Per comprendere meglio il concetto a cui ci si riferisce, vale la pena
fare un rapido confronto tra quanto avveniva in passato rispetto alla
collocazione lavorativa e quanto invece avviene oggigiorno.
I nostri padri ad esempio, tranne naturalmente per quei periodi
funestati da problematiche di carattere universale, come durante le
Guerre Mondiali, quando, ovviamente, oltre ad una precarietà
lavorativa faceva da contro altare una profonda crisi economica e
sociale, causate dalle conseguenze dei periodi bellici, avevano
abbastanza chiari davanti a loro quali fossero gli iter da percorrere per
conseguire e mantenere una certa attività lavorativa: il completamento
delle scuole allora esistenti, i concorsi pubblici, o i corsi di
avviamento al lavoro, e quindi il mantenimento, fino alla scadenza
naturale, del proprio posto di lavoro. Per alcuni di loro si aprivano
anche possibilità di evoluzione previste dalle “carriere interne”, ma in
ogni caso si era abbastanza certi di poter mantenere se stessi e le
proprie famiglie con il proprio lavoro, continuando a svolgere per
decenni le stesse mansioni nel medesimo posto.
Oggi, come già detto, le grandi trasformazioni non consentono più un
“continuum” lavorativo, anzi la parola continuità è andata via via
perdendo senso, persino nel campo dell’istruzione, dove per anni
6
aveva significato una certa stabilità, anche se purtroppo, non sempre
in accezione positiva.
Attualmente, invece, ogni giorno può essere quello buono per veder
cambiare la propria situazione lavorativa, sia attraverso un
avanzamento di posizione nel caso di flessibilità verticale, sia
attraverso il cambiamento del luogo di lavoro, alle stesse condizioni
contrattuali, nel caso di flessibilità orizzontale. All’inizio di questa tesi
si è fatto cenno alla pluricollocazione simultanea di soggetti, si è
voluto, cioè, fare riferimento anche ai molteplici settori entro i quali
la personalità e la professionalità dell’individuo possono e devono
trovare il terreno adatto a svilupparsi.
La flessibilità è il risultato della formazione di personalità di tipo
“open-minded” per le quali, ad un’incertezza continua sui luoghi e
sugli spazi, deve contrapporsi la certezza sulle proprie “competenze
certificate”.
Questa risposta non può che venire da un sistema in cui l’individuo
vede continuamente aprirsi davanti a sé occasioni di qualificazione e
di riqualificazione del proprio patrimonio conoscitivo ed
esperienziale, in una sola parola quindi in una “lifelong learning
society”.
7
Questa concezione di società si basa essenzialmente sulla possibilità
di continuare a formare e a formarsi durante tutto il corso della propria
vita, per l’appunto, e questa ipotesi si può concretizzare solamente
attraverso il contributo professionale e tecnico di chi deve poter
formare, da un lato, e la richiesta di essere formati, dall’altro.
Per poter, quindi, aspirare alla realizzazione di una realtà quale quella
descritta, c’è bisogno che fondi, mezzi, strutture e organizzazioni
trovino ragione di operare e, non ultime, siano disponibili anche le
indispensabili fonti di finanziamento.
In una sola parola c’è bisogno che nei Piani di Spesa nazionali
vengano previsti sempre più fondi e agevolazioni da trasferire verso il
settore della Ricerca e della Formazione.
In Italia, purtroppo, come è ben noto non viene lasciato ampio spazio
a questi due ambiti, questa “empasse” provoca tutta una serie di
conseguenze a catena quali, tanto per citarne alcune, quella della bassa
competitività del nostro Paese in relazione alla cosiddetta “Alta
Formazione” rispetto agli altri Paesi dell’ UE in primis, e per i
soggetti formati, la conseguente ricaduta negativa sia sulla
realizzazione delle loro carriere professionali, riguardo alla
8
spendibilità del titolo di studio universitario, sia sulla difficile e
spesso tardiva entrata nel mondo del lavoro.
