6
lavoratori. Infatti, se è vero che il divieto d’intermediazione piuttosto che la 
disciplina degli appalti di manodopera sono strumenti di tutela del lavoratore ed è 
altresì vero che l’introduzione del lavoro temporaneo ha in qualche modo interessato 
l’efficacia di tali strumenti, è da stabilire e verificare se queste nuove forme di lavoro 
abbiano avuto un qualche effetto per esempio sulla tutela, almeno proclamata, alla 
continuità e stabilità del posto di lavoro, oltre che sull’impianto dei diritti del 
lavoratore stesso. 
     L’aspetto da porre in evidenza è che il legislatore italiano storicamente attento, 
come si evince anche dalla legge 1369/60, ad evitare forme di sfruttamento e di 
svantaggio per il lavoratore, nel tentativo di adeguarsi al vento di flessibilità ha 
cercato di percorrer la via più cauta, introducendo una nuova forma di lavoro, come 
quello temporaneo, ma ponendola in una severa griglia di vincoli. Nel fare ciò ha 
utilizzato uno strumento d’ingegneria giuridica, cioè il collegamento negoziale tra le 
due tipologie di contratto necessari per far funzionare l’istituto del lavoro 
temporaneo: il contratto di fornitura e il contratto per prestazioni di lavoro 
temporaneo. In tal modo è stato possibile giustificare il passaggio dall’epoca della 
demonizzazione della dissociazione datoriale all’epoca della liceità pur fortemente 
regolamentata.   
     Secondariamente, l’altro elemento da mettere in evidenza è il nesso che lega 
l’apparato produttivo e organizzativo allo sviluppo ed utilizzo del lavoro interinale; 
 7
aspetto questo che in verità era già di notevole interesse anche per quanto riguardava 
l’analisi dell’interposizione nei rapporti di lavoro. Ciò, sia in una prospettiva d'analisi 
storica della fattispecie in esame, sia in rapporto alle conseguenze pratiche sul piano 
produttivo e organizzativo che le disposizioni normative introdotte hanno potuto 
avere.  
     Le vicende storiche ricostruttive del fenomeno dell’interposizione passano 
attraverso l’integrazione di tale concetto con la struttura organizzativa dell’impresa e 
in particolare con l’esigenza, sempre più pressante nel corso degli ultimi decenni, di 
decentramento produttivo. All’interno di tale complessa matassa di legami, il filo 
conduttore resta sempre quello legato al concetto del grado di subordinazione che 
esiste tra i vari soggetti. 
     Se in realtà, dunque, lo sviluppo dei fenomeni dell’interposizione è legato allo 
sviluppo della struttura produttiva, la consapevolezza di dover regolamentare tali 
fenomeni è legata al carattere fraudolento che spesso è insito in essi. 
     La regolamentazione dei fenomeni in esame, a partire dalle norme del codice 
civile, passando attraverso la legge sul collocamento, fino alla legge apposita sul 
divieto di interposizione, ha apportato delle forme di rigidità che sembrerebbero 
assottigliarsi di fronte all’introduzione di forme più flessibili di lavoro. 
     Le problematiche e le prospettive di politica del diritto che sono alla base di tali 
mutamenti introducono elementi nuovi all’analisi evolutiva dei fenomeni in esame. 
 8
Solo entrando in tali meccanismi si potrebbero intuire gli scenari futuri nell’ambito 
del processo di flessibilità del contratto di lavoro e fino a che punto è possibile, con 
uno sguardo anche alla situazione a livello comunitario, spingersi sul lato della 
flessibilità e come questa possa incidere non solo nell’ambito prettamente economico 
ed organizzativo dal lato aziendale, ma anche rispetto alla sfera giuridica degli altri 
soggetti interessati.1 
                                                 
1
 Cfr. DE SIMONE, Titolarità dei rapporti di lavoro  e regole di trasparenza: interposizione, impresa 
di gruppo, lavoro interinale, Milano, 1995, FRANCO ANGELI, p. 25 
 9
I. PROFILI STORICI D’INTERMEDIAZIONE ED 
INTERPOSIZIONE 
 
