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INTRODUZIONE
Il lavoro che segue nasce da alcune constatazioni pratiche.
La prima è legata all’ascolto del racconto di esperienze di altri.
Molti amici che lavorano quotidianamente a contatto con un alto numero di
persone, si raccontano stanchi e in difficoltà. Dal punto di vista di chi fornisce un
servizio, la clientela appare sempre più scontrosa e non disposta ad attendere,
decisa a risolvere le proprie necessità e a riconoscere come diritto ogni tipologia
di richiesta. Chi lavora in settori delicati come la sanità, racconta che molti
colleghi, consapevoli della pressione che il desiderio assoluto di realizzazione
delle aspettative di guarigione o di rinnovato benessere crea, guardano con un po’
di apprensione alle scelte che compiono, e cercano in buona fede di tutelarsi anche
di fronte a una possibile successiva azione legale. La scelta giudicata in coscienza
più corretta sembra lasciar spazio alla scelta giuridicamente e burocraticamente
meno rischiosa e attaccabile.
La seconda constatazione fa riferimento ad un vissuto personale. Nella scuola,
dove da anni lavoro, mi capita di osservare dinamiche simili a quelle ascoltate da
chi lavora in ambito commerciale. Noi docenti, di fronte all’insuccesso scolastico,
siamo portati a sintetizzare il fallimento attraverso due grandi categorie: la
mancata volontà di impegno dello studente o la sua incapacità. Le stesse tipologie
di valutazione, per non dire di giudizio, sono ribaltate dai genitori sui docenti,
quando la classe appare svogliata o le cose non funzionano: i docenti non hanno
voglia di risolvere i problemi, o non ne sono capaci.
La terza racconta dello stato di salute di una realtà alla quale sono profondamente
legato: l’oratorio. L’assenza degli adulti viene letta da chi frequenta come
mancanza di volontà di impegno e di presenza, una sorta di assenza di entusiasmo
di fronte alle giuste attese delle comunità cristiane e alle proposte di volta in volta
formulate e ritenute con sicurezza efficaci al raggiungimento del loro fine ultimo:
comunicare il mistero cristiano. Dall’esterno l’oratorio viene percepito come un
mondo chiuso, strutturato in rituali statici e fuori dal tempo, caratterizzato da
persone che, pur aderendo alla proposta religiosa, non vogliono realmente
accogliere la diversità che l’altro e il mondo comportano.
Una quarta osservazione, forse troppo folcloristica, è legata al modo che abbiamo
di guidare: l’utilizzo degli indicatori di direzione sta scomparendo e da una
recente indagine il 57% di chi guida utilizza il cellulare mentre è al volante.
Mi sono chiesto se esista un filo comune che allacci le osservazioni appena
esposte; la risposta più evidente è che tutte parlano dell’uomo.
La soggettività moderna sembra caratterizzarsi per una presenza apparentemente
forte; il rapporto con l’alterità è mediato principalmente da forza di volontà e
desiderio, intese come modalità attive di imposizione di sé. Nella conferma di sé
quasi urticante che il soggetto mette in atto, sembra diventato difficile aprire a
spazi relazionali in cui, grazie all’incontro con la radicale differenza che altri
comanda, nasca una terza via, un terzo modo di abitare il mondo.
Da dove viene questa nuova struttura di soggettività? È coerente con il percorso
simbolico che la tradizione ci ha lasciato? Può in qualche modo un’idea di
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soggettività così forte e autocentrata aprirsi a dinamiche idolatriche? La società
dei consumi nella quale siamo immersi condiziona il nostro modo di essere
persone?
Nella prima parte dell’elaborato proverò a tracciare un breve percorso attraverso il
pensiero di quattro grandi autori del passato recente, per lasciare emergere alcune
caratteristiche essenziali della soggettività alle porte degli anni del boom
economico. Da questo breve excursus affiorerà una soggettività che si caratterizza
per una non padronanza di sé e per una forte tensione costitutiva verso l’esterno
(che sia altri o il mondo). Il desiderio di Lacan sarà la cifra interpretativa più
chiara per dire del soggetto.
Nella seconda parte dell’elaborato si porranno in evidenza alcune caratteristiche
della soggettività post-moderna in rapporto al rapido mutamento del contesto
sociale ed economico degli ultimi anni: si andrà ad indagare se è avvenuto un
ribaltamento radicale della soggettività (ricerca del sé da fuori di sé a in sé), in
particolare analizzando il possibile fraintendimento del desiderio lacaniano.