Il processo non si arresta qui, purtroppo, le conseguenze appena
accennate subiscono una trasformazione e generano al pari delle
prime, tutta un’altra serie di problemi di natura socio-economica, che
ogni giorno vediamo affrontare dai quotidiani o dalle pubblicazioni di
settore.
Dati assai allarmati ci parlano di abbandoni scolastici a vari livelli,
fuga dei cosiddetti “cervelli” dalle nostre Università o dai Centri di
Ricerca, disoccupazione e crescente difficoltà per la creazione di
nuovi nuclei familiari.
Queste implicazioni finiscono con offrire alla già ampia problematica
descritta, anche una connotazione sociologica oltre che economica, di
difficile soluzione.
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PARTE PRIMA
“CAMBIAMENTI EPOCALI”
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CAPITOLO I
GLI SCENARI ATTUALI DELL’OCCUPAZIONE
1.1 Cosa è cambiato e come
Molte indagini, effettuate da società accreditate, ci forniscono ogni
anno dati allarmanti “sull’occupabilità”, oltre che sull’occupazione
dei giovani, e/o di coloro che si riaffacciano al mondo del lavoro dopo
un periodo di lontananza.
Non va dimenticato, in questa disamina, anche il coro disperato o
forse ormai rassegnato di coloro, che sono costretti a svolgere lavori
assolutamente dequalificanti sia dal punto di vista qualitativo, che
remunerativo, malgrado il possesso di uno o più titoli universitari.
Malauguratamente, accade che, spesso i percorsi di studio offerti ai
giovani risultino “inadeguati” dalle imprese, che si trovano così a
dover assumere “giovani” laureati non solo privi di esperienze
11
lavorative, ma anche ritenuti, a torto o a ragione, inadatti a fornire un
immediato e proficuo apporto al processo produttivo.”
2
Quale deve essere il contenuto delle azioni di formazione e quali le
competenze da dover acquisire sono le domande da porsi a questo
punto.
Questo approccio alle due importanti tematiche sarà offerto nelle
pagine seguenti, nelle quali si partirà da un possibile riferimento
storico, per arrivare alla concezione attuale di Formazione che, a
differenza dell’istruzione, non ha confini di tempo, poiché può
prodursi durante tutto l’arco di una vita, né di spazio, poiché si
considerano oramai “spazi formativi” anche situazioni e luoghi
cosiddetti “informali”.
1.2 L’idea di Formazione nel tempo
Bisogna fare un percorso a ritroso, almeno fino ai tempi di Max
Weber padre della Sociologia, per trovare i germi dell’importanza
della Formazione.
2
M. Tiraboschi, M. Sacconi, “Un futuro da precari?”, Milano, Mondatori, 2006
12
Egli aveva ben presto compreso l’importanza della formazione delle
figure professionali, soprattutto di quelle che sarebbero state chiamate
a svolgere funzioni delicate e di alta responsabilità all’interno di
organizzazioni burocratiche.
Il limite di tale visione, che rappresentava, tuttavia, un importante
momento innovativo nella crescente razionalizzazione burocratica del
suo tempo, è stato individuato, qualche tempo dopo, nel fatto che la
formazione proposta da Max Weber non prendesse assolutamente in
considerazione due fattori essenziali:
primo i mutamenti continui della realtà; secondo la possibilità di
prevedere un percorso formativo a più ampio spettro.
In poche parole la formazione “weberiana” considerava la realtà con
una certa staticità, fatto quanto mai improponibile per una realtà
sempre più contraddistinta e scandita dalle inarrestabili innovazioni
scientifiche e tecnologiche; inoltre essa non considerava una
conseguente obsolescenza delle competenze e un crescente bisogno di
riqualificazione da parte dei soggetti interessati.
