4
la fosca vicenda della sua morte, ancora oggi in apparenza un rompicapo, ma di fatto
inequivocabile, se si esaminano gli avvenimenti con dovizia di particolari.
Ovviamente la vicenda di Gaetano Bresci sarà trattata nell’ambito di un quadro storico,
politico, economico e sociale ampio e multidimensionale: si partirà dalla situazione
italiana all’epoca di Umberto I, spaziando sulle repressioni e sulle rivolte, sui principali
attentati e attentatori dell’ultimo decennio dell’800, fino ad arrivare agli anarchici
italiani nel New Jersey, senza trascurare le principali correnti (anarchiche) di pensiero
che in un modo o nell’altro s’intrecciarono con le convinzioni ideologiche e politiche di
Bresci e degli altri soggetti coinvolti.
La biografia di Bresci, invero, non è ricchissima di avvenimenti: in effetti i fatti salienti
(cioè rilevanti ai fini di questa analisi) sono concentrati negli ultimi mesi della sua breve
esistenza: da ciò l’importanza di non trascurare molti dettagli che a prima vista
potrebbero apparire superflui alla trattazione. Inoltre si cercherà di cogliere quelle che
furono le conseguenze a medio e lungo termine relative al gesto di Bresci: conseguenze
piuttosto importanti e rilevanti che segnarono alcuni cambiamenti per la politica e le
istituzioni del tempo.
L’analisi del regicidio di Monza (ma anche degli altri attentati), dal quale ci separano
ormai più di cento anni, costituisce pure un utile spunto per far riflettere il lettore su
temi che proprio ai giorni nostri si ripresentano sotto i nostri occhi in tutta la loro
drammaticità, come l’eversione terroristica contro le istituzioni e il terrorismo
insurrezionalista: ovviamente tale dibattito verrà solo sfiorato (poiché esulerebbe dai
fini di questo lavoro), ma l’auspicio è che il lettore, autonomamente, con una sua
riflessione personale, riesca davvero a cogliere le tante differenze o le – eventuali –
analogie che separano gli attentati e gli attentatori di ieri da quelli di oggi, senza
pregiudizi o remore di sorta, ma con serenità e spirito critico.
5
I
L’Italia ai tempi di Umberto I: tra rivolte e repressioni.
1.1 Una visione d’insieme: economia, politica e società nell’ultimo scorcio
del 1800.
La situazione economica dell’ultimo decennio del 1800 risente fortemente degli effetti
della Grande Depressione (1873-95). Una crisi che partì dagli Stati Uniti, ma che ben
presto invase il resto del mondo. Per la prima volta, infatti, si presentava un quadro del
tutto nuovo: mentre le cosiddette crisi d’ancien régime erano in generale causate da
carestie, spesso generate da eventi naturali e da pestilenze, che si manifestavano con la
carenza drammatica di beni (sottoproduzione), questo nuovo tipo di crisi che il mondo
industrializzato aveva conosciuto era prodotto da un eccesso di offerta di beni: la
sovrapproduzione. Gli effetti non erano certamente meno gravi o evidenti delle
classiche crisi di sottoproduzione: disoccupazione, caduta dei prezzi sono solo alcuni
degli esempi che si possono fare. L’eccedenza di produzione rispetto alla capacità di
assorbimento del mercato poteva perciò essere ricondotta a tre ordini di fattori: il
progresso tecnico, l’ampliamento del numero dei paesi industrializzati e i salari bassi.
Oltretutto in quegli stessi anni si manifestò anche una grave crisi agraria, sviluppatasi
parallelamente a quella industriale: fattore determinante fu l’emergere di nuove potenze
nella produzione agricola: basti pensare all’Argentina o agli Stati Uniti (in quest’ultimo
Stato la produzione agricola aumentò in 50 anni del 280%
1
) che infersero all’economia
europea un colpo durissimo.
1
Fonte: Bairoch, Paul, Agricoltura e rivoluzione industriale, in Cipolla, Carlo Maria (a cura di), Storia
economica d’Europa, Torino, 1979, vol. IV.
