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Il fatto che la questione sia “affrontabile” non significa, d’altra parte, che sia stata
necessariamente affrontata ed, infatti, sembra trattarsi, nella fattispecie, di una questione
relativamente trascurata.
Per quanto riguarda gli obiettivi specifici di questo lavoro è nostra intenzione
cercare di portare un piccolo contributo alla discussione in materia attraverso la
connessione di due questioni che, anche a causa della divisione disciplinare richiamata,
sono troppo spesso in maniera apparentemente inesplicabile trattate separatamente: la
questione della regolazione del mercato del lavoro e la questione della giustizia sociale.
L’economia di questo lavoro non consente di affrontare esaurientemente argomenti
tanto vasti. Si tratterà allora di mettere in rilievo alcuni aspetti particolari delle due
questioni.
Rispetto alla questione della regolazione del mercato del lavoro ci concentreremo
sui servizi per l’impiego ed in particolare sulla transizione dal collocamento pubblico
alle agenzie per il lavoro private. Con riferimento invece alla giustizia sociale
affronteremo la questione partendo dal tema dei diritti di cittadinanza sociale, e del
diritto al lavoro in particolare, concentrando successivamente la nostra attenzione
sull’evoluzione del welfare state.
Con riferimento a questi specifici temi cercheremo di portare alla luce alcuni
“meccanismi” di occultamento e di mistificazione, più o meno consapevoli e più o
meno diffusi nel senso comune, ma anche, e soprattutto, nel dibattito scientifico.
Per fare questo saremo costretti a fare qualche incursione al di fuori dell’ambito
strettamente sociologico, facendo riferimento, di volta in volta, alla letteratura prodotta
in ambito storico, giuslavoristico, di filosofia politica, ecc.
Nel primo capitolo cercheremo di delineare la prima questione tratteggiando le
problematiche sottese alla “metafora” del mercato del lavoro (par. 1.1), ai meccanismi
di stratificazione sociale legati alla condizione occupazionale (par. 1.2), alla regolazione
del mercato del lavoro (par. 1.3), mentre i paragrafi successivi saranno dedicati ad un
excursus storico sul problema sociale della disoccupazione in epoca pre-industriale (par.
1.4) e industriale e sui metodi per affrontarla con particolare riferimento al dispositivo
istituzionale del collocamento, alla sua nascita (par. 1.5), sviluppo e declino (par. 1.6),
concludendo il capitolo con una introduzione alle problematiche contemporanee (par.
1.7) e con una serie di interrogativi di ricerca (par. 1.8).
7
Il secondo capitolo tratterà invece dei diversi tipi di cittadinanza e di diritti (par.
2.1), dei rischi sociali e dei sistemi di protezione sociale, compresa la tutela dalla
disoccupazione attraverso il diritto al lavoro (par. 2.2), dei diversi tipi di welfare state
(par. 2.3) e del loro declino in concomitanza con la crisi del lavoro salariato e
l’emergenza di una nuova questione sociale (par. 2.4), concentrandoci su alcuni aspetti
emergenti del cambiamento in atto: la logica della promozione (par. 2.6) e la retorica del
cliente (par. 2.7), per concludere con un collegamento alla tematica del collocamento
dal punto di vista della politica sociale (par. 2.8).
Nel terzo capitolo si cercherà infine di fare luce sul collegamento tra le questioni
affrontate nei capitoli precedenti, specificando meglio il funzionamento del job
matching (par. 3.1), collegandolo in prima istanza alla strutturazione dei reticoli sociali
attraverso la rilettura della teoria dell’embeddedness (par. 3.2) e successivamente alla
questione della giustizia sociale (par. 3.3), cercando di fornire un modello alternativo di
descrizione dell’evoluzione del mercato del lavoro (par. 3.4) in grado di mettere in
rilievo le ricadute sulla questione della giustizia sociale delle tendenze in atto (par. 3.5).
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CAPITOLO 1
UN’INTRODUZIONE STORICA:
MERCATO DEL LAVORO, DISOCCUPAZIONE, COLLOCAMENTO.
