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Nel terzo capitolo sono stati esaminati e confrontati i due modelli teorici principali, i
quali hanno influenzato la visione della malattia e della disabilità: il modello biomedico
tradizionale, che ha dominato il panorama sanitario per oltre un secolo, e il modello
sociale, promosso dai movimenti internazionali delle persone con disabilità.
Mentre il primo si focalizza sulla patologia, vista come strettamente connessa
all’individuo che ne è portatore, il modello sociale si concentra sulle barriere esistenti
all’interno della società, che limitano la partecipazione delle persone con disabilità alla
vita comunitaria e lavorativa.
Il quarto capitolo è interamente dedicato all’ultimo modello teorico relativo alla salute e
alla malattia, denominato “Biopsicosociale”, il quale permette di integrare in modo
olistico le dicotomie relative ai due modelli precedenti, contribuendo fortemente alla
riconsiderazione del paziente in quanto persona, con precisi diritti e necessità. Tale
modello ha fornito un importante contributo nella considerazione dell’individuo come
influenzato dai fattori biologici, psicologici e sociali, ampliando in questo modo non
soltanto la prospettiva riguardo al tipo di trattamento, ma anche la considerazione stessa
del soggetto, visto come un individuo che, a seconda del contesto, avrà diversi livelli di
funzionamento. Cambia anche il tipo di classificazione, la quale, utilizzando una
terminologia neutra, riflette la relatività delle condizioni di disabilità, dipendente
dall’interazione tra le caratteristiche dell’individuo combinate con quelle del contesto.
Nonostante gli evidenti meriti del modello biopsicosociale, diversi autori ne hanno
sottolineato i limiti, in particolare gli studiosi appartenenti alla Psicologia Critica della
Salute.
Il quinto capitolo sarà interamente dedicato a tale approccio critico alla psicologia, il
quale assume l’importanza della considerazione del punto di vista soggettivo nella presa
in carico del paziente e nella messa in atto delle ricerche, adottando una metodologia di
tipo qualitativo, incentrata in particolare sullo studio delle storie di vita dei pazienti,
come mezzo fondamentale per cogliere pienamente la soggettività e le esperienze di
dolore dell’individuo. La considerazione della soggettività del paziente è essenziale non
soltanto per arrivare ad una corretta diagnosi, la quale porta ad un processo di cura
adeguato alle necessità del singolo individuo, ma anche per sviluppare delle politiche
che tengano conto dell’individualità dell’esperienza di malattia, in particolare nelle
condizioni croniche delle persone con disabilità.
Nell’ultimo capitolo saranno presentate le conclusioni del lavoro.
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Capitolo 1
L’evoluzione storica della concezione di salute e disabilità
Il Novecento può essere letto come il secolo durante il quale si sono andate
consolidando la cultura e la pratica dei diritti umani: a partire da essi la salute ha
ricevuto una sorta di riconoscimento giuridico. Un valore essenziale, infatti, è stato
conferito al cosiddetto “diritto alla salute”, inteso sia come diritto all’assistenza
sanitaria, sia come diritto del singolo a decidere su quanto riguarda la sua salute e la sua
malattia. A partire dal riconoscimento dell’esistenza di un diritto di ciascuno alla salute,
si definiscono le questioni dell’autodeterminazione rispetto alle cure e dell’equità della
salute, e da qui la questione della giusta distribuzione delle risorse (Galvagni, 2005).
Spaltro (1995) parla dell’evoluzione del significato del termine “salute”, individuando
tre periodi: il periodo medico, centrato sull’idea di lotta contro la malattia e sulla salute
intesa come assenza di sintomi patologici; il periodo della sanità, focalizzato
sull’obiettivo di abbattere la mortalità attraverso la prevenzione dei fattori e dei
comportamenti che possono favorire l’insorgenza di situazioni patologiche; il periodo
della formazione, il cui punto cardine è l’educazione alla salute, intesa come costruzione
di atteggiamenti e comportamenti finalizzati al mantenimento e alla diffusione del
benessere personale, lavorativo e sociale. Oggi la salute non è più considerata
semplicemente come una condizione di assenza di malattia, ma piuttosto come una
situazione di armonico equilibrio funzionale, fisico e psichico dell’individuo,
dinamicamente integrato nel suo ambiente di vita naturale e sociale (Gabassi, 2005).
