9
nei maggiori centri dell’Italia centro-settentrionale e moderatamente al Sud con Napoli a far da
traino. Esse sono state adottate dal Comune come fanalini di coda nell’ambito dell’istituzione
comunale almeno fino alla metà degli anni ’80, prima di collocarsi in una posizione da cui
avrebbero potuto gestirsi senza terzi. Difatti il quoziente decisionale delle Circoscrizioni nelle
manovre politiche e nelle delibere era scarso e solo dopo la tanto fremuta data del 1976, da cui
seguirono le concessioni per i regolamenti per quartieri, alcune Circoscrizioni riuscirono a brillare,
mentre per le restanti l’innovazione rimase un’opera di mera e semplice facciata. ―Dalla voce
bisognosa del cittadino, alla tendenza volontaria e coscienziosa di partecipazione popolare per la
politica nei quartieri―. Questa diventò poi la vera identità della Circoscrizione.
Discreti picchi di apprezzamento in favore delle competenze delle circoscrizioni furono
raggiunti solo da un esiguo insieme di collegi circoscrizionali con risvolti importanti in materia di
funzioni delegate e poteri propri. La maggior parte di esse erano ancora inglobate in una logica
partecipativa che si traduceva in consenso o dissenso inascoltato a scelte già concluse in altre sedi
ad opera del Comune.
Dunque era evidente che lo status della primitiva circoscrizione si sostenesse nella forma
dominante della partecipazione ma che nel corso degli anni risultò troppo stretta perfino alla stessa.
A seguito della ristrutturazione comunale caratterizzata dal rinnovo immediato degli uffici e dei
latenti percorsi burocratici e dalla spinta volontà della sinistra italiana, nacque l’idea di affidare, o
meglio trasferire ulteriori poteri delegati alle Circoscrizioni, anche in chiave di snellimento
operativo e pratico. Da lì a poco si comprese come il ruolo delle Circoscrizioni servì a colmare i
pertugi burocratici lasciati vacanti o mal gestiti dall’organizzazione comunale. Il carico degli
scomodi compiti presi in consegna dalle Circoscrizioni offrì paradossalmente uno spazio
indispensabile per il suo rilancio, attraverso una sferzante iniezione di fiducia da parte del Comune.
10
Col tempo si contarono anche le attuazioni delle delibere-quadro per le circoscrizioni attraverso i
regolamenti e le leggi che succedettero e abrogarono quella del 1976.
Il quadro normativo che ha regolato per 40 anni circa l’istituzione e l’evoluzione delle
Circoscrizioni è moderatamente corposo. Tra le più distinte norme si sottolineano: la legge n. 278
del 1976, la legge n. 142 del 1990, la legge n. 81 del 1993, la legge n. 265 del 1999. Quelle più
note coinvolgono tutta l’amministrazione italiana, i suoi corpi collegiali e il cittadino: la legge sul
procedimento amministrativo n. 241 del 1990, e le leggi Bassanini n. 59 del 1997 e n. 127 del
1997.
In relazione alla legge del 1976 tutto il corpo politico auspicava una stesura trasparente della
normativa ma che per i critici si rivelò parzialmente lacunosa e approssimativa. Ma questa legge fu
per i massimi centri circoscrizionali italiani la carta vincente per iniziare una promettente
esperienza politica nel Quartiere.
Alle leggi suddette la Circoscrizione vi affiancava ogni volta una nuova programmazione per la
gestione delle novità accordate. Palesavano oltre ai remoti obbiettivi e servizi anche quelli ulteriori
e innovativi, curati dalle attribuzioni e funzioni delle quali le circoscrizioni furono investite.
A questa reazionaria e ben voluta fase di maggiore visibilità delle circoscrizioni sono stati pronti
ad affermarsi anche i rispettivi organi, titolari esecutivi delle funzioni delegate: il presidente del
consiglio circoscrizionale e il consiglio circoscrizionale con i suoi fedeli consiglieri. Essi hanno
intrattenuto a loro vantaggio e in virtù di questa fase circoscrizionale, contatti lavorativi e personali
con gli organi del Comune, i quali a loro volta erano a volte anche infastiditi dalla condizione di
inferiorità professionale creatasi a proprio scapito, specie in alcune manovre e delibere. (vedi ad
11
esempio la precarietà professionale della giunta comunale in quello stadio)
1
.