(…) la “verità” di ogni cosa è, per il pensiero
economico, il prezzo che essa ha (il valore di
scambio) in quanto merce. “Vero” è solo ciò che è
calcolabile, quantificabile e che si esprime in numeri.
Tutto il resto non ha che un’esistenza “soggettiva”,
vale a dire in qualche misura sovrapposta al mondo
della “soggettività”, e deve essere relegato ai margini
del pensiero.
(Andrè Gorz)
1.1. Un mercato sui generis; una merce fittizia.
Affermare che il mercato del lavoro è un mercato molto particolare e che il lavoro
non è una vera e propria merce può apparire banale, perlomeno se si osserva la
questione dal punto di vista del senso comune o da quello sociologico. Lo diventa un
po’ meno se la visuale adottata è di tipo economico. Ad ogni buon conto vale la pena di
spendere qualche parola introduttiva sull’argomento, sgombrando così il campo da
possibili fraintendimenti o ambiguità, per almeno due buone ragioni.
In primo luogo, partiamo da una affermazione di Bourdieu (1995: 115) che
problematizza il concetto di banalità: “Ciò che oggi appare evidente, anteriore alla
coscienza e alla scelta, spesso ha rappresentato la posta di una lotta e si è istituito solo al
termine di uno scontro tra dominanti e dominati”. In altri termini, ciò che è banale è sì
anche vero ma “se una verità esiste, è perché la verità è la posta in gioco di una lotta”
(ibidem: 81).
In secondo luogo, soprattutto quando si maneggiano termini, concetti e categorie di
derivazione economica come quello di “mercato” dobbiamo fare i conti con quel
processo culturale, con il quale avremo a che fare nel corso del lavoro, che conduce ad
un predominio del pensiero economico su quello sociale e politico. Questo processo
riguarda forse anche l’ambito sociologico, ma di sicuro influenza il senso comune.
9
La difficoltà nel riuscire a considerare il mercato del lavoro come un mercato sui
generis nel contesto delle scienze economiche è stata efficacemente evidenziata da un
autorevole esponente di questo stesso contesto, il premio Nobel per l’economia Robert
M. Solow, che in un’opera significativamente intitolata “Il mercato del lavoro come
istituzione sociale” afferma: “Esiste nelle scienze economiche una importante
tradizione, attualmente dominante, soprattutto in macroeconomia, secondo la quale il
mercato del lavoro è, da tutti i punti di vista, eguale a qualunque altro mercato.
Dovrebbe essere analizzato nello stesso modo nel quale si analizzerebbe il mercato di
un qualsiasi altro bene deperibile, usando gli strumenti convenzionali della domanda e
dell’offerta. D’altro canto, secondo il senso comune è ovvio che vi sia qualcosa di
speciale nel lavoro come merce di scambio, e di conseguenza nel mercato del lavoro.
(…) Ma, tra gli economisti non è per nulla ovvio che il lavoro sia un bene
sufficientemente differente dai carciofi e dagli appartamenti da affittare, tale da
richiedere un differente metodo di analisi. Infatti, molti di essi considerano questa idea
semplicemente bizzarra
1
” (Solow, 1994: 22-23).
Come dicevamo all’inizio, ciò che appare ovvio dal punto di vista del senso comune
e che può apparire bizzarro da un certo punto di vista economico, rappresenta invece
una banalità per la sociologia, tanto da fare dire a Reyneri (2002: 13) che il termine
“mercato del lavoro”, con cui si indicano comunemente “i meccanismi che regolano
l’incontro tra i posti di lavoro vacanti e le persone in cerca di occupazione e
determinano i salari pagati dalle imprese ai lavoratori (…) costituisce ormai quasi
soltanto una convenzione linguistica”. L’autore (ibidem: 14) elenca quattro condizioni
ipotetiche affinché il lavoro possa essere scambiato secondo le classiche regole del
mercato, nessuna delle quali si verifica pienamente, ovvero che: 1) il lavoro sia una
qualsiasi merce anonima; 2) tra chi vende e chi compra vi siano soltanto relazioni di
scambio su un piano di parità; 3) il prezzo, cioè il salario, svolga una funzione di
riequilibrio tra domanda e offerta; 4) tutti i soggetti seguano i criteri della razionalità
economica. Nel nostro ragionamento, per ragioni di spazio e dati gli obiettivi che ci
siamo prefissati, ci limitiamo alla discussione dei primi due postulati.