L’evoluzione e il mutamento della concezione di salute hanno prodotto un cambiamento
anche nel modo di concepire la malattia, in particolare la disabilità degli individui. Si è
passati dal considerarli come “anormali”, sino ai tempi recenti, in cui vi è la
considerazione dei fattori multipli che concorrono nel creare la disabilità. Nella lingua
inglese il concetto di norma si fece strada intorno al 1840; nel 1883 Galton, tenendo
conto della curva di Gauss, propose l’idea di “distribuzione normale” per indicare la
continuità nella distribuzione di alcune caratteristiche nella popolazione generale. La
diffusione dell’idea di norma ebbe conseguenze negative e contribuì alla messa in atto
di interventi negativi e disumanizzanti nei confronti di gruppi di persone (Masala,
Petretto, 2008). Infatti, il concetto di disabilità si oppone nella storia a quello di
normalità. Il giudizio di anormalità è in larga misura legato alla difficoltà di capire e
accettare qualcosa che appare come eccezionale.
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L’idea di normalità è una creazione della società, e discende dalle esigenze del gruppo
sociale dominante di realizzare e confermare una forma sociale gerarchizzata
(Giovagnoli, 2006).
Con gli anni si sono delineate prospettive che concepivano la salute e la disabilità in
modo differente: si è assistito infatti al passaggio dalla definizione della salute come
“stato”, come condizione statica, ad una concezione di salute come “processo”,
composto da diversi fattori che concorrono a determinarlo. Di conseguenza anche la
visione della disabilità è mutata: da “attributo” individuale si è giunti a considerarla
come un “processo”, caratterizzato da un’interazione dinamica di molteplici componenti
che possono accentuarlo o ridurlo.
Il tema della disabilità si colloca in una prospettiva che intreccia elementi sociali,
culturali, politico-istituzionali con l’esperienza di chi vive la disabilità: scegliere l’ottica
di relazione tra le diverse dimensioni permette di uscire da una rappresentazione che
riduce la disabilità a semplici modellizzazioni. Le questioni relative all’inclusione o
all’esclusione delle persone disabili non possono essere disgiunte da quelle relative al
processo complessivo di coesione o dissociazione sociale. Per tale motivo diventa
importante indagare l’evoluzione che il concetto di disabilità ha avuto nel corso del
tempo nel suo incontro con le diverse teorie ed organizzazioni sociali che hanno ispirato
il concetto di normalità e patologia (Medeghini, Valtellina, 2006).
1.1. La prima metà del XX secolo: dalla salute come “assenza di malattia” a
“stato di completo benessere”
Nell’orizzonte contemporaneo, il concetto di salute può essere disegnato a partire da
alcune definizioni che le istituzioni preposte alla sanità a livello mondiale ne hanno
fornito (Galvagni, 2005).
Nel passato il concetto di salute era semplice, facilmente comprensibile e basato su
un’affermazione negativa: “sano è colui che non ha malattie” oppure “chi ha malattie
non è sano” oppure “salute è assenza di malattie” (Paccagnella, 2005). Tale concezione
era dovuta al prevalere di un modello medico tradizionale, di tipo positivista e
riduzionista, il quale si focalizzava principalmente sulla patologia da curare, trascurando
le altre variabili di influenza. Tuttavia, all’inizio del XX secolo molteplici cause
cominciarono a rivelare l’inadeguatezza di tale concezione semplicistica.
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Gli aspetti di tale transizione riguardavano non soltanto la patologia, ma anche altre
importanti caratteristiche sociali e demografiche: il passaggio da epidemie di malattie
infettive, curabili e guaribili, ad epidemie di malattie cronico-degenerative, curabili, ma
per lo più non guaribili; l’invecchiamento della popolazione, che si intreccia con il
cambiamento della patologia in una serie di rapporti reciproci di causa ed effetto; i
cambiamenti rapidi degli stili di vita e dei comportamenti (sedentarietà, alimentazione,
fumo, alcool, droghe, etc.) con relativo aumento di patologie comportamentali; il rapido
aumento della patologia mentale (depressioni, ansie, anoressie, bulimie, etc.) e del
disagio sociale (Paccagnella, 2005).
Lo sviluppo delle scienze mediche riguardante in particolare le patologie del corpo
umano consentì di riconoscere, mediante tecniche e strumenti nuovi, l’esistenza di
malattie in fase pre-sintomatica, ossia prima che la persona colpita se ne rendesse conto,
continuando a ritenersi sana. Inoltre, cominciarono ad evolversi le conoscenze nel
campo delle malattie mentali e successivamente anche nel campo delle scienze sociali,
delle scienze politiche e delle scienze economiche, con le relative implicazioni nei
riguardi della salute umana (Paccagnella, 2005).