6
Tale crisi causò altresì la trasformazione del paesaggio agrario: la piccola proprietà
contadina andò diminuendo a favore delle grandi aziende agricole che avrebbero dovuto
competere con i concorrenti oltreoceano. In tal modo si creava molta manodopera che
veniva espulsa dalla piccola proprietà. Le conseguenze furono però differenti a seconda
delle aree prese in considerazione: prendendo come esempio l’Italia, se nella parte
settentrionale si accelerò la trasformazione in senso capitalistico delle grandi aziende
agricole con l’impiego dei braccianti, nel Meridione la sola via di sopravvivenza
rimaneva l’emigrazione in altri paesi europei e in misura più massiccia nelle Americhe.
Si calcola che tra l’inizio della Depressione e la prima guerra mondiale abbiano lasciato
l’Europa circa 34 milioni di persone, di cui 25 in modo definitivo. L’emigrazione di
massa ebbe effetti significativi tra i quali si ricorda l’accaparramento delle terre da parte
della borghesia rurale, ovviamente favorito dall’abbandono di molti piccoli proprietari
che erano costretti a svenderle per procurarsi il denaro per la traversata.
Come per l’economia, anche per la politica e la società si produssero grossi
cambiamenti. Una nuova partecipazione politica di massa produsse l’estensione del
suffragio universale in quasi tutti gli stati europei, mentre si formò la maggior parte dei
sistemi di partito giunti ai giorni nostri. Focalizzando l’attenzione sull’Italia, si può
notare che lo stato italiano era nato, nel 1861, con un sistema elettorale a voto eguale ma
ristretto ai soli cittadini che pagassero una certa quota di tasse dirette o che sapessero
leggere e scrivere: appena il 3,4% nel periodo della Destra storica, salito al 12% con
l’avvento della Sinistra storica. Per quanto riguarda invece il sistema istituzionale
italiano, si notano non poche anomalie. Innanzitutto la cronica instabilità dell’esecutivo.
Nel solo periodo del regno di Umberto I (1878-1900) (che è rilevante ai fini di questo
lavoro) si calcola che vi siano stati 28 governi in 22 anni, con turnazione di 7
presidenti del consiglio
2
.
2
Cfr. Martucci, Roberto, Storia costituzionale italiana, Roma, Carocci, 2002.
7
Emblematica era poi la figura del Re. Se è pacifico che era il capo supremo dello stato,
che nominava tutte le cariche, compresi i ministri, esisteva un’ambiguità di fondo:
l’irresponsabilità regia. Non solo, per Statuto, la persona del re era sacra e inviolabile
mentre invece i ministri erano responsabili , ma far risalire alla Sacra persona del re il
biasimo o la responsabilità degli atti del suo governo comportava una condanna fino a
un anno di carcere. Ne consegue che una figura irresponsabile per lo Statuto fosse, al
tempo stesso, titolare di poteri vastissimi. Tale ambiguità risultava accentuata
dall’inesistenza statutaria dell’organo collegiale “Consiglio dei ministri” che risultava
di fatto operativo dal giorno della promulgazione dello Statuto
3
. Questa “copertura
costituzionale” servirà ad alimentare la convinzione del “re che regna ma non governa” ,
mentre – punto questo, di estrema importanza - , come si avrà modo di vedere nel corso
della trattazione, il sovrano era tutt’altro che un mero spettatore delle vicende politiche
del Paese. Ciò verrà confermato in varie situazioni anche durante il regno di Umberto I
e contribuirà sostanzialmente ad alimentare quella che viene chiamata “crisi di fine
secolo”.
Spostandoci in un ambito prettamente sociologico, si osserva che con il sorgere di una
cultura di massa, nasceva la paura della “massificazione” da parte delle classi sociali
che mantenevano un certo status che si manifestava nell’ostentata fedeltà a forme
culturali tradizionali. In altre parole, proprio questa inedita forma culturale, contribuiva
al ripiegamento in se stessa delle classe dirigente o comunque medio-alta che diveniva
perciò incapace di dare una risposta concreta alle masse che proprio allora tentavano di
emanciparsi e divenivano gradualmente consapevoli dei profondi mutamenti che
l’industrializzazione portava. Masse che reclamavano con decisione i loro diritti. Si
formò così una profonda cesura tra Stato e società, tra governanti e governati.
3
Ibidem.
8
La tensione sociale cresceva, le condizioni di vita della popolazione diventavano via via
insostenibili: si era ormai arrivati ad un punto di non ritorno: i moti popolari di fine
secolo, che saranno destinati a trascinarsi una scia di sangue e di repressione.