Nell’analisi della soggettività post-moderna saranno due i campi d’indagine più
significativi per dire del soggetto: l’evoluzione del linguaggio e lo studio della
categoria dell’amore intesa come generica interpretazione degli affetti.
Nella terza parte si ragionerà sulla nuova soggettività emersa e sul suo rapporto
con la società dei consumi: possono alcune dinamiche di acquisto e vendita essere
considerate pratiche idolatriche che arrivano a rafforzare l’idolatria originaria
(quella del sé)? Quale nuovo rapporto si instaura tra l’antropologia e la società dei
consumi?
Nella quarta ed ultima parte saranno accennati due luoghi di liberazione dalla
pratica idolatrica: la fede, accoglienza di una logica smisurata d’amore, e il dono
di sé, luogo affettivo ed ontologico di riconoscimento per la soggettività di un
essere gettato originario. Quest’ultima parte vuole essere un semplice possibile
punto di ripartenza per un ulteriore approfondimento.
La scelta del metodo di lavoro attraverso cui approcciare un discorso sulla
soggettività è orientata ad una pluralità di linguaggi e punti di vista: il linguaggio
filosofico per ritrovare un percorso di tradizione e di ragionamento sull’uomo, la
lettura psicanalitica per analizzare alcune dinamiche relazionali centrali per
l’evoluzione del soggetto e alcune sintesi sociali, il linguaggio teologico per
introdurre il tema dell’idolatria nelle Scritture e il logos rivelativo dell’amore
come rottura di misura nell’Alleanza.
Mi sono riferito ad autori capaci di sintesi tra saperi e di ampiezza d’analisi
(Lacan, Petrosino, Ternynck, Sequeri, Žižek). Il rischio molto evidente del
percorso proposto è quello di una possibile mancanza di profondità e di un
sincretismo poco capace di dare eco alla significatività e alla specificità semantica
che ogni analisi qui sintetizzata porta con sé. Mi ha però colpito l’atteggiamento
di fondo di questi autori: la volontà di creare ponti tra saperi differenti, per
arrivare a una concreta presenza di alte forme di riflessione e di volontà di cura
dell’umano nella concretezza del vivere.
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1. CAPITOLO I. Soggettivitá in movimento
1.1 QUALE OGGETTIVITÀ? QUALE SOGGETTIVITÀ?
Nel Novecento, prende forma in maniera nuova l’idea di soggettività,
identificata da Hegel come principio chiave dell’epoca moderna. È la filosofia di
Kant, a cavallo tra Illuminismo e Romanticismo, che apre una breccia nuova nel
rapporto tra l’oggetto, il dato e la ragione umana, questione centrale nella storia
della filosofia.
Grazie all’apporto di Kant, risulta sempre più evidente che per parlare del
soggetto è necessario chiarire una relazione costitutiva tra la soggettività che
percepisce, sente, vive e la dimensione reale-oggettuale della materia. All’interno
di questa dinamica, da sempre cardine del pensiero filosofico, la metafisica
classica pone nella realtà “in sé” la verità dell’oggetto. In questa direzione rimane
una lezione centrale il principio scolastico della “adaequatio rei et intellectus”. È
l’intelligenza umana a piegarsi ad un’evidenza da accogliere e riconoscere per
com’è: la soggettività umana si forma su un polo oggettivo sul quale fare perno
per ritrovarsi attraverso la specificazione linguistica delle categorie e delle
modalità attraverso cui riconoscere il vero.
In Kant la rivoluzione copernicana della soggettività nasce da un nuovo modo di
approcciarsi al mondo: riconoscendo la distanza marcata tra l’esistenza del dato e
la sua più specifica natura o essenza, rimane nel fenomeno un nucleo intatto,
inscalfibile che della realtà non può essere colto per mezzo delle strutture a priori
della personale sensibilità e dall’intelletto. Tale nucleo inafferrabile mette in
dubbio la linearità e la possibilità dell’adaequatio.
La rivoluzione copernicana di Kant nasce quindi dalla presa di coscienza che il
soggetto universale (l’uomo) partecipa alla creazione dei fenomeni (la cellula
conoscibile della realtà) unendo la “cosa in sé” (non conoscibile: un noumeno)
con i propri “a priori” mentali (spazio e tempo) che ne caratterizzano l’esistenza.
Da qui ha origine una diversa idea di soggettività e un diverso modo di indagare
su di essa. Si apre una breccia che tende diretta verso la modernità.