Il progressivo allargamento della prospettiva sanitaria alle condizioni sociali e psichiche
rappresentò all’epoca un progresso rispetto alla concezione tradizionale, la quale vedeva
la salute solo in contrapposizione alla patologia. A sua volta la dicotomia salute\malattia
si era affermata, dalla seconda metà del 1800, parallelamente allo sviluppo della
medicina scientifica che, superando le concezioni pseudoscientifiche del passato, era in
grado di descrivere oggettivamente le varie forme morbose e di individuare in molti casi
le noxae patogene (Belleri, 2005). Nell’immediato dopoguerra si stava iniziando ad
affermare il principio secondo il quale pace e progresso potevano essere mantenuti solo
con una maggiore giustizia fra i popoli. A partire da ciò venne promulgata la
“Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, tra i quali spiccava il diritto alla
salute. Gli Stati istituzionalizzarono la suddivisione dei disabili in categorie, e la
separazione degli stessi dal contesto sociale; lo svantaggio veniva monetizzato e
misurato in percentuale rispetto alla piena abilità lavorativa. La ratio era ancora quella
della legittimazione dell’esclusione, seppure compensata da interventi assistenziali. In
quegli anni, durante e dopo il 1945, le ricerche terapeutiche in psichiatria e nella
riabilitazione crebbero vertiginosamente (Giovagnoli, 2006).
Nel 1948 l’Organizzazione Mondiale della Sanità definì la salute come “uno stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale e non meramente l’assenza di malattia o
infermità”.
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Tale visione fu innovativa per tre ragioni: era una definizione positiva, che, al contrario
di quella negativa, delineava la salute non come mera assenza di malattia; riconosceva
le diverse dimensioni dello status di salute, inclusi gli aspetti mentali, fisici e sociali;
includeva considerazioni politiche e sociali. Tuttavia, con tale definizione era difficile
per molte persone essere categorizzate come sane (Lyons, Chamberlain, 2006).
L’impatto della nuova concezione è stato enorme nel campo della cultura, delle scienze
e delle politiche sanitarie. L’affermazione positiva della salute come benessere fisico,
mentale e sociale della persona, provocò una sorta di terremoto nel campo della
medicina, che, impegnata da secoli quasi esclusivamente nello studio e nella lotta contro
le malattie per diagnosticarle, per curarle, per prevenirle e per prolungare la vita dei
malati, si trovò impreparata di fronte alla nuova prospettiva di tutelare e promuovere la
salute (Paccagnella, 2005). Tuttavia, la definizione del 1948 faceva riferimento
soprattutto alla dimensione personale, in quanto la salute veniva ricondotta ad uno stato
di “completo benessere”, dai prevalenti connotati emotivi e soggettivi.
Probabilmente agli occhi dei fondatori dell’OMS la vittoriosa “battaglia” sulle infezioni
faceva presagire un futuro di facili conquiste sanitarie e quindi giustificava una meta più
ambiziosa rispetto all’assenza di infermità: vale a dire quello “stato di completo
benessere psichico, fisico e sociale”, che divenne così una parola d’ordine e una sorta di
linea guida di politica sanitaria (Belleri, 2005).
Il modello biomedico, che aveva prevalso sino ad allora ed risultava efficace per curare
le malattie in fase acuta, cominciò a risultare inadeguato davanti alle condizioni
patologiche croniche, dal momento che si focalizzava solo sulla patologia e sul
conseguente trattamento, trascurando in questo modo la multidimensionalità della
malattia (Carroll, 1992). Iniziò quindi a delinearsi un mutamento nella concezione della
cura: mentre nella fase delle malattie acute ci si concentrava prevalentemente sul
trattamento, con il cambiamento del quadro epidemiologico si verificò la necessità di
una nuova presa in carico della persona, una maggiore focalizzazione sull’aver cura
(care) del paziente, rispetto al mero trattamento (cure) dei pazienti con patologie acute
(Grassi, 2008).