9
1.2 I Fasci siciliani: tra dimensione agraria e dimensione industriale.
L’esperienza che meglio sintetizza la fase di tensione attraversata dall’Italia tra gli anni
’80 e ’90, nel suo passaggio dal piano agrario a quello industriale-urbano e dalla
spontaneità dell’organizzazione, è quella dei Fasci siciliani. In essa si espresse, per la
prima volta, una robusta e capillare struttura organizzativa, diretta da uomini
d’orientamento socialista, in cui accanto alla massa dei lavoratori agricoli comparivano
già i primi nuclei di salariati industriali. Grazie a questo tipo di eterogeneità sociale tra
fattori vecchi e nuovi, essi riuscirono ad affiancare al senso organizzativo delle
componenti urbane più moderne la forza dirompente della spontaneità del mondo
agrario, e alle antiche rivendicazioni contadine seppero unire obiettivi di carattere
prettamente sindacale, come la revisione dei patti agrari e la divisione delle terre
demaniali e politico, quali il suffragio universale e l’esproprio dei latifondi. A partire
dalla fondazione del primo Fascio a Catania, il primo maggio 1891 a opera di G. De
Felice-Giuffrida, la loro forza si accrebbe fino a raggiungere nel 1893 il massimo di 162
sedi, con circa 350.000 iscritti tra operai, artigiani e contadini. Una delle preoccupazioni
dei suoi organizzatori fu di fornire agli aderenti una rudimentale cultura marxista
attraverso una diffusione capillare di opuscoletti, in cui il socialismo era presentato
come una fede messianica.Venne perciò organizzato il primo grande sciopero agrario
della storia italiana: nell’agosto 1893, in una vasta zona della Sicilia occidentale, avente
come epicentro Corleone, scioperarono oltre 100.000 contadini: riuscirono a ottenere
solamente alcuni miglioramenti nei contratti agrari. Ancora per tutto l’inverno del 1893
il movimento diede vita ad un’estesa agitazione di carattere politico e sociale,
prontamente stroncata dalla sanguinosa repressione crispina
4
e secondo altre fonti, dalla
mafia locale, quest’ultima legata agli interessi dei latifondisti
5
.
4
Cfr.: Astuto, Giuseppe, Crispi e lo stato d’assedio in Sicilia,, Milano, Giuffrè, 1999.
5
Per ulteriori approfondimenti su questo tema e sui Fasci siciliani si veda il seguente sito:
<http://crea.html.it/sito/brig7/4.htm>
10
In effetti Crispi venne richiamato al governo perché ponesse fine una volta per tutte alla
scomoda faccenda dei Fasci siciliani, faccenda che il suo predecessore, di Rudinì,
evidentemente non riuscì a gestire. Memore dell’energia con cui Garibaldi nel 1860
aveva frantumato il malessere contadino dando via libera a spietate fucilazioni,
Francesco Crispi era mosso da una sola certezza: le agitazioni annonarie diffuse un po’
in tutta Italia e delle quali la Sicilia era uno degli epicentri, erano state finanziate dai
governi stranieri ostili all’Italia, in particolare dalla Francia. “La sua fervida
immaginazione” – scrive Roberto Martucci – “partorì perfino il ‘Trattato di
Bisacquino’, fantomatico accordo tra il governo francese e i capi dei Fasci siciliani per
staccare la Sicilia dal Regno d’Italia”
6
. Come al solito, il rimedio era il famigerato stato
d’assedio, caratterizzato da fucilazioni sommarie e dall’entrata in funzione di tribunali
militari che erogarono “in abbondanza” anni e anni di carcere nei confronti di povera
gente che tutto sommato aspirava solo a migliori condizioni di vita e a i propri diritti. La
vicenda dei Fasci siciliani non fu però un fatto isolato. Altro sangue doveva ancora
scorrere per le piazze e le strade d’Italia. Intanto anche gli anarchici italiani osservavano
ed erano protagonisti delle vicende che stavano accadendo: tra questi anche il giovane
Gaetano Bresci, che non avrebbe certo dimenticato o fatto finta di non vedere.
6
Martucci, Roberto, Storia costituzionale italiana, Roma, Carocci, 2002, cit., p. 129.