 
Introduzione  
 
     L’interposizione e l’intermediazione nei rapporti di lavoro possono assumere 
varie forme: interposizione nel cottimo, appalto e sub-appalto di manodopera, 
fornitura di manodopera.  
   In particolare, si tratta di complessi fenomeni nei quali interagiscono tre differenti 
soggetti: il lavoratore o i lavoratori, il soggetto utilizzatore delle prestazioni 
lavorative e il soggetto interposto. 
     La problematicità dei fenomeni in esame scaturisce dalla presenza proprio del 
soggetto terzo interposto; la sua attività, infatti, è fortemente ambigua per due ordini 
di motivi principali: da un lato in funzione, per così dire, di copertura dell’effettivo 
imprenditore ed utilizzatore delle prestazioni, e dall’altro in funzione del possibile 
arricchimento, e specularmente al probabile sfruttamento del lavoratore, che possono 
derivare dalla sua attività.   
 10
1.1 Profili storici di riferimento 
 
     Per capire lo sviluppo evolutivo della legislazione, della dottrina e della 
giurisprudenza in materia d'intermediazione ed interposizione nei rapporti di lavoro 
bisogna far riferimento a figure professionali che spesso in passato sfuggivano ad un 
preciso inquadramento normativo, ma che risultavano importanti punti di riferimento 
nell’ambito di una certa organizzazione produttiva. 
     Si parla in particolare, ad esempio, del capo-cottimista.2 Tale figura agli albori 
dello sviluppo industriale trovava una collocazione, che sebbene “impropria”, 
risulterà determinante nei processi d’acquisizione dei meccanismi lavorativi delle 
botteghe artigiane da parte delle nascenti industrie. Si fa riferimento a quei rapporti 
noti come rapporti di Verlag; in questo periodo, infatti, la nascita delle prime 
industrie, sospinte dalla maggiore disponibilità di capitali, comportò lo sviluppo di 
una fitta rete di rapporti con le botteghe artigiane e, in particolare, con il “maestro” di 
queste ultime. Le relazioni tra industriale e capo-bottega, con il tempo, passarono 
dall’essere essenzialmente di natura commerciale al divenire più spiccatamente di 
carattere lavorativo.   
     In altre parole si nota la progressiva tendenza al passaggio dal rapporto “stipulatio 
operis facendi” tra capomastro e mercante, alla “locatio operarum” tra artigiano e 
suoi assistenti. 
                                                 
2
 MAZZOTTA,  Rapporti  interpositori e contratto di lavoro,  Milano, 1979, GIUFFRE’,  p. 7  e ss. 
 11
1.2 Dal periodo pre -industriale all’industrializzazione  
 