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1.2. Gli anni Cinquanta e Sessanta: i primi movimenti internazionali contro
la discriminazione delle persone con disabilità
Negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda Guerra Mondiale, lo stato
della salute pubblica in molti Paesi era precario, e l’azione dell’OMS si focalizzava
sull’offensiva contro le malattie che causavano i maggiori danni, come la malaria e la
tubercolosi. Successivamente, gli Stati Membri cambiarono gradualmente il loro
approccio: lo scopo non era più soltanto quello di combattere epidemie, ma anche la
malattia in sé. Le priorità cambiano ed il concetto di salute subisce un’evoluzione: la
salute viene considerata sempre più prerequisito indispensabile allo sviluppo industriale
ed al progresso sociale in generale. Ne derivano conseguenze pratiche per gli Stati e per
le Organizzazioni Internazionali. Un elemento di questa nuova tendenza è l’importanza
data da molti Paesi nell’ambito dei loro programmi di istruzione agli aspetti sociali della
prevenzione di malattia e protezione della salute. Nella sfera fisica la prevenzione
interviene sulle cause che possono generare la malattia, si situa prima, intervenendo sui
fattori di rischio onde evitare il processo morboso e le sue complicanze (Grassi, 2008).
Inoltre, i governi si resero conto di non poter sviluppare la propria sanità pubblica e i
servizi di assistenza medica senza uno staff ben preparato ed addestrato: di
conseguenza, venne data maggiore attenzione ai programmi di istruzione e di
addestramento (Scudeller, 2000).
Tuttavia, sino alla metà degli anni Cinquanta l’approccio prevalente nei confronti dei
disabili era ancora di tipo assistenziale e sanitario: le Nazioni Unite appoggiarono i
diritti delle persone con disabilità a ricevere assistenza e servizi pubblici. Prevaleva la
visione della persona con disabilità come bisognosa di aiuto: le soluzioni conseguenti
erano di tipo istituzionale o monetario, e i protagonisti principali erano gli operatori che
si prendevano cura della persona. L’influenza del modello medico tradizionale portava
alla considerazione delle persone con disabilità come malate, inabili e invalide. La
persona con disabilità doveva affidarsi in tutto e per tutto all’ambiente sanitario, e il
compito della società era quello di destinare risorse soprattutto allo sviluppo della
medicina e al mantenimento di strutture e personale specifico. Questa era una politica
volta all’approccio medico: la società ha un problema, la persona con disabilità ha
bisogno di cure e riabilitazione, le soluzioni sono ospedali o centri specializzati, e i
protagonisti sono gli operatori sanitari (Sedran, 2004).
Da qui, le persone con disabilità venivano trattate in modo differente e prevalentemente
in contesti assistenziali o sanitari.
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Quello diffuso era quindi un tipo di modello segregante, istituzionalizzante e speciale,
all’interno del quale la persona disabile veniva relegata nel ruolo passivo di ricettore di
cure.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti diedero luogo ai primi tentativi
di rimozione delle barriere architettoniche dall’ambiente costruito. La matrice di questo
approccio era incentrata sulle caratteristiche della disabilità. Inoltre, si stava iniziando a
dare risalto alle ricerche che dimostravano come la vita in istituto aggravava, causava e
promuoveva il ritardo mentale. Venne analizzata l’influenza negativa
dell’istituzionalizzazione, evidenziando come l’approccio degli operatori negli istituti
tendesse a consolidare la dipendenza e la totale passività del paziente (Giovagnoli,
2006). L’approccio prevalente era ancora esclusivamente di tipo autoritario,
paternalistico o perfino prevaricativo. Ciò stimolò una fase importante di
autodefinizione portata avanti dai diretti interessati, che ebbe inizio a intorno alla metà
degli anni Sessanta. In questo periodo, le associazioni di genitori di soggetti con
disabilità iniziano a diffondersi in tutto il mondo.
Nel 1968 e nel 1969 i movimenti di contestazione verso tutte le forme discriminative ed
emarginanti della società riconobbero fra le vittime del “sistema”, accanto agli
svantaggiati sociali, le persone con disabilità. Veniva contestata l’ottica esclusivamente
medico-specialistica, che comportava la considerazione della persona in funzione del
suo deficit, il suo inserimento in una struttura monospecialistica e la sua separazione dai
coetanei e dalla famiglia.
La contestazione presentava il concetto di disabilità come un problema non solo del
singolo ma della società, alla quale veniva ricondotta la responsabilità della sua genesi.
Il suo trattamento doveva quindi essere essenzialmente pedagogico-sociale e
coinvolgere il gruppo sociale di appartenenza (Giovagnoli, 2006).
1.2.1. Il “Movimento per la Vita Indipendente”
Tra i numerosi movimenti sorti negli anni Sessanta a favore delle persone con disabilità
ve ne fu uno, nato negli Stati Uniti, denominato “Movimento per la Vita Indipendente
delle Persone con Disabilità”. Tale movimento nacque dalla protesta di alcuni studenti
universitari disabili i quali, a causa delle limitazioni nella gestione dell’ospedale
dell’università dove vivevano, avevano una vita sociale e comunitaria molto limitata, e
spesso non potevano accedere ai servizi universitari a causa delle barriere ambientali.