Innanzi tutto, dunque, perché il mercato del lavoro possa essere considerato un
mercato vero e proprio dovrebbe esistere una merce che su tale mercato venga
scambiata: il lavoro.
10
Ma il lavoro, di fatto, non è una merce, non solo (e non tanto) perché questo
prescrive letteralmente la dichiarazione di Filadelphia del 1944 dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro, ma perché, prima di tutto, il lavoro è un rapporto sociale:
“una definizione di lavoro tanto scontata che rischia addirittura di essere dimenticata”
(Chiesi, 1995: 59).
Già Marx, nel “Capitale”, sosteneva che: “Perché il lavoro venga venduto sul
mercato come merce, esso dovrebbe in ogni caso esistere prima di essere venduto. Ma
se l’operaio fosse in grado di dargli un’esistenza autonoma, venderebbe merce e non
lavoro” (Marx, 1970, libro I: 702). Di conseguenza, sul cosiddetto mercato del lavoro
“il possessore del denaro vede comparirsi direttamente di fronte non il lavoro, ma il
lavoratore. Ciò che quest’ultimo vende è la propria forza lavorativa. Dal momento in
cui ha inizio il suo lavoro essa in pratica non è più di sua proprietà, e quindi non può più
essere venduta. Il lavoro è la sostanza e la misura immanente del valore, ma esso stesso
non ha alcun valore” (ibidem: 703-704, corsivo nel testo). Per Marx, l’espressione
“valore del lavoro” è “una espressione immaginaria, come può esserlo valore della
terra” (ibidem: 704, corsivo nel testo). L’organizzazione scientifica del lavoro
industriale non è altro che “lo sforzo costante di distaccare il lavoro in quanto categoria
economica quantificabile dalla persona vivente del lavoratore” (Gorz, 1992: 30).
Analogamente, per Polanyi (1974: 92-95) il lavoro non è una merce, ma “un’attività
umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere
venduta”.
Polanyi definisce “merce fittizia” il lavoro, così come la terra e la moneta. I mercati
del lavoro, della terra e della moneta si basano cioè su una finzione: quella secondo cui
il lavoro, la terra e la moneta siano una merce. Tuttavia “essi non sono ovviamente delle
merci, e il postulato per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato
prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso. (…) Lavoro e terra (…) non
sono altro che gli esseri umani stessi dai quali è costituita ogni società e l’ambiente
naturale nel quale essa esiste. Includerli nel meccanismo di mercato significa
subordinare la sostanza della società stessa alle leggi del mercato”.
L’esistenza di tali mercati fittizi è essenziale per l’economia di mercato. Questa può
infatti esistere, secondo Polanyi, solo in una società di mercato. Al tempo stesso egli
ritiene che “nessuna società potrebbe sopportare gli effetti di un simile sistema di rozze
11
finzioni neanche per il periodo più breve di tempo a meno che la sua sostanza umana e
naturale, oltre che la sua organizzazione commerciale, fossero protette dalle distruzioni
arrecate da questo diabolico meccanismo”.
Emerge qui quella contraddizione del sistema capitalistico evidenziata da Andrè
Gorz (1992: 203-204), secondo il quale: “Mercato e società sono fondamentalmente
antinomici. (...) La ‘società di mercato’ è una contraddizione in termini: è considerata il
risultato della lotta di tutti contro tutti. Risultante esterna delle azioni individuali e
indipendente da qualsiasi volontà umana, ha soltanto una realtà statistica”. Ma
riprenderemo più avanti le riflessioni di Gorz che ci stanno portando troppo lontano.
Tornando alla questione della peculiarità del mercato del lavoro, osserviamo che,
anche assumendo la finzione del lavoro come merce, “contrariamente a quanto accade
sugli altri mercati, nel mercato del lavoro il venditore non cede pienamente al
compratore il controllo dell’uso della merce venduta, sicché la relazione tra le parti non
si esaurisce nel momento dello scambio, ma prosegue nella fase di uso della forza
lavoro nel processo produttivo, dove diventa relazione di forza, cioè di controllo o di
conflitto sulle condizioni di erogazione della prestazione lavorativa" (Reyneri, 2002:
17).
