata il giorno prima per una caduta dalla
carrozzina. “Ho ucciso il mostro” ripete la donna fuori di sé.
25 Settembre 2003: a Fasano, Maria Semeraro, casalinga di 32 anni, ha ucciso a
coltellate il proprio figlio di quattro anni e ha poi tentato di suicidarsi, senza riuscirvi.
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Circa quattro mesi prima, era morta per cause naturali la sorellina gemella del piccolo
e, da quel momento, la donna non si era più ripresa.
24 Febbraio 2004: a Melbourne, un’australiana di 25 anni è stata accusata
dell'omicidio di quattro dei suoi cinque figli nell’arco cinque anni.
25 Novembre 2004: a Siena, una giovane studentessa universitaria di 19 anni, ha
ucciso il figlio, appena partorito, e lo ha tenuto rinchiuso in una valigia di tela per
circa 15 giorni.
7 Gennaio 2005: a Bari, la piccola Eleonora, di 16 mesi, muore di fame e di sete
perchè non veniva adeguatamente nutrita da un paio di mesi. Lo stomaco della piccola
è stato trovato vuoto.
20 Settembre 2005: a Biella, una donna bulgara di 34 anni, dopo aver partorito da
sola in casa, ha nascosto il neonato in un mobile da bagno.
21 Aprile 2006: a Napoli, una ragazza 25enne ha partorito nel bagno della propria
casa i suoi due gemellini. La donna era solo al sesto mese di gravidanza: si è trattato di
un parto prematuro. Poi non si capisce per quale ragione, ha gettato i due piccoli feti
nel water dell’abitazione dei genitori. La donna ora è accusata di infanticidio.
1 giugno 2006: a Treviso, il corpo di un neonato e' stato trovato in una casa. La
madre, il convivente e una parente sono agli arresti. I militari sono stati avvertiti dai
medici dell'ospedale di Castelfranco Veneto (Treviso) ai quali si era presentata una
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donna che accusava forti dolori al ventre. I carabinieri, sulla base delle informazioni
acquisite, hanno fatto un controllo nella casa della donna, immigrata regolare in Italia,
trovando il corpicino nascosto.
12 Settembre 2006: a Venezia, una mamma di 32 anni, cinese, ha tentato di uccidere
la figlia annegandola in una bacinella: i carabinieri sono riusciti a salvare la neonata ed
hanno arrestato la donna.
1.1. Definizione e aspetti giuridici
Con il termine di figlicidio si indica l’uccisione del figlio da parte di un genitore, sia il
padre che la madre.
Il codice penale italiano non contempla il figlicidio, ma l’infanticidio e l’omicidio.
L’infanticidio è, secondo l’articolo 578 del codice penale, “la procurata morte del
neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto da parte della propria
madre, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale
connessi al parto ed è punito con la reclusione da quattro a dodici anni”.
Nel concetto, quindi, di infanticidio, così come previsto dal codice penale, la parte
attiva che procura la morte è data dalla madre, l’uccisione è in persona di un neonato
nell’immediatezza del parto e l’evento criminoso deve essere in relazione con un
abbandono materiale e morale dell’autore del delitto (Nivoli, 2002). I genitori che
uccidono i propri figli al di fuori della precisa condizione dell’infanticidio saranno
colpevoli di omicidio secondo l’articolo 575 del codice penale che afferma: “Chiunque
cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ai ventuno anni”.
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Diverse pene quindi, per simili delitti, la cui unica sottile differenza si basa sull’età
della vittima. In base all’età dei figli l’assassinio prende il nome di neonaticidio (entro
24 ore dal parto) e infanticidio (fino ad un anno di vita). Il termine figlicidio è
riservato a bambini di età compresa tra un anno e diciotto anni ed esso viene spesso
utilizzato nel senso di infanticidio.
La morte violenta di un bambino genera sempre profondo sgomento nella collettività e
in principio generale questo viene a cozzare violentemente con la cultura dei diritti del
minore che con tanta fatica si cerca di diffondere.
Dal punto di vista teorico molto è stato fatto per riconoscere l’infanzia come categoria
autonoma, con esigenze e problematiche svincolate da quelle degli adulti, tuttavia
appare evidente come nella realtà molto ancora deve essere fatto per garantire, in
modo particolare ai bambini in condizione di indigenza o di deprivazione, un’esistenza
più serena.
In questi ultimi anni più che in passato, abbiamo assistito al dilagare di una serie di
omicidi che si sono verificati in ambienti familiari, in luoghi domestici, e per mano di
chi è culturalmente e geneticamente programmato per proteggerlo e accudirlo.
Dai dati si segnala che in Gran Bretagna, dal 1977 al 1986, il 15% di tutte le vittime di
omicidio era rappresentato dai bimbi al di sotto dei sedici anni; i bimbi al di sotto
dell’età di un anno rappresentavano un gruppo di vittime a più alto rischio, con 34
omicidi per milione di persone, in relazione al rischio medio di 12 omicidi per milione
di persone (Home Office, 1987).
La maggior parte delle vittime al di sotto di un anno risultava uccisa dalle loro madri
(Gibson, 1975).
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In Italia, secondo un’indagine ISTAT a tutti gli omicidi volontari compiuti sul
territorio nazionale nel 1998, per un totale di 670 casi, 128 risultano essere omicidi
effettuati in famiglia; di questi il 17% è rappresentato da casi di figlicidio.
Analizzando i dati ISTAT emerge che il sesso dei figli uccisi è equamente distribuito;
i figli uccisi dai genitori in genere hanno meno di 25 anni, e in molti casi risultano
affetti da handicap.
L’analisi del livello sociale mostra, considerando gli omicidi in famiglia da un punto
di vista generale, che questi prevalgono nei livelli sociali bassi (48% dei casi); nella
maggior parte dei casi si tratta di donne non coniugate, aventi un’età compresa tra i 21
e i 28 anni (Paoloantonio, 2000).
È verosimile che questi dati statistici ufficiali siano nettamente inferiori alla quantità
reale di figlicidi commessi. Ad esempio molti decessi di bimbi catalogati come
“incidenti”, “disgrazie” possono in realtà nascondere dei progetti omicidari di madri (
o padri) che hanno compiuto un omicidio per omissione con gravi e volontarie carenze
di cure e di attenzioni (bimbi che “si soffocano in culla”, che “cadono” dalla finestra
ecc.).
1.2. Figlicidio e infanticidio nel mondo animale
L’uomo tra i viventi occupa il primo posto tra gli assassini intraspecifici: l’uomo che
uccide l’uomo. L’homo homini lupus è una mancanza di rispetto nei confronti dei
canidi e del loro senso di rispetto della vita all’interno del gruppo (Andreoli, 2002).
Tuttavia anche tra gli animali i neonati e i cuccioli possono essere uccisi dalla propria
madre. Ricordiamo ad esempio, le forme di “cannibalismo” della cagna che può
uccidere e mangiare i propri piccoli.