Popper, ricorda che con Kant
«[…] dobbiamo abbandonare l’opinione secondo cui siamo degli spettatori
passivi, sui quali la natura imprime la propria regolarità, e adottare l’opinione
secondo cui, nell’assimilare i dati sensibili, imprimiamo attivamente ad essi
l’ordine e le leggi del nostro intelletto. Il cosmo reca l’impronta della nostra
mente. Con l’accentuare il ruolo svolto dall’osservatore, dall’investigatore e dal
teorico Kant lasciò una traccia indelebile non solo nella filosofia, ma anche in
tutte le scienze dell’uomo».
1
1
K. POPPER, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, pag. 98.
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L’esigenza kantiana di partire dal soggetto e di analizzare come esso determina la
visione della realtà ha quindi segnato la cultura moderna dell’Ottocento e del
Novecento. La rivoluzione copernicana kantiana, sviluppata in latenza ed
estremizzata nell’idealismo, trova il suo compimento epistemologico nella
seconda metà del XIX secolo. L’approfondimento linguistico di De Saussure
(rapporto tra parola e lingua, cultura e natura), la nascita della psicanalisi (Freud)
e la virata della filosofia dalla dimensione metafisica alla fenomenologia (Husserl)
sono le basi per una nuova idea, meno ingenua, della soggettività. L’uomo non
solo si sporca di mondo, ma cominciano ad essere studiabili i meccanismi di
soggettivazione che permettono al sistema percettivo e rielaborativo dell’essere
umano di formarsi con la realtà e significare-accogliere la realtà stessa. Un
approccio sempre più scientifico al soggetto, la grande attenzione al metodo e lo
sviluppo di una complessità di saperi capace di distinguere/differenziare i campi
di indagine relativi all’uomo e alla sua esperienza creano sempre maggiore
diffidenza verso ogni approccio antropologico tentato di dare risposte definitive e
univoche. Il grande sistema hegeliano, come ogni sfondo unitario di
rappresentazione del soggetto e della realtà, si fa via via una narrazione illusoria.
Come ricorda Hans Jörg Sandkühler in un suo articolo, è in questo periodo che
«nell’ambito della filosofia, come in quello delle scienze e delle arti, giunge a
compimento la dissoluzione di ciò che si presumeva essere certo. Ha luogo qui la
dissoluzione del dato, ossia l’erosione di quell’idea per cui ci sarebbe una realtà
precostituita che richiede soltanto di essere rappresentata per mezzo di copie
riproduttive».
2
In questo rapido mutamento del rapporto con l’oggetto e della comprensione
riguardante le modalità con cui l’uomo intuisce il mondo, anche l’idea di identità
nell’umano si rinnova in modo radicale: il soggetto non è semplicemente legato
alla conoscenza di una sostanza comprensibile, ma è dinamica vitale che si dà
nelle modalità relazionali dell’incontro con ciò che lo circonda.
Agli inizi del Ventesimo secolo la velocità della nascita di nuovi sistemi di sapere
e il progresso della tecnica sembrano rafforzare la rapida ascesa della
comprensione umana nei confronti del soggetto e del mondo. Il superamento dalla
categoria di oggettività come evidenza, definitività indipendente dalla lettura
umana del dato, si trascina la crisi del patrimonio simbolico precedentemente
acquisito e riconosciuto come fondativo, originario, proprio perché oggettivo.
Anche il simbolico si trova affetto da una soggettività di cui diffidare: il
riconoscimento tacito del simbolico viene scosso nel profondo. Il silenzio, luogo
d’impossibilità del dire, custode di una distanza tra la presa della coscienza e la
più complessa stratificazione dell’esperienza, si erode a favore di un’apparente
padronanza del linguaggio nella completa comprensione delle dinamiche umane.
L’entusiasmo della consapevolezza lascia in secondo piano quelle esperienze di
lentezza, spiritualità, assenza comunicativa, che rimandano nell’uomo
2
H. J. SANDKÜHLER, Linguaggio, segno, simbolo. L’anti-ontologia di Ernst Cassirer, Rivista
internazionale di Filosofia e Psicologia, Vol. 1 (2010), n. 1-2, pp. 1-13, [accesso: 08/06/2017]
http://www.rifp.it/ojs/index.php/rifp/article/viewFile/rifp.2010.0001/49
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all’impossibilità di dominio sul mondo e sul sé. I tempi lunghi della
sedimentazione significante dell’esperienza si erodono a favore della rapidità
dell’evoluzione tecnica, che sembra sostenere l’uomo nella padronanza del
proprio vivere. Se da una parte la feroce messa in discussione del simbolico come
“dato naturale” sembra quanto meno mettere in guardia da ogni facile e
stereotipata culturale oggettivazione semplicistica del sapere e dell’essere, lo
sviluppo epistemologico e tecnico delle scienze mostra oggettivabile e
comprensibile ogni dinamica di conoscenza attraverso l’evidenza, la prova
inconfutabile, in una logica di problema/soluzione. Il piano dell’oggettività come
fissità, evidenza, fondamento su cui ergere una visione comune del mondo scivola
dal piano lontano, non visibile, temporalmente lento del simbolico, verso il campo
semantico della tecnica. E l’idea di soggetto si rimodella su questo slittamento.