Negli ultimi decenni del secolo appena trascorso, il proliferare delle
proposte formative da parte dei vari soggetti interessati, e la crescente
richiesta avanzata da un’utenza sempre più numerosa, giustificano il
13
fiorire di pratiche formative quali stage, seminari, conferenze,
convegni e reti elettroniche; anche se è ormai dimostrato, che l’offerta
non riesce a coprire la quantità della richiesta, soprattutto di una
tipologia di richieste sempre più specifiche e professionalizzanti. Tra
le varie risposte che la Formazione deve oggi poter dare circa “il cosa
e il come” formare, c’è però una cosa che deve assolutamente
evitare, vista l’esperienza del passato, divenire un addestramento
troppo specifico, per evitare l’inconveniente messo in luce da R.
Merton, secondo il quale, questa tipologia di formazione pre-
lavorativa conduce il soggetto verso una sorta di “incapacità
addestrata”
3
.
“Anche le burocrazie pubbliche, notoriamente più rigide e diffidenti
verso il cambiamento, sono sempre più investite da innovazioni che
obbligano a ripensare dalle radici il modo di lavorare e di porsi in
contatto con il pubblico: basti pensare all’ingresso dell’informatica e,
in Italia alla rivoluzione portata dall’autocertificazione… concetti
come formazione permanente, gestione delle risorse umane, learning
organization, lifelong learning, circolano ormai nel linguaggio
comune e testimoniano la trasformazione avvenuta nel considerare il
3
R. Merton 1949, tr. It. 1966, p. 320, in G. Bonazzi ( a cura di ) “Come studiare le
organizzazioni”, Il Mulino Bologna, 2006
14
rapporto tra il lavoro svolto e la preparazione specializzata per poterlo
svolgere.”
4
Il senso del lavoro nell’accezione pedagogica di “spazio di
educabilità” potenziale della persona verrà trattato nel capitolo IV del
presente lavoro, dedicato alla Pedagogia del lavoro.
1.3 Gli itinerari percorribili
Fortunatamente all’interno dei nostri Atenei vi è ora, più che in
passato, una presenza maggiore di docenti con provate e aggiornate
esperienze tecniche oltre che, con l’indispensabile patrimonio
culturale, pertanto quanto di buono ne viene dipende in larga misura
dall’iniziativa di queste “menti”.
Tuttavia nella stragrande maggioranza dei casi, visti i dati risultanti
dalle numerose statistiche del settore, si potrebbe facilmente
concludere che quanto previsto dai parametri della “Strategia di
Lisbona del 2000”
5
, cioè “fare dell’Europa l’economia basata sulla
conoscenza più competitiva e dinamica del mondo in grado di
realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori
4
G. Bonazzi, “Come studiare le organizzazioni”, Il Mulino, Bologna 2006
5
Vedere nota – “Strategia di Lisbona”
15
posti di lavoro e una maggiore coesione sociale entro il 2010”
6
, non
sia stato neanche minimamente sfiorato, almeno alla data di
elaborazione di questa tesi.
Secondo il parere della Commissione Europea, in effetti, per poter
stare al passo con la spesa complessiva dei colleghi di oltre Oceano,
l’Europa dovrebbe incrementare la propria disponibilità economica
nei riguardi dell’istruzione, della formazione e della ricerca di almeno
150 miliardi di euro in più per ogni anno.
Il vero problema è che l’istruzione terziaria europea continua a fare
affidamento quasi esclusivamente su fondi pubblici
7
che sono sempre
più limitati, mentre nei paesi concorrenti uno sviluppo più vigoroso,
durevole e concreto è stato consentito da una maggiore varietà di fonti
di finanziamento, con contributi molto più elevati da parte delle
imprese, ma anche dei privati.
8
A questa tesi, si aggiunge quella di coloro che, come A. Bulgarelli,
ritengono che la soluzione del problema non si trovi meramente in
una intensificazione degli investimenti, bensì in una vero e proprio
6
Vedere nota - “Strategia di Lisbona”
7
Cfr. G. Psacharopoulos “Public versus private: University systems, Journal of Institutional
Comaparison, 4/2004, in M. Tiraboschi (a cura di), vol. Cit.
8
Commisione Europea 2005a “Mobilising the brainpower of Europe, enabling university to make
their full contribute to the Lisbon strategy” 20/04/2005 in, G. Psacharopoulos, ivi
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