Si comincia così ad intravedere la natura del rapporto sociale che costituisce il
lavoro: si tratta di una relazione sociale di potere degli imprenditori sui lavoratori
fondata su di un rapporto di forza strutturalmente asimmetrico sul quale, tra l’altro,
l’intervento di un’autorità esterna al mercato, quale lo Stato, può ristabilire condizioni
di equilibrio (ibidem: 16-17). Ma sul ruolo dello Stato torneremo dopo. E’ importante
invece qui rilevare come la natura del rapporto sociale di lavoro sia completamente
dissimile dalla relazione di scambio su un piano di parità postulata dal paradigma del
mercato.
Abbandoniamo allora la visuale “economicistica” del mercato del lavoro e
definiamo invece, in prima battuta, l’istituzione sociale comunemente denominata
“mercato del lavoro” come quell’insieme di norme, routine, frames, ruoli, pratiche, ecc.,
ovvero quello “spazio sociale organizzato” (De Leonardis, 2001) all’interno del quale si
strutturano le relazioni sociali di potere tra lavoratori e datori di lavoro, a loro volta
denominati rispettivamente “offerta di lavoro” e “domanda di lavoro”.
12
Riprendendo la distinzione marxiana tra forza lavoro e lavoro, possiamo anche
suddividere questo spazio e intendere il mercato del lavoro come una “duplice arena”:
una in cui si scambia forza lavoro ed una in cui la forza lavoro è trasformata in lavoro
(Reyneri, 1987: p. 151). Chiameremo la prima arena esterna (del mercato del lavoro), e
la seconda arena interna (del mercato del lavoro)
2
.
Il nostro interesse verterà soprattutto sull’arena esterna, quella dove si svolge
l’incontro, in senso stretto, tra la domanda e l’offerta di lavoro, il cosiddetto job
matching, o quello che possiamo definire, ponendoci dal punto di vista del lavoratore,
l’accesso al lavoro. Compatibilmente con la consapevolezza che la metafora della
duplice arena delinea una distinzione analitica e che nella realtà le due arene sono
costantemente sovrapposte, in questo studio non ci occuperemo direttamente ed
espressamente delle dinamiche relative all’arena interna, cioè nel rapporto di lavoro
(relazioni industriali, contrattazione collettiva, ecc.), quanto piuttosto delle modalità di
accesso al rapporto di lavoro. Se risulta evidente (o comunque oggetto di innumerevoli
studi) la natura della relazione di potere nell’arena interna, una volta cioè che il rapporto
di lavoro si sia instaurato, può risultare meno evidente (e anche meno analizzato) il fatto
che, anche nella fase di job matching, le relazioni sociali che si instaurano sono
ugualmente caratterizzati da asimmetrie di potere. E’ proprio questa la fase che ci
interessa. Vedremo, in particolare, come in questa fase la presenza di intermediari,
individuali o collettivi, pubblici o privati, possa intervenire modificando le relazioni in
gioco e producendo, di volta in volta, un’attenuazione o un’amplificazione delle
asimmetrie di potere esistenti tra gli attori.
Il mercato del lavoro, come tutte le istituzioni, è caratterizzato da un certa inerzia e
da una relativa stabilità nel tempo, ma non è una realtà immutabile nella quale le
relazioni tra gli attori seguono schemi sempre uguali a sé stessi. Come tutte le
istituzioni, è anche soggetto a dinamiche trasformative di vario genere (De Leonardis,
2001).
L’evoluzione dei prodotti, dei processi lavorativi e dei mezzi di produzione
impiegati modifica le relazioni di potere e le condizioni di subordinazione: dalla
schiavitù alla servitù, dalla condizione degli operai industriali al “proletariato dei
servizi”. Anche nell’economia del capitalismo finanziarizzato e terziarizzato, dove il
denaro sembra autoriprodursi quasi magicamente, trasformandosi in mezzo di
13
produzione di sé stesso, in un apparente cortocircuito del circuito “D-M-D” marxiano
(denaro-merce-denaro), il prodotto non scompare, ma si trasforma in prodotto-servizio.