Dice Gevaert:
«L’affresco della Cappella Sistina, in cui Michelangelo ha raffigurato la
creazione di Adamo, è forse una delle migliori espressioni artistiche di questa
sorgente di riflessione sull’umano: lo spazio tra il dito di Dio e quello di Adamo è
il centro invisibile di tutto il quadro: quella misteriosa grandezza che fa
dell’uomo un essere umano».
3
Nella rapida evoluzione della modernità nella post-modernità, dito di Dio e dito
umano sembrano toccarsi attraverso l’aumento vertiginoso della competenza
umana. Quella distanza che Gevaert riconosce condizione di possibilità di
esistenza dell’umano, si fa coincidenza nella comprensione, nella scoperta, nel
progresso. Paradossalmente l’uomo post-moderno sembra percepire di fronte
all’esponenziale crescita del proprio know-how una solitudine esistenziale sempre
più feroce. La distanza trascendente del simbolico, che sembrava pareggiata, si fa
emotivamente abisso, isolamento, distanza assoluta. L’apparente comprensione
consapevole di ogni passaggio dell’esistere non sembra portarsi dietro una
sapienza matura, anzi. Il rimosso ritorna, il non detto si fa comunque presenza;
l’illusione del dominio totale sulla tradizione e sul mistero sembra lasciare sulla
riva del soggetto relitti piuttosto scomodi da trascinarsi.
È ancora possibile parlare di metafisica? Può l’uomo domandare dove la risposta
non prenderà le tracce di un linguaggio, di una mediazione? Possiamo ancora
parlare di mancanza costitutiva nella soggettività, mancanza significante o la post-
modernità sta rifondando le strutture interpretative dell’umano?
Non si intendono analizzare in modo approfondito questioni così radicali: per
riannodare fili interpretativi della soggettività che hanno attraversato gli ultimi
due secoli, verranno brevemente richiamate alcune categorie chiave della
riflessione di quattro pensatori a cavallo tra modernità e post-modernità, con il
semplice scopo di ritrovare una traccia comune.
Negli autori che si andranno a citare è presente una doppia tensione: da una parte
la necessità di descrivere una soggettività in movimento, oltre le oggettivazioni
3
J. GEVAERT , Il problema dell’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Elledici,
Leumann – Torino 1992, pag. 29.
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che scadono in dimensioni pregiudiziali, e, dall’altra, di dire l’indicibile, di
tutelare la mancanza. Tutto con lo scopo di trattare brevemente la soggettività in
relazione ad alcune dinamiche costitutive, in particolare la temporalità e la
profondità simbolica, che questi autori hanno evidenziato. E tentare di lasciar
emergere una breccia, una mancanza che abita il soggetto: mancanza che non è
necessariamente assenza da riempire, ma fonte generativa di umanità.
Sarà proprio a questa mancanza, se ce n’è, che sarà possibile chiedere conto della
cura dell’uomo. Al tentativo maldestro di chiudere questa breccia, in una società
post-moderna radicalmente votata alla pienezza, chiederemo, più avanti,
dell’idolo.
1.1.1 Heidegger: la temporalità dell’esistenza
Secondo Petrosino, uno dei meriti principali della filosofia di Heidegger è stato
quello di ripensare in modo radicale la natura dell’uomo. Nella sua forte critica
alla filosofia occidentale, responsabile di aver ammorbidito nel linguaggio la
distanza, la differenza tra Essere ed ente in una coincidenza che non permette
alcuno disvelarsi, il filosofo tedesco sintetizza il soggetto in una definizione che
cambierà la storia della filosofia.
La condizione umana è definita come un’unicità, chiamata dal filosofo tedesco
Dasein (Esserci).
La particolarità dell’uomo è quella di un soggetto capace di chiedere a sé di sé,
senza che questa domanda possa avere risposta esaustiva sulle dinamiche vitali.
La ricerca dell’intuizione su ciò che lo costituisce, sulle diverse forze che lo
attraversano, non è accidentale: l’uomo vive grazie a questa tensione costitutiva e
si differenzia dal resto del mondo nella pervicace ricerca della definizione
dell’ente che egli è.