La legge che previde un ridimensionamento verticale che abbracciò in pratica quasi tutta
l’amministrazione italiana (Comune, Provincia, in particolare) è stata la n. 142 del 1990. Essa ha
disegnato un volto più giovane e consegnato un vento rigenerante all’amministrazione fino ad
eccepire anche le recenti programmazioni delle circoscrizioni e dei municipi. In effetti i
regolamenti circoscrizionali e municipali furono inseriti all’interno degli istituti di partecipazione.
Questo passaggio segnò la continuazione dei meriti decisionali delle Circoscrizioni, ma nel
contempo allineò a questo seguito la circoscrizione come istituto di partecipazione, il ché, avrebbe
lasciato pensare all’arresto dell’escalation di competenze da essa avviata nell’ultimo decennio. La
moderna organizzazione circoscrizionale non si è lasciata disattendere; ha fatto registrare stimabili
collaborazioni e capaci soluzioni a problemi e discrasie varie. I suggerimenti hanno portato ad
esempio, ad avanzare l’istituzione di un assessorato al decentramento in grado di monitorare e
consultare in tempo reale gli organi circoscrizionali; delle commissioni consiliari strutturate in
modo da garantire il contributo in itinere delle circoscrizioni alla formazione dei provvedimenti,
prevedendo anche un vice presidente o un commissario; una Sezione decentramento impegnata in
massima parte alla circolazione informatizzata delle notizie all’interno degli organi decentrati, alla
assistenza e alla consulenza giornaliera per permettere un armonioso sviluppo delle funzioni
istituzionali.
Il consiglio circoscrizionale che è l’organo faro ed espressivo della circoscrizione ha lavorato
con mezzi indipendenti a faccende di quartiere senza richiedere consulenza ad enti superiori,
impressionando chi ha dovuto controllare e monitorare i compiti già conclusi. Esso costituiva la
struttura politica in grado di abbracciare le differenti immagini di gestione sociale e di settore.
1
In particolare la legge regionale n. 833 del 1978, che ha curato i servizi pubblici e nello
specifico quello sanitario, ha dato acuta inclinazione alla circoscrizione verso la competenza più assistita: la Sanità In
questo settore la circoscrizione è riuscita ad esprimere i suoi maggiori contributi, ritagliandosi uno spazio effettivo per
la organizzazione e la programmazione del settore sanitario locale.(Usl, distretti sanitari….)
12
Anche il Comune dovrà poi ammettere che la circoscrizione non sarebbe rimasta a vita ad esercitare
una semplice forma di assistenzialismo alla comunità del quartiere.
Il recupero della legittimità e della responsabilità politica, da sempre risorse scarse della
circoscrizione, era già in corso da tempo.
Infatti la concupiscenza politica di mutare da organo ispezionato ad organo indipendente,
stimolava l’intera equipe circoscrizionale a dare il meglio e ad affinare le proprie potenzialità
professionali. L’autonomia politica era un obbiettivo primario da accattivarsi contando sugli esiti
confortanti delle opere compiute e la qualità con cui sono state portate a termine.
Bisognava dare atto che, a medio e lungo termine, l’organizzazione di quartiere era divenuto un
prolungamento autonomo e informale del Comune. Il quartiere era divenuto più un organo del
Comune che non espressione autonoma di una comunità, ma questa etichetta fu insistentemente ad
ogni occasione misconosciuta e smentita anche sulla base delle prestazioni di direzione e
coordinamento condotte dalla circoscrizione.
In Italia in definitiva le circoscrizioni dell’area del centro-nord sembravano dunque tradursi in
un’articolazione più dettagliata, mentre il meridione si riduceva in articolazioni più semplici quasi
schematiche, rispetto ai contenuti, alle garanzie procedurali, ai vari strumenti di partecipazione.