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Per superare queste ed altre limitazioni, essi costituirono il primo “Centro per la Vita
Indipendente”, usando uno slogan particolare: “la disabilità è un problema di diritti,
piuttosto che di carità ed assistenza” (www.inrca.it).
Il movimento comprendeva pochi semplici princìpi, tra i quali la considerazione del
fatto che i soli veri esperti sulla disabilità erano le stesse persone con disabilità; inoltre,
veniva sottolineato il diritto alla scelta autonoma su come vivere e su come impiegare le
risorse economiche ricevute dallo Stato. Le persone con disabilità dovevano quindi
essere considerate come titolari degli stessi diritti e delle stesse opportunità di tutti gli
altri cittadini. Inoltre, essi sottolinearono l’inadeguatezza del modello medico
tradizionale, il quale vedeva la disabilità come problema del singolo, e non come
problema della società, incapace di accogliere le necessità di tutti i cittadini. Tale
modello medico utilizzava etichette diagnostiche che tendevano a dividere le persone
disabili in molti diversi gruppi, impedendo loro di riconoscersi come un gruppo che
condivideva molti degli stessi problemi. L’attenzione venne inoltre focalizzata
sull’importanza di riconoscere che tutti, indipendentemente dal tipo di disabilità,
potevano imparare ad assumersi maggiore responsabilità, prendere maggiori decisioni
riguardo alla loro vita ed apportare un contributo maggiore alle loro famiglie e alla
comunità.
Nei primi anni Settanta, con l’apertura del primo “Centro per la Vita Indipendente” in
Berkeley, in California, l’approccio ai problemi delle persone con disabilità andò
modificandosi. Gradualmente la filosofia e le pratiche della Vita Indipendente si
diffusero rapidamente negli Stati Uniti e nel mondo. I movimenti delle persone con
disabilità acquisirono forza, appropriandosi criticamente di tutte le rivendicazioni
portate avanti contro le discriminazioni razziali e dal movimento femminista. Dopo aver
messo a fuoco con chiarezza gli stili di approccio che la società aveva storicamente
applicato al problema della disabilità, questi movimenti riconobbero nella disabilità un
ambito non tanto e non solo di politica medica o assistenziale, ma di lotta per il pieno
godimento di diritti, cominciando a proporre alla coscienza sociale la consapevolezza
delle problematiche sociali che si riconoscevano nel termine “disabilità”. Il convergere
di questi fattori portò ad elaborare una critica dell’approccio tradizionale al problema
della disabilità, e rese evidente la necessità di un nuovo modello teorico e applicativo
(Fazzi Bosisio, 2003).
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1.3. Gli anni Settanta: la persona disabile da oggetto a soggetto della cura
Gli anni Settanta furono prolifici, non soltanto riguardo al tema della salute e della
malattia, ma anche riguardo alla disabilità e al modo di concepirla. Iniziarono infatti a
svilupparsi i primi modelli concettuali riguardo al tema della disabilità, in
considerazione non solo dei fattori esclusivamente biologici, ma anche del contesto di
vita e dei potenziali fattori ostacolanti. Il primo modello fu quello elaborato dal
sociologo Saad Z. Nagi, il quale si preoccupò di studiare una concezione della disabilità
che considerasse l’importanza dell’ambiente, dei fattori familiari e della società
nell’influenzare la disabilità. Il prossimo capitolo si occuperà interamente dei modelli
teorici della disabilità sviluppati a partire dagli anni Sessanta, sino a quello attuale.
1.3.1. La “Dichiarazione sui Diritti delle Persone con Disabilità”
Nel 1971 venne adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il primo
documento sulla disabilità, denominato “Declaration on the Rights of Mentally
Retarded Persons”, il quale sottolineava l’importanza di accordare alle persone con
ritardo mentale gli stessi diritti riconosciuti agli altri esseri umani, così come i diritti
specifici corrispondenti ai loro bisogni sanitari, educativi e sociali.