     Le botteghe artigiane, allo scopo di dover sopravvivere all’ormai imminente 
trasformazione dell’intero sistema economico, sospinto dalla crescente 
industrializzazione, spesso si rivolgevano alle nascenti strutture industriali per essere 
finanziate; a ben guardare, in realtà, non erano poche le forme di usura celate sotto 
forma di rapporti a prestazioni corrispettive, ovvero fornitura di capitale da parte 
delle industrie, in cambio di acquisizioni di parte degli utili degli artigiani. 
Spesso, però, tali acquisizioni erano così cospicue da determinare una vera e propria 
acquisizione in tronco della bottega artigiana. 
     Il problema cruciale restava quello del rapporto intercorrente tra artigiano ed 
industria; all’interno del quale, è bene guardare al fatto che alla realizzazione delle 
commesse all’interno dei laboratori artigiani contribuissero anche energie lavorative 
che erano e restavano sotto la dipendenza e direzione dell’artigiano. I fenomeni ora 
descritti trovavano naturale sviluppo soprattutto nelle produzioni dove più spinta fu 
la propensione alla divisione del lavoro e che, quindi, per prime si discostarono dalle 
forme produttive che permanevano ancorate ai canoni  produttivi del passato. 
     L’aspetto da mettere in evidenza è che nei rapporti succitati la forma retributiva 
utilizzata era in genere il cottimo. Se da un lato, infatti, la bottega artigiana 
s’impegnava a fornire al capitalista committente una certa quantità produttiva 
 12
programmata, dall’altro la bottega artigiana stessa spesso utilizzava il cottimo come 
forma retributiva per i suoi lavoratori; senza tralasciare, poi, una certa dose di 
sfruttamento che garantiva un ulteriore margine di profitto. 
     Ciò riporta la questione sul fattore organizzativo e produttivo; infatti, i crescenti 
margini di profitto, derivanti anche delle forme retributive utilizzate, se da un lato 
portarono in alcuni casi ad un progressivo assorbimento da parte del capitalista, 
dall’altro potevano porre le premesse per un distacco dall’orbita dell’industriale. 
      Il verificarsi dell’una o dell’altra ipotesi, ovviamente, dipendeva da fattori 
contingenti, quali ad esempio le dimensioni produttive dei soggetti , il grado di 
divisione del lavoro e così via. Lo sviluppo del capitalismo si ebbe anche 
percorrendo tali direttrici che, come si è notato, portarono intrinsecamente ad un 
utilizzo più flessibile e meno accentrato della forza-lavoro. 
     La cospicua introduzione ed utilizzazione delle forme produttive meccanizzate, 
portò in alcuni contesti produttivi,  come ad esempio quelli edili e minerari, a 
mantenere e coordinare i vecchi rapporti con il lavoro artigianale sub-appaltato, 
mentre in altri settori come quello tessile, dove l’introduzione dei macchinari 
scombussolò il sistema produttivo ed organizzativo proprio per la natura delle 
lavorazioni, comportò l’affermazione delle prime forme di decentramento produttivo. 
 13
     Spesso nelle industrie tessili il processo produttivo meccanizzato raggruppò le 
lavorazioni in uno stesso edificio, relegando le lavorazioni artigianali, di cui però 
avevano ancora bisogno, all’esterno, seguendo precisi criteri organizzativi. 
Tali criteri molto spesso portarono all’affermazione di forme di lavoro cooperativo; 
poteva così accadere che l’industria di riferimento, infatti, pagava un salario 
collettivo alla squadra, che a sua volta lo ripartiva al suo interno, spesso con forme 
più o meno accentuate di sfruttamento salariale. 
     Nelle forme più spinte di decentramento produttivo, col passare degli anni, la 
figura dell’intermediario perse progressivamente le sue prerogative direzionali, per 
assumere tout court la funzione di reclutamento dei lavoratori. 
     All’inizio del XIX secolo, il marchandage e lo sweating-system ossia il lavoro a 
domicilio, avevano già un certo rilievo nel contesto economico, sebbene fossero 
fenomeni di una certa frammentarietà, sia dal punto di vista giuridico che da quello 
della loro applicazione pratica. Infatti, sotto quest’ultimo aspetto oltre alle squadre 
esterne, fulcri dei processi di decentramento, che lavoravano sotto la direzione 
dell’intermediario e spesso al domicilio di quest’ultimo, coesistevano anche squadre 
interne, che svolgevano le loro prestazioni lavorative negli edifici produttivi. 
     Ma la frammentarietà ed eterogeneità dei fenomeni in esame si rilevano facendo 
riferimento oltre che al fattore logistico-organizzativo, anche a quello retributivo. 
 14
In alcuni casi, infatti, le squadre ricevevano un salario collettivo base mentre al capo-
cottimista era riconosciuta una somma aggiuntiva; altre volte il capo-cottimista era 
retribuito secondo il più classico cottimo a forfait, mentre il rapporto retributivo dei 
lavoratori era regolato con retribuzione a tempo.3 In alcuni casi l’intermediario o 
capo-cottimista poteva rendersi più autonomo, addirittura mettendo a disposizione 
propri mezzi produttivi. 
     Lo schema evolutivo sembrerebbe rispettare un canone ben preciso: la figura 
dell’intermediario si trasforma gradualmente da anello di legame tra lavoratori e 
industria committente a soggetto sempre più autonomo, che via via si appropriava dei 
mezzi di produzione, cercando di diventare autonomo rispetto  all’industria di 
riferimento. 
     La dottrina dell’inizio del secolo ha come punto di riferimento l’opera di Barassi 
o meglio il lavoro di speculazione che lo stesso autore sviluppa nel corso degli anni. 
Barassi definì il marchandage come il rapporto intercorrente tra imprenditore e 
lavoratori, in genere autonomi, i quali erano chiamati a prestare la loro opera con i 
mezzi messi a disposizione dall’imprenditore. All’interno di tale rapporto i lavoratori 
avevano però come loro punto di riferimento il capo-cottimista più che 
l’imprenditore. 
                                                 