13
CAPITOLO I
I˚ FASE (1964-1976): la genesi
I. 1 Prima fase del decentramento comunale
La fase primordiale all’istituzionalizzazione del decentramento comunale riguardava quel
periodo che andava approssimativamente dal 1964 al 1971, in cui le associazioni, gruppi politici e
partitici, comitati di quartieri spontanei, sollevavano la problematica del decentramento come il
principale momento sociale e politico da dibattere. Più approfonditamente, la contestazione si
allargava a contenuti politici più generali, fino a coinvolgere addirittura lo stesso problema
legislativo, cioè la riforma della legge comunale e provinciale entro cui il decentramento si sarebbe
dovuto realizzare. La prima fase di decentramento amministrativo riguardava un periodo in cui si
ebbe il passaggio delle istanze di base alla istituzionalizzazione del decentramento comunale
attraverso la costituzione dei consigli di zona. Le critiche principali si incentravano sui tradizionali
canali burocratico-amministrativi, di gruppi spontanei, di sezione e cellule di partito, associazioni
giovanili, circoli culturali, aspirando ad affermare un decentramento politico-sociale (da cui doveva
filtrare la domanda politica dei cittadini). Si riteneva che, all’ordinaria articolazione delle
circoscrizioni comunali (le vie amministrative) andasse affiancata un’opera di sensibilizzazione del
cittadino nei dibattiti, convegni, consultazioni, per sviluppare e promuovere il dibattito sui
disservizi sociali, con i quali i cittadini facevano i conti nel proprio quartiere
2
.
2
Pagano A. «Origini e fase attuale del decentramento» in Esperienze Amministrative, n 6, 1972, pp. 68-70
14
L’identità del decentramento, in questa fase si caratterizzava soprattutto sul discorso della
reale sottrazione dell’incidenza politica dei consigli di zona, l’incanalamento della domanda
politica dal basso, ovvero la partecipazione. Il consiglio diventava un organo politico spurio che
non era esemplificativo della composizione politica e sociale dell’area da esso rappresentata, e
nonostante stimolato dai cittadini del quartiere come cassa di risonanza, era condizionato nel
proprio agire dai legami partitici con l’amministrazione locale
3
.
Dunque il decentramento si sarebbe dovuto attuare attraverso la creazione del consiglio di
zona. Ma, prioritariamente alla procedura legislativa (che legittimava l’istituzionalizzazione del
decentramento per quartieri) il decentramento sorgeva grazie alle spinte dei movimenti culturali dei
quartieri, dalla voce della necessità e della esigenza dei soggetti locali autoctoni, per
controbilanciare l’inoperoso potere centrale
4
.
3
Ibidem, pp. 70-71.
4
Ibidem, p. 67.
15
I. 2 Seconda fase del decentramento comunale
Con la definitiva chiusura del centro sinistra a livello nazionale e l’inizio di una nuova età
governativa, si apriva la seconda fase del decentramento amministrativo databile
approssimativamente a partire dal 1972. I punti su cui ragionare si spostavano verso i poteri legati
alla funzione gestionale del consiglio di zona. La circoscrizione aveva la possibilità in questo
frangente di muoversi di fronte ad un prospetto più largo e apprezzare quali fossero davvero le sue
vere competenze. Le forme organizzative di cui il consiglio di zona si sarebbe dovuto occupare
variavano a seconda delle realtà sociali ma che si potevano enunciare in maniera generale: a) il
parere consultivo e obbligatorio per la programmazione dell’attività economica
dell’amministrazione comunale; b) la pianificazione territoriale; c) efficienza e buon
funzionamento dei servizi sociali e civili, ecc. Sostanzialmente i poteri che appartenevano alla
circoscrizione si dividevano in poteri delegati e poteri propri. I primi erano: a) la gestione
congiunta del consiglio di zona e del Comune sul patrimonio immobiliare di quest’ultimo; b) la
gestione e il coordinamento dei servizi decentrati; c) l’ordinaria manutenzione delle attrezzature ed
infrastrutture della zona; d) la politica viabilistica della zona. I secondi: a) l’elaborazione del piano
dei fabbisogni sociali della zona; b) l’autodeterminazione delle modalità di organizzazione delle
proprie attività; c) la fissazione delle modalità di gestione e i servizi sociali di competenza
5
.
5
Ibidem, pp. 74 -77
16
I. 3 Le origini della circoscrizione
Nel contesto teso ad analizzare il periodo di decentramento, si valutavano le nuove opportunità
di inserire nelle frazioni territoriali e comunali i consigli di quartiere.