La nuova economia, post-industriale o post-fordista, è comunque una “economia dei
servizi”, e anche una “economia delle relazioni”, perché “il servizio ha uno statuto
interpersonale, è una relazione, mentre il prodotto è un artefatto che cristallizza, reifica e
sostituisce una relazione” (De Leonardis, 1998: 104). È vero che “l’economia è sempre
stata questione di relazioni, di rapporti sociali”, ma è anche vero che “i bisogni e le
opportunità che prendono forma nel postindustriale comportano che le stesse utilità che
vengono prodotte siano date nella forma della relazionalità” (De Vincenti,
Montebugnoli, 1997: XI, corsivo nel testo). La relazione stessa diventa direttamente
produttiva, anzi diventa prodotto, il prodotto-servizio appunto. Questo spinge
l’economia post-fordista verso la direzione opposta a quella dell’organizzazione
scientifica del lavoro industriale, in uno sforza teso a trasformare (invece che
escluderla) la personalità del lavoratore in categoria economica quantificabile. Di qui
l’importanza attribuita al cosiddetto “capitale umano”, ma di questo parleremo in
seguito.
Quello che si intende invece qui sottolineare è che la centralità delle relazioni nella
nuova economia mette in evidenza l’inadeguatezza della nozione di mercato ereditata
dall’economia classica e neoclassica non solo nel mercato del lavoro.
L’estensione dello statuto di merce ai servizi e alle relazioni potrebbe mettere in
crisi la validità della negazione del lavoro come merce. Nell’economia dei servizi,
infatti, “la qualità del prodotto non è più determinata prima dello scambio, nella
produzione, ma si forma nel corso dello scambio” (De Leonardis, 1998: 106), vale a
dire che il fornitore del servizio è inscindibile dal servizio stesso, così come il lavoratore
lo è dal lavoro. Inoltre, a prescindere da qualsiasi valutazione morale, la mercificazione
delle relazioni nella nuova economia si impone all’evidenza empirica e il lavoro,
abbiamo detto, è una relazione. Non consegue da queste premesse che forse anche il
lavoro dovrebbe essere considerato a pieno titolo come merce?
La questione della produttività economica della qualità dei rapporti sociali comporta
un fenomeno più generale, e cioè quello che Borghi (1998) chiama la “crescente
sovrapposizione tra lavoro ed azione sociale”, che sembra dissolvere i confini tra attività
strumentale ed azione sociale. Sembra emergere lo spettro di quella società di mercato
14
paventata da Polanyi e da Gorz: i mercati moderni determinano “istituzioni sociali e
valori culturali” (Borghi, 1998: 49) e l’idea stessa del mercato sembra imporsi come
“ideologia” o come “paradigma dell’azione sociale” informando di sé l’agire sociale e
ponendo le basi di un “modo mercificato di intendere la realtà
3
” (ibidem: 50).
In un mondo totalmente mercificato sarebbe il concetto stesso di merce a perdere di
significato e non si porrebbe più il problema di verificare l’adeguatezza dell’identità tra
lavoro e merce. Ad ogni modo, se l’evoluzione del sistema economico (e sociale)
giungerà o meno ad un tale esito non è questione che possa e debba essere affrontata in
questo lavoro.
In conclusione, ribadiamo che l’utilizzo, in questo studio, dei termini “mercato del
lavoro”, “offerta di lavoro” e “domanda di lavoro”, deriva solamente da una
convenzione linguistica invalsa anche in sociologia. Siamo del resto consapevoli che
proprio la condivisione di strutture cognitive convenzionali è alla base delle relazioni di
dominio simbolico di cui parla Bourdieu (1995). Ciò nonostante uno degli obiettivi di
questo lavoro sia proprio quello di individuare, nelle tendenze evolutive in atto nella
regolazione del mercato del lavoro in Italia, l’eventuale operare di quella fallacia
economicistica che, come diceva Polanyi, da una parte porta “a scorgere mercati anche
là dove non ne esistono affatto” (Polanyi, 1972: 74), e dall’altra spinge a considerare
merce anche ciò che merce non è.