Di pochi anni successiva, la “Declaration on the Rights of Disabled Persons”,
approvata dalla risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU del 9 Dicembre 1975,
proclamava eguali diritti civili e politici per le persone con disabilità. Con tale
documento vennero poste le basi per l’eguaglianza del trattamento e l’accesso ai servizi,
e iniziò l’azione positiva dell’ONU per favorire lo sviluppo dell’integrazione sociale
delle persone con disabilità (Giovagnoli, 2006). Al portatore di handicap,
indipendentemente dall’origine, dalla natura e dalla gravità delle sue difficoltà, vennero
riconosciuti gli stessi diritti fondamentali dei suoi concittadini di pari età, il che
comportò come primo e principale diritto quello di fruire, nella maggiore misura
possibile, di un’esistenza dignitosa altrettanto ricca e normale. Venne inoltre
sottolineata l’importanza della partecipazione alle attività sociali e ricreative, il diritto di
ottenere e conservare un impiego. La Dichiarazione segnò un importante passo nel
riconoscimento e nella considerazione dei disabili in quanto persone, e non solamente in
funzione della loro condizione.
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1.3.2. Il Modello Sociale della Disabilità e il nuovo approccio alla cura
I movimenti delle persone con disabilità ebbero grande influenza in quegli anni, e
lottarono in opposizione alla concezione tradizionale della disabilità. Da questi
movimenti, nacque un nuovo modello della disabilità, definito “Sociale”, secondo il
quale la disabilità è una condizione umana, che procura un forte rischio di
discriminazione sociale per la persona. La società viene considerata responsabile
dell’eliminazione di ogni barriera che impedisce il godimento dei diritti da parte dei
cittadini con disabilità, che come tutti gli altri cittadini devono poter esercitare il loro
ruolo.
La discriminazione mette a rischio il pieno godimento dei diritti delle persone con
disabilità; le soluzioni sono l’eliminazione delle discriminazioni basate sulla disabilità e
le azioni di “discriminazione positiva” per favorire le pari opportunità; i protagonisti
diventano le persone con disabilità e le loro organizzazioni (Fazzi Bosisio, 2003).
Conseguentemente, avvenne un mutamento anche nel tipo di approccio alla cura della
persona malata e con disabilità: infatti, dall’approccio assistenziale, totalmente passivo e
istituzionalizzante, all’interno del quale solamente l’operatore aveva la responsabilità
del trattamento, si iniziò a inserire una nuova prospettiva, l’approccio di assistenza
sociale, che pose una particolare attenzione alle barriere create dalla società, considerate
un ostacolo per la vita indipendente e per la partecipazione alla vita sociale delle
persone con disabilità. Tale approccio si fonda non più sul modello biomedico
tradizionale, come il precedente approccio assistenziale, ma sul modello sociale della
disabilità. Tale modello fa slittare il focus del problema dalla menomazione alla
disabilità, comprendendo con questo termine l’insieme delle barriere sociali, ambientali
e attitudinali che svolgono una funzione disabilitante sul soggetto in questione, a partire
dalle caratteristiche della menomazione da lui manifestata (Checcucci, 2005).
1.3.3. La nascita del Modello Biopsicosociale
Con i movimenti sociali e le controculture degli anni Sessanta e Settanta si arrivò ad un
comune riferimento di un panorama olistico di salute come un’opposizione al
paradigma biomedico tradizionale. La salute viene concepita come un valore in sé e
come una prassi di partecipazione attiva del soggetto al suo mantenimento.
Nel 1977 lo psichiatra americano George Engel sviluppò una nuova prospettiva sulla
salute, definita come “Modello Biopsicosociale”, che ebbe una grande influenza sul
modo di concepire e affrontare la salute e la malattia.
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La concezione olistica presuppone un’unità inscindibile di mente e corpo, portando al
riconoscimento delle loro reciproche influenze e a una visione di malattia come
qualcosa di più che un semplice fatto fisico-chimico, dal momento che essa implica
dimensioni che trascendono la pura realtà biologica.
A partire da queste esperienze, comincia a delinearsi un’idea di riabilitazione che non si
racchiude negli aspetti medici, ma si proietta all’esterno, poichè comprende che l’atto
medico può avere effetto solo e soprattutto se la persona, il disabile, vive una
condizione che dà un senso a quello stesso atto. L’inserimento sociale quindi non viene
più visto come l’obiettivo da raggiungere, ma al contrario diviene quella condizione che
può ottimizzare e dare concretezza al lavoro del terapista, teso a migliorare il
movimento, l’abilità, la capacità di comprensione. Non si muove infatti nella ristretta
ottica di promuovere alcuni servizi per i disabili, ma, al contrario, pone al centro la
persona disabile, la sua famiglia, i suoi bisogni e chiama in causa tutte le istituzioni,
pubbliche e private, perché facciano ciascuna la propria parte nel garantire alla persona
disabile pari opportunità di integrazione e di affermazione di sé (Battaglia, 2005).