3
 BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, 1915,  SOCIETA’ EDITRICE 
LIBRARIA, Vol. I,  p. 758 e ss. 
 15
     Ma, come si è visto, nell’evoluzione della fattispecie dell’interposizione nei 
rapporti di lavoro, la forma retributiva di riferimento era in genere il cottimo. 
Barassi fa riferimento a due diverse forme: il cottimo collettivo subordinato (contrat 
d’equipe già presente nell’ordinamento francese) e il cottimo collettivo autonomo 
(simile al marchandage del diritto francese).4 A sua volta il cottimo collettivo 
subordinato poteva assumere, secondo tale autore, due diverse tipologie: una in cui 
l’imprenditore assegnava il lavoro ad un capo-cottimista, che aveva la libertà di 
assumere i suoi collaboratori e l’altra in cui l’imprenditore assoldava per un dato 
lavoro un'intera squadra di lavoratori. Ovviamente i lavoratori potevano essere 
interni o esterni all’organizzazione industriale di riferimento. 
     Nel caso di squadre interne si sarebbe trattato, secondo l’autore, di un rapporto di 
lavoro subordinato sia nei confronti del capo-cottimista che nei confronti dei 
cottimisti, o meglio si sarebbe prospettata una forma vicina alla sub-locazione o alla 
locazione d’opere. 
     Nel caso di squadre esterne, il capo-cottimista agiva come rappresentante 
dell’industriale, e Barassi escludeva la possibilità di rapporti diretti tra imprenditore e 
cottimisti. 
      A tali conclusione l’autore giungeva facendo riferimento al concetto di manifesta 
volontà dell’imprenditore di assumere i membri della squadra; nel primo caso, tale 
volontà era chiaramente manifesta, mentre nel secondo caso passava, senza 
                                                 
4
 BARASSI, Ivi, Vol. I, p. 747 
 16
indebolirsi, attraverso il filtro della rappresentanza riconosciuta al soggetto 
interposto.5 
     Il cottimo collettivo autonomo si realizzava con il contatto di squadre di lavoratori 
esterni, e perciò si prefigurerebbe una forma di sub-appalto, sanzionato dal codice 
civile allora in vigore dall’articolo 1754 per le ipotesi di sublocazione e dall’articolo 
1645 per le ipotesi di subappalto.  Tale situazione escluderebbe rapporti diretti tra 
imprenditori e lavoratori, poiché il primo aveva rapporti solo con il capo-cottimista, 
da cui si diramavano i rapporti con i cottimisti. Si prospettavano perciò due ordini di 
rapporti: imprenditore – capo-cottimista, legati da un rapporto di subordinazione e 
capo-cottimista - cottimista. A tal proposito lo stesso Barassi parlò di un complesso 
fenomeno di “endosmosi ed osmosi”. A farne le spese erano i cottimisti, poiché 
doppiamente vessati: in ragione del fatto che un più accentuato sfruttamento 
dell’imprenditore sul capo-cottimista aveva ripercussioni negative anche su di loro. 
      Il capo-cottimista, invece, aveva una maggiore autonomia rispetto a quanto 
succedeva nel cottimo collettivo subordinato, ma rimaneva pur sempre legato alle 
disposizionI dell’imprenditore.  Ed è proprio in tali circostanze che sembrerebbe 
fallire l’indice di riferimento della manifestazione di volontà dell’imprenditore;  se è 
pur vero che la squadra esterna alla struttura produttiva dell’imprenditore aveva dei 
rapporti diretti con il soggetto interposto più che con l’imprenditore, certamente non 
si poteva escludere l’eventualità di una chiara dimostrazione di volontà 
                                                 