Non vi è dubbio che la dimensione allargata del dibattito politico ed anche
giuridico amministrativo che si è tenuto sul tema dell’autonomia locale, del
decentramento e della partecipazione, a seguito dell’avvio dell’esperienza
regionale ed il contemporaneo estendersi delle sperimentazioni concrete di nuovi
rapporti fra ente locale e cittadini, costituiscono un terreno quanto mai fecondo
per un rilancio anche della più specifica problematica dei consigli di quartiere e di
frazione nelle città italiane
6
.
Il tentativo di favorire la partecipazione dei cittadini (o, meglio, un certo tipo di partecipazione)
alla vita politica locale si realizzava con la proposta di creare i consigli di quartiere ad imitazione di
quelli inglesi.
La proposta di creare i consigli di quartiere ad imitazione di quelli che si stanno
realizzando spontaneamente in molte città inglesi, ha accolto le istanze della
«Associazione dei consigli di quartiere» da poco tempo costituitasi allo scopo di
propagandare e promuovere questa forma di partecipazione
7
.
Questa proposta era figlia del processo di decentramento comunale sviluppatosi agli inizi degli
anni ’60. Se convenzionalmente si dovesse adattare una datazione alla nascita dei consigli
circoscrizionali, la si farebbe risalire al 1963, in seguito alla delibera del Consiglio comunale di
Bologna, istitutiva degli organi di decentramento. Da allora fino al 1972, in circa trenta città
italiane, si era registrato un incremento dell’esperienza di decentramento, e contemporaneamente in
esse, si andava costituendo la struttura di consigli di quartiere. I dati allora in possesso rilevavano
che 22 di queste città erano capoluoghi di provincia, e che ben 7 delle 8 «aree metropolitane» si
erano dotate di questi strumenti
8
. Una disgregazione territoriale di questi dati rivelava delle 28
6
Castellucci F. «Una svolta per il ruolo dei consigli di quartiere» in Esperienze Amministrative, n 6, 1972, p. 86.
7
Dente B. «Il decentramento urbano in Italia e all’estero» in Amministrare, n 37, 1972, p. 16.
8
Ibidem, p. 22.
17
esperienze censite ben 21 erano situate al Nord (escluso il Piemonte che appare assente) mentre
solo 7 (e cioè Roma, Pesaro, Napoli, Palermo, Caserta, Catania e Siracusa) erano nel Centro/Sud e
nelle isole. Infine nelle 21 esperienze del Nord ben 15, e cioè più di 2/3, erano concentrate in due
regioni, l’Emilia Romagna e la Toscana
9
. Le cause del successo ottenuto da queste esperienze di
decentramento, però, non si riscontravano in un organizzazione volta specificamente all’istituzione
dei Quartieri. Era pertanto necessario sottolineare, che l’idea come proposta di decentramento
affondava le sue radici nella carta costituzionale ai sensi dell’articolo 5 che fissava il principio
istituzionale del decentramento locale
10
. Per comprendere l’esatto significato del decentramento di
cui parla l’art. 5 della Costituzione giungeva in soccorso l’art. 3 della stessa carta costituzionale che
conferiva alla Costituzione repubblicana l’attento compito di tutelare il diritto di partecipazione
attiva delle forze sociali e dei cittadini alla determinazione della vita nazionale e stabiliva le
condizioni che lo rendevano effettivo (mediante il decentramento), rompendo quindi la concezione
autoritaria dello Stato
11
.
9
Ibidem, p. 23.
10
Lopardi U. «Decentramento e partecipazione» in Il comune democratico, rivista delle autonomie locali, n 11/12,
1975, p. 33. La repubblica attuava nei servizi che dipendevano dallo stato al più ampio decentramento amministrativo;
adeguava i principi e i metodi dalla sua legislazione alle esigenze della autonomia e del decentramento. Infatti, per non
cadere nell’ambiguità e nell’infondatezza tra l’espressione e il corrispettivo significato il testo costituzionale distingue
tra Autonomia e Decentramento
10
Ibidem, p. 34. Compito della Repubblica era rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di
fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impedivano il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.
18
Per trovare un qualche collegamento delle delibere comunali istitutive dei Quartieri, bisognava
richiamare una norma della legge comunale e provinciale del 1915
12
.