Si manifesta in questa fase un approccio innovativo al problema, non finalizzato più al
ricovero, alla istituzionalizzazione, ai percorsi paralleli o speciali, ma teso a costruire
una rete di sostegno e di opportunità per la persona disabile e la sua famiglia, in modo
da rendere possibile e facilitare il processo di integrazione.
1.3.4. Lo sviluppo della Promozione della salute: la Dichiarazione di Alma Ata
Nel 1978 ci fu una svolta nella definizione del concetto di cure primarie. La
Dichiarazione di Alma Ata evidenziò il bisogno di passare dal tradizionale modello
biomedico (basato sulla cura dei singoli episodi di malattia e su un approccio
paternalistico) ad un modello biopsicosociale (basato sulla prevenzione, sulla continuità
delle cure, sulla costituzione di team assistenziali, su un ruolo diretto dei pazienti nella
gestione delle malattie). Inoltre, con tale Dichiarazione l’OMS diede espressione e
ufficialità alle riflessioni più interessanti effettuate in quel periodo sul tema della salute,
sottolineando l’importanza degli stili di vita, la rilevanza del problema ambientale, la
necessità che sia l’individuo stesso artefice del proprio benessere, in un contesto
familiare e di mondo vitale che ne potenzi le capacità (Lanzetti, 2005).
La promozione della salute comprendeva quindi il raggiungimento della massima
fiducia in sé stessi e nella collettività, la partecipazione attiva non delegata, la
correzione delle disuguaglianze in termini di salute all’interno e tra i vari Stati.
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L’assistenza sanitaria di base venne considerata essenziale, fondata su metodi pratici e
tecnologie appropriate, e resa universalmente accessibile agli individui e alle famiglie
nella collettività, attraverso la loro piena partecipazione. L’approccio all’assistenza
sanitaria di base racchiudeva i seguenti fattori chiave: equità, coinvolgimento e
partecipazione della comunità, intersettorialità, adeguatezza della tecnologia e costi
accessibili. Promuovendo l’educazione alla salute presso i propri pazienti e perorando la
causa per conto della comunità, il personale medico e sanitario occupava una posizione
di rilievo per sostenere i bisogni individuali e influenzare le politiche e i programmi che
incidevano sulla salute della comunità (OMS, 1978).
La salute venne definita non più solamente come “uno stato di completo benessere
fisico, psichico e sociale”, ma anche come “un fondamentale diritto umano”. Inoltre, il
conseguimento del più alto livello possibile di salute venne considerato l’obiettivo
sociale più importante, la cui realizzazione richiedeva la partecipazione di numerosi
settori sociali ed economici, oltre a quelli sanitari (Grassi, 2008).
1.3.5. La nascita della Psicologia della Salute
La transizione dall’idea di salute, come assenza di malattia, a quella di benessere, come
risultato dell’interazione di fattori sociali, psicologici e biologici, ha implicato il
superamento dei modelli diagnostici ed eziopatologici tradizionali, in favore di un
approccio biopsicosociale alla salute. All’idea di cura della malattia si è sostituita quella
di tutela della salute, concepita come correlata a situazioni sociali complesse ed alle
abitudini di vita individuali. L’accresciuta consapevolezza dell’influenza che i fattori
connessi allo stile di vita e gli stress psicosociali esercitano sulla salute individuale,
portò alla fine degli anni Settanta alla nascita della Psicologia della Salute, che oggi
costituisce un campo integrato di conoscenze psicologiche, miranti alla tutela ed alla
promozione della salute (Di Maria, 2000). Il concetto di promozione della salute è
inteso come il processo attraverso cui le persone incrementano il controllo e la gestione
diretta delle proprie condizioni di benessere e/o disagio.
Il concetto di salute reca in sé un duplice assunto, in base al quale la salute costituisce
una dimensione soggettiva (in quanto esperita e costruita dal soggetto) e plurale che,
come tale, non può essere valutata attraverso il ricorso esclusivo a parametri oggettivi
e/o quantitativi, né in termini meramente individuali. La concezione di benessere
consente di pensare ad interventi psicologici rivolti alla comunità, la cui finalità si
sposta dalla cura/guarigione all’apprendimento/insegnamento delle conoscenze e delle
strategie più utili a promuovere climi funzionali e salutari (Di Maria, 2000).