«Ma volger lo sguardo, comprendere, afferrare concettualmente, scegliere,
accedere a, sono comportamenti costitutivi del cercare e perciò parimenti modi di
essere di un determinato ente, di quell'ente che noi stessi, i cercanti, sempre
siamo. Elaborazione del problema dell'essere significa dunque: rendere
trasparente un ente (il cercante) nel suo essere [...]. Questo ente che noi stessi
sempre siamo e che fra l'altro ha quella possibilità d'essere che consiste nel porre
il problema, lo designiamo con il termine Esserci (Dasein)».
4
La relazione tra il soggetto uomo e l’Essere, da sempre questione ontologica
radicale alla base della metafisica, assume nel passaggio di Heidegger una
dinamica di disvelamento: l'Essere non è l'ente o un ente supremo simile ad altri,
una sorta di primo motore immobile all’origine della catena degli enti, ma è quella
investitura di energia e di unicità che permette all’ente uomo (Dasein) di essere ed
essere visibile. L'Essere, inteso come la svelatezza che accade, è, in primo luogo,
l'orizzonte o la «radura», al cui interno gli enti diventano manifesti. Ne segue che
l'Essere non è una statica presenza o una stabile struttura, ma uno storico
4
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, trad. it., Longanesi, Milano 1976, pag. 22.
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accadere, cioè un «Evento» che «si dà», di volta in volta, in dinamiche vitali
differenti.
La domanda che l’Esserci pone in relazione all’Essere non è dunque accidentale,
ma dice della modalità costitutiva del Dasein. L’impossibilità della risposta chiara
e definitiva su di sé è però altrettanto costitutiva: l’Essere si dà in una radura che è
oscurità e tratti di luce, in un manifestarsi che è più un ritrarsi, un nascondimento,
che un caratteristico e definitivo venire alla luce.
In questa impossibilità di trasparenza definitiva l'Esserci ha un modo di esistere
del tutto singolare rispetto agli altri enti. La continua ricerca sulla personale
esistenza è l’evidenza di un modo di vivere: a differenza di tutte le altre presenze,
il Dasein mantiene con l’Essere un rapporto dinamico ed estromettente: non si
può parlare per l’uomo di una pura e statica presenza, ma di esistenza.
«Esistenza significa, per l'ontologia tradizionale, qualcosa come la semplice-
presenza, modo di essere, questo, essenzialmente estraneo a un ente che ha il
carattere dell'Esserci. A scanso di equivoci: per dire existentia useremo sempre
l'espressione interpretativa semplice-presenza, mentre attribuiremo l'esistenza,
come determinazione d'essere, esclusivamente all'Esserci. L'essenza dell'Esserci
consiste nella sua esistenza».
5
Heidegger differenzia dunque existentia ed esistenza. La prima è il contenuto
della metafisica classica intesa come semplice presenza, uno stare davanti, mentre
esistere è il modo d’essere dell’Esserci. Dunque per il filosofo tedesco l’esistenza
è la condizione d’essere dell’uomo: esistenza che non significa un semplice stare
(sostanza che ha in sé la definitività di ciò che è), ma è legata ad un avere da
essere, ad una temporalità che già nei possibili modi di realizzazione dice del
Dasein. Quali sono dunque le caratteristiche centrali dell’Esserci?
Petrosino, riconosce che i caratteri essenziali dell'Esserci, sono due:
«[…] il primato dell'esistenza sull'essenza e l’esser-sempre-mio. L'esistenza viene
determinata non come un “che cosa” o un “dato”, come espressione di un’essenza
o di una quiddità, ma come il dispiegarsi di un dinamismo, come verbalità
dell'esistere, più precisamente come un “aver-da-essere”».
6
Caratteristica centrale del Dasein è il rapporto con il futuro: non è la semplice
essenza a definire l’uomo, ma lo sono i suoi slanci, le sue aperture verso un avere
da essere che non è semplice e distante proiezione, ma dice già dei modi possibili
del presente: l’Esserci è dunque un ente che si comprende nell’esistere e,
comprendendosi nel suo Essere, si rapporta all’Essere in un Esserci sempre
personale e vissuto.
Non è però la semplice presenza, la quiddità del dato intellegibile che permette
all’Esserci di definirsi-essere definito (se di definizione si può parlare). L’Esserci
non si dà a partire da una comprensione statica del fenomeno:
5
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, op. cit., pp. 65-66.
6
S. PETROSINO, L’idolo. Teoria di una tentazione dalla Bibbia a Lacan, Mimesis, Milano-
Udine 2015, pag. 22.