Dunque – come risultava da quanto sancito nelle norme – i consigli di quartiere non nascevano a
seguito di un provvedimento legislativo ma si imponevano nella realtà del Paese per vie
spontaneistiche.
Così nascendo hanno dato alle masse popolari la consapevolezza di una maggiore
partecipazione alla vita amministrativa e statuale, attraverso il contatto
permanente fra istituzioni e cittadini.[…] E come conseguenza positiva nasceva il
bisogno della compartecipazione; fare insieme in una società dilagante, quello che
è possibile per lo sviluppo civile della collettività […] Sorgevano così i Consigli
scolastici, i Consigli di quartiere, i Consigli sindacali di fabbrica e di zona, per i
problemi della scuola, dei servizi sociali, del territorio
13
.
Nonostante la mancanza di leggi che ne regolamentassero l’istituzione, in molte città d’Italia,
dunque si continuava a realizzare e soprattutto a legittimare la forma di decentramento comunale
14
.
La medesima forma di frazionamento comunale risultava possibile inquadrarla nelle primissime
zone volte alla specifica sperimentazione dei quartieri. Il modello bolognese, ad esempio, era
definito dalla suddivisione della città in 18 quartieri omogenei nei tratti urbanistici, con una
popolazione media di 30.000 abitanti con una gestione autosufficiente dei servizi pubblici
15
. A
capo di ogni singolo quartiere presiedeva un consiglio di quartiere, formato dai cittadini del
quartiere scelti dai partiti politici in seno al Consiglio comunale; ogni consiglio era presieduto da
un Aggiunto del Sindaco. Il consiglio svolgeva le funzioni, prevalentemente, consultive sugli atti
più interessanti del Comune (bilancio, piano regolatore) e sulle problematiche generali del
12
Romano S A, «Il decentramento comunale per quartieri: analisi e prospettive» in Rivista trimestrale di diritto
pubblico, n 1, 1975, p. 263. L’art. 155 [relativo all’aggiunto del Sindaco nei quartieri]. La norma non era altro che la
riproduzione di una disposizione ancora più antica, risalente al 1865, dettata in considerazione dell’ordinamento pre-
unitario della città di Napoli e che in realtà prevede soltanto Quartieri intesi come suddivisioni amministrative del
comune. Ovvero si trattava di una misera legge, che si riduceva all’articolo sopra citato, del T.U. approvato con R.D nel
1915 n. 148 e richiamato dall’art 10. del D.P.R. 16 Maggio 1960 n. 570. L’articolo enunciava che nei Comuni superiori
a 60.000 abitanti anche se non divisi in borgate e frazioni, il Sindaco aveva la facoltà di nominare dei delegati cui
affidare le funzioni da lui esercitate. E per questo motivo i Comuni suddetti dovevano dividersi in quartieri. In Dente
B., Il decentramento urbano in Italia…..op. cit., p. 21.
13
Lopardi U., Decentramento e part…..op. cit., p. 35.
14
Dente B., Il decentramento urbano in Italia…..op. cit., p. 23. Roma nel 1972, Bologna nel 1974, Milano nel 1974,
Torino, Catania, Venezia, Pavia, e così discorrendo.
15
Ibidem, p. 23.
19
quartiere. Il tramite tra Comune e il quartiere rimaneva sempre l’Aggiunto. A Milano invece,
innanzitutto, le dimensioni territoriali contenevano mediamente, 100.000 abitanti, che facevano
riscontrare veri e propri piccoli centri ad alta concentrazione di nuclei familiari
16
. Poi, sovviene la
corrispondente individuazione di ulteriori strumenti amministrativi per governare localmente i
cittadini residenti presso di essi. Differente era ancora poi il caso di Roma, con i suoi 2.500.000
abitanti sparsi all’interno del Comune stesso. Divisa in 12 zone di decentramento, Roma temeva un
ulteriore incremento demografico allarmante, raggiungendo in previsione negli anni a seguire, la
soglia di circa 790.000 abitanti
17
. E’ pertinente far emergere un’osservazione clamorosa che era
quella di trovarsi di fronte ad estensioni geografiche e dimensioni urbanizzate superiori a quelle dei
Borghi della grande Londra, ma che non si somigliavano nel potere dell’autonomia (in Italia non
ancora deliberato). Sia per Roma che per Milano, le funzioni del consiglio rimanevano in tutti i
sensi parallele a quelle previste a Bologna. Roma, simboleggiava il primo singolare caso di
decentramento, per le stime sopra citate, e Milano rifletteva, invece, la possibilità di far nascere i
consigli di quartiere là dove c’era necessità, senza la concausa della istituzionalizzazione del
Consiglio comunale, trovando effettivamente più congeniale la nascita dei quartieri veicolata
dall’esigenza schietta della società locale e non politicamente precostituita
18
.