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In riferimento all’insegnamento delle strategie utili per il raggiungimento di un clima
funzionale, intorno agli anni Ottanta venne avvertita a livello mondiale l’esigenza di
definire delle “skills for life”, intese come quelle abilità e competenze che è necessario
apprendere per mettersi in relazione con gli altri e per affrontare i problemi, le pressioni
e gli stress della vita quotidiana (OMS, 1993). Sul finire degli anni Ottanta l’OMS
fondò l’attività di prevenzione sull’attivazione di processi di formazione da realizzare
nelle scuole, in modo da far acquisire a ciascun ragazzo quei saperi, abilità e
competenze in grado di aiutarlo a diventare una persona, un cittadino, un lavoratore
responsabile, partecipe alla vita sociale, capace di assumere ruoli e funzioni in modo
autonomo, in grado di saper affrontare le vicissitudini dell’esistenza. L’istruzione e la
formazione rappresentano le vie con cui “attrezzare” il singolo individuo, a partire
dall’infanzia, di quelle conoscenze, abilità e competenze atte a permettergli di affrontare
e risolvere i vari problemi che la vita quotidiana gli riserva (Cattaneo, 2006).
Nel 1993 l’OMS pubblicò il documento “life skills education in schools”, contenente
l’elenco delle abilità personali e relazionali utili per gestire positivamente i rapporti tra
il singolo e gli altri soggetti. Il nucleo fondamentale delle skills of life era costituito
dalle seguenti abilità e competenze (Marmocchi et al., 2004):
1. Decision making (capacità di prendere decisioni): competenza che aiuta ad
affrontare in maniera costruttiva le decisioni nei vari momenti della vita. La capacità di
elaborare attivamente il processo decisionale, valutando le differenti opzioni e le
conseguenze delle scelte possibili, può avere effetti positivi sul piano della salute, intesa
nella sua accezione più ampia;
2. Problem solving (capacità di risolvere i problemi): questa capacità permette di
affrontare i problemi della vita in modo costruttivo;
3. Pensiero creativo: agisce in modo sinergico rispetto alle due competenze
sopracitate, permettendo di esplorare le alternative possibili e le conseguenze che
derivano dal fare e dal non fare determinate azioni. Può aiutare a rispondere in maniera
adattiva e flessibile alle situazioni di vita quotidiana;
4. Pensiero critico: è l’abilità ad analizzare le informazioni e le esperienze in
maniera obiettiva. Può contribuire alla promozione della salute, aiutando a riconoscere e
valutare i fattori che influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti;
5. Comunicazione efficace: sapersi esprimere, sia sul piano verbale che non
verbale, con modalità appropriate rispetto alla cultura e alle situazioni;
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6. Capacità di relazioni interpersonali: aiuta a mettersi in relazione e a interagire
con gli altri in maniera positiva, riuscire a creare e mantenere relazioni amichevoli che
possono avere forte rilievo sul benessere mentale e sociale;
7. Autoconsapevolezza: ossia il riconoscimento di sé, del proprio carattere, delle
proprie forze e debolezze, dei propri desideri e delle proprie insofferenze. Si tratta di un
perequisito di base per la comunicazione efficace, per instaurare relazioni interpersonali,
per sviluppare empatia nei confronti degli altri;
8. Empatia: è la capacità di immaginare come possa essere la vita per un’altra
persona anche in situazioni con le quali non si ha familiarità;
9. Gestione delle emozioni:implica il riconoscimento delle emozioni in noi stessi e
negli altri, la consapevolezza di quanto le emozioni influenzino i comportamento e la
capacità di rispondere alle medesime in maniera appropriata;
10. Gestione dello stress:consiste nel riconoscere le fonti di stress nella vita
quotidiana e nell’agire in modo da controllare i diversi livelli di stress;
Le life skills propongono la promozione della salute come sviluppo delle potenzialità
umane. Sono state emanate allo scopo di considerare la salute fisica e mentale come una
materia la cui tutela non va affidata esclusivamente al settore sanitario, ma va promossa
agli individui in ogni ambito della società, per permettere loro di favorire il proprio
potenziale di salute e benessere. In particolare le life skills si propongono di facilitare,
soprattutto nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche nei luoghi di lavoro e
in ambito adulto e personale, lo sviluppo delle competenze emozionali e relazionali per
gestire efficacemente le proprie relazioni interpersonali. Con la promozione delle life
skills, l’OMS avvia una strategia di prevenzione attraverso processi di istruzione e di
formazione, assumendone il concetto di salute del singolo come stato di benessere
psico-fisico e relazionale in continuo divenire (Cattaneo, 2006).