5
 MAZZOTTA, op. ult. Cit.,  p. 35 
 17
dell’imprenditore di voler assumere direttamente i membri della squadra, ponendo in 
tal modo sullo stesso piano il cottimo collettivo autonomo e quello subordinato e 
quindi annullando, di fatto, la differenza tra le due fattispecie. 
     Barassi era, in realtà, in linea con la dottrina del tempo, che riconosceva al 
cottimo una certa differenza sia dal lavoro autonomo che da quello subordinato, pur 
ponendolo certamente più vicino al primo e quindi alle caratteristiche della locatio 
operis. 
     Nella legislazione dell’epoca, ad esempio facendo riferimento all’articolo 10 r.d. 
13/3/1904 n. 141 in particolare, non sono pochi però gli esempi che riportavano la 
fattispecie del cottimo collettivo autonomo nei binari della tutela del lavoro 
subordinato. L’articolo citato così disponeva: 
 
Il capo o esercente dell’impresa, industria o costruzione 
Che dà a cottimo ai propri operai lavori da eseguirsi 
Nel proprio stabilimento, officina o cantiere, 
permettendo loro di avvalersi per eseguirli di altri 
operai da essi assunti e pagati, è obbligato 
ad assicurare anche questi ultimi. 
 
 18
E’ certamente importante notare, infatti, come, soprattutto gli sforzi fatti per superare 
l’istituto della culpa in eligendo per gli infortuni e la conseguente affermazione del 
principio del rischio professionale, abbiano contribuito a spostare la tutela 
riconosciuta ai lavoratori subordinati anche sui lavoratori retribuiti tramite cottimo 
collettivo autonomo; lo stesso Barassi riteneva civilmente responsabile l’appaltatore 
per fatto illecito dei dipendenti del capo-cottimista. Ciò creava, come è ovvio, 
un’evidente incongruenza con la collocazione del cottimo collettivo autonomo al di 
fuori dell’area del lavoro subordinato. Tali considerazioni, secondo Barassi, 
sembrerebbero indebolire l’autonomia del cottimo collettivo autonomo, poiché 
andrebbero ad intaccare la caratteristica fondamentale dell’unità economica della 
squadra. 
     La tutela infortunistica estesa a tali lavoratori sarebbe pressoché identica a quella 
riconosciuta ai lavoratori subordinati per una sorta di traslazione: i membri della 
squadra sarebbero tutelati contro gli infortuni poiché lo era il capo-cottimista che, in 
effetti, con l’imprenditore altro non aveva se non un rapporto di lavoro subordinato. 
 Barassi, però, non escludeva che, in via secondaria, gli obblighi ricadenti 
sull’imprenditore circa le disposizioni sugli infortuni potessero ricadere anche sul 
capo-cottimista.6 
     Parte della dottrina e della giurisprudenza dell’epoca propendevano per 
l’applicabilità dello schema di locatio operis alla figura del capo-cottimista.  
                                                 
6
 BARASSI, op. ult. Cit., p. 749 e ss. 
 19
     Alcuni interventi legislativi, miranti a regolare l’autonomia negoziale del 
contratto di lavoro, ponevano il lavoratore che avesse organizzato e diretto gruppi di 
lavoro nella posizione di mandatario dell’imprenditore. 
     Nell’analisi che Barassi faceva del cottimo collettivo autonomo giungeva ad 
estendere al rapporto tra cottimisti ed imprenditore,
 
tramite lo strumento 
dell’analogia, quanto stabilito dall’articolo 1645 del codice civile del 1865, che in 
realtà disciplinava un’obbligazione di garanzia:
7
 
 
I muratori, fabbri ed altri artefici impiegati 
Nella costruzione di un edificio o di altra 
Opera data in appalto non hanno azione 
Contro il committente dei lavori se non fino 
Alla concorrenza del debito che egli 
Ha verso l’imprenditore nel tempo 
In cui promuovono le loro azioni. 
 
Cosicché risultava che i cottimisti avessero  la possibilità di agire e nei confronti del 
capo-cottimista e, in via sussidiaria e di garanzia, anche verso l’imprenditore. 
                                                 
7
 BARASSI, op. ult. cit., Vol. II,  p. 615