I. 3 a Ulteriori considerazioni sulle origini dei Consigli di
quartiere
Il contesto che si sta considerando trova illuminante il soggettivo ragionamento di Salvatore
Alberto Romano che precisava il carattere di base per il quale i quartieri ebbero origine:
In un altro ordine di idee, si potrebbe pensare che il diffondersi delle esperienze di
decentramento sia dovuto a spinte provenienti dalla base. Ma se per «spinte di
base» si intende l’esistenza nelle città di una tradizione di vita comunitaria a
livello di Quartiere, che si sia andata via via rafforzando sino a richiedere un
16
Ibidem, pp. 23-24.
17
Ibidem, p. 24.
18
Ibidem, p. 27.
20
decentramento in quartieri cui attribuire determinate competenze e funzioni, si
può facilmente escludere una tale ipotesi, almeno per la stragrande maggioranza
dei casi. I Quartieri, infatti, specialmente nelle grandi città, non esistono come
realtà sociali; la vita di Quartiere in città dove c’è il grosso problema dei pendolari
e dei Quartieri dormitorio non ha senso. Tant’è vero che i Quartieri, quali organi
di decentramento sono Circoscrizioni o Zone che non corrispondono ai confini dei
tradizionali quartieri, ma che hanno limiti territoriali che si son dovuti creare per
l’occasione.
Se, invece, col termine «spinta di base» ci si riferisce a quei comitati o
associazioni che si formano ogni giorno nei nuovi quartieri periferici, o in zone
particolarmente disagiate, si deve rilevare, di contro, che questi sorgono per la
pressione di immanenti problemi specifici, propri di quella collettività e
propugnano condizioni in contrasto con l’atteggiamento assunto dagli organi
comunali. Conseguentemente, tali comitati, sorti per protestare contro il Comune
e collocati in posizione fortemente dialettica con gli organi comunali, è
improbabile che chiedano di diventare parte del comune stesso
19
.
Infatti, in determinate località ebbero sviluppo comitati con lo scopo di istituzionalizzare i Consigli
di quartiere, e sfuggire al potere dell’amministrazione comunale
20
.
In realtà, le forze politiche locali ritenevano in un certo qual modo i Quartieri l’unico strumento
sensibile e aperto alla riforma del Comune, nella misura in cui si sarebbero fatti carico delle
domande di efficienza per ridurre la distanza tra i cittadini e gli attori politici. L’accresciuta
responsabilità addebitata al Quartiere, indusse a condurre la pratica di questi fino a livello
municipale sotto l’etichetta di un’incentiva carica partecipativa dei cittadini alla vita comunale,
come era validamente apprendibile dalle deliberazioni comunali istitutive dei Consigli comunali.
Con l’avvenuta realizzazione dei Quartieri, le sedi dei plausibili raffronti tra la popolazione e
autorità politica comunale, si moltiplicavano. Per i politici ciò significava accrescere il volume
della conoscenza politica inserendosi presso le zone più periferiche della città.
E proprio nelle periferie delle grandi città si evidenziavano grosse motivazioni
estremiste ed extrapartitiche, che erano rivolte alla contestazione verso istituzioni
locali.
Tale pretesto ha evidenziato da una parte l’importanza del decentramento per
quartieri quale mezzo per combattere le spinte estremistiche ed extrapartitiche, e
dall’altra, la funzione vivificante che i quartieri possono svolgere sulle sezioni
19
Romano S A., Il decentramento comunale per quartiere…..op. cit., pp. 264 -266.
20
Ibidem, pp. 264 -266.
21
locali dei partiti. [...] Si è evidenziato come la creazione del Consiglio di quartiere
possa essere stato per i partiti la prospettiva di un recupero all’interno
dell’istituzione di quell’area di contestazione che sembrava sfuggire loro, e di
creare un area delle sezioni di partito
21
.
Le caratteristiche salienti di questa prima fase di decentramento ebbero come motore, dunque,
l’aspetto partecipativo, che spingeva verso la creazione di consigli di zona. Tale accezione della
definizione dei quartieri mutò la sua matrice semplicistica e prese dei lineamenti politici più
marcati e pesanti al punto di incentivare la propensione in prima persona dei cittadini alla
partecipazione
22
.
I. 4 Le organizzazioni di quartiere come risposta alla
domanda di partecipazione
La partecipazione era intesa, nel processo di decentramento, come il tentativo di ristabilire il
contatto o il rapporto tra l’operatore pubblico e la società, ovvero i politici e i cittadini. Negli ultimi
anni del 1960 e gli inizi degli anni 1970, si era fatta strada all’interno dell’ordinamento
costituzionale italiano, e ancora di più negli statuti delle regioni ordinarie. Infatti in quest’ultime la
partecipazione rappresentava il primo stadio per l’attuazione del decentramento.
Il principio della partecipazione è tuttavia presente nell’ordinamento
costituzionale come principio di fondo al quale necessariamente occorre adeguare
l’apparato pubblico e la dinamica dei poteri. [...] La partecipazione è sia la causa
che l’effetto del potere locale, voluto dalla carta costituzionale, per affiancare il
potere del governo centrale. [...] Si stabilisce dunque che il potere pubblico non si
costruisce in modo autoritario, ma è verificato in confronto con la società che si è
decentrata
23
.
21
Ibidem, pp. 266-268.
22
Dente B., Il decentramento urbano in Italia….. op. cit., p. 25.
23
Berti G, «Decentramento urbano e partecipazione» in Amministrare, n 2, 1975, pp. 65-66
22
Non vi era dubbio che sorgeva impellente la necessità di adeguare l’organizzazione alla
partecipazione. Era vero che l’autonomia normativa e amministrativa a livello locale, erano frutti
della partecipazione. Pertanto ai sensi dell’art. 128 della costituzione italiana, nasceva il dovere di
realizzare e consolidare i precetti normativi dell’autonomia locale. L’esito ultimo era quello di
attribuire la massima competenza a questa autonomia, nell’ambito dell’art. 5
24
.
Per Romano Bettini
la partecipazione amministrativa è una figura organizzatoria tipica in cui si
individuano le implicazioni istituzionali più significative nell’ambito della
«fenomenologia partecipativa» […] i cui caratteri sono definiti anche in relazione
all’esperienza dei comitati di quartiere come strumenti di partecipazione
25
.
I. 4. a Le organizzazioni di Quartiere e di zona hanno una
propria realtà
Le organizzazioni di Quartiere e di zona nacquero come risposta ad una aitante rivendicazione
di partecipazione, ad una robusta e vigorosa volontà di influenzare, anche se minimamente col
contributo della voce popolare, ad una potenziale svolta sociale
26
.
Certamente bisognava tener conto dell’evoluzioni che poi motivarono la partenza delle diverse
realtà circoscrizionali che andavano interpretate secondo le differenti angolature da cui prendevano
vita. Difatti ogni area apparteneva ad un mondo peculiare rispetto alle altre aree. Le aree erano
identità che presentavano fattezze e lineamenti socio-culturali specifici. Questo dato di fatto,
permetteva di approcciarsi alla generale condizione di decentramento locale con la consapevolezza
di affrontare nella fattispecie realtà culturali, urbane, sociali differenti che non consentivano di
elaborare progetti omogenei per tutte le zone aderenti al processo di frazionamento di quartiere.
24
Ibidem, p. 65. Un punto di appoggio si trovava nella relazione che si poteva trarre tra quanto previsto nell’art. 3 in
ordine alla partecipazione e quanto previsto dall’art. 5 in ordine all’impianto autonomistico e decentrativo
dell’organizzazione dei poteri pubblici.
25
Bettini R. «Il decentramento urbano a Roma» in Amministrare, n 2/3, 1976, p. 507.
26
Berti G., Il decentramento urbano e part….., op. cit., p. 67.