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Le cooperative sociali saranno poi agganciate (tramite la legge
Smuraglia e la legge 68/99) alla seconda parte del nostro lavoro,
dedicata alle aziende pubbliche e private. Queste ultime
costituiscono un obiettivo di portata storica, in quanto esempi di
una modalità di intervento priva di stigmatizzazione. Infatti, si
sono rese protagoniste di un’enorme cambio di mentalità e di
un’apertura globale verso l’universo delle persone svantaggiate. A
testimonianza di ciò, illustreremo la felice unione che hanno avuto
nel territorio livornese, con i progetti SP. IN. ed EQUAL.
Attraverso i dati dei suddetti progetti parleremo dei loro ottimi
risultati e delle potenzialità ancora da esprimere.
La parte conclusiva del nostro lavoro sarà rivolta alle dinamiche
emozionali delle persone svantaggiate e alle seconde opportunità
che vengono loro concesse. Analizzeremo, a tal proposito,
l’impegno nel sociale dimostrato dall’azienda Coop (cooperativa di
distribuzione alimentare al dettaglio) nel corso degli anni
attraverso l’adesione e il sostegno a diversi progetti ed infine,
racconteremo la storia di tre soggetti svantaggiati che
rappresenteranno il dato qualitativo del nostro lavoro.
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CAPITOLO 1
DALLA NASCITA ALLO SVILUPPO
DELL’ISTITUTO PENITENZIARIO
1.1 Dall’epoca feudale al XVII secolo
Il percorso che ci proponiamo di affrontare transita attraverso le
prime forme di attribuzione della pena nel territorio italiano fino ad
arrivare alla più moderna concezione dell’istituto penitenziario. Il
viaggio si presenterà piuttosto articolato per due motivi: in primo
luogo il fatto che l’Italia, prima del 1861, era una comunità di Stati
indipendenti (quindi con proprie leggi e forme di punizione) e in
secondo luogo, anche se non meno importante, la fortissima
presenza ed influenza dello Stato papale, il quale caratterizzerà in
maniera preponderante il periodo medioevale.
Nel sistema pre-capitalistico, come nella realtà feudale, il carcere
inteso come pena, nella forma della privazione della libertà, non è
pressoché esistito. Nella società feudale è più giusto parlare di un
carcere per debiti o “preventivo”, in quanto istituto che nega la
libertà individuale, così autonoma e ordinaria, senza essere seguita
da sofferenza fisica. Quindi, all’epoca la pena carceraria è assente,
ma era vigente, fino ad allora, la primordiale “legge del taglione”.
Vediamo come ce la ricorda Pasukanis: “il delitto può considerarsi
come una variante particolare dello scambio, nel quale il rapporto
di scambio, come il rapporto per contratto, si instaura post-factum,
vale a dire in seguito ad un’azione arbitraria di una delle parti, la
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pena agisce, quindi, come equivalente che pareggia il danno
causato alla vittima” (Pasukanis, 1975).
Nel periodo medioevale, le prime ed embrionali forme di sanzione
le ha esercitate la Chiesa a carico dei chierici che in qualche
maniera avevano mancato al loro dovere pastorale; si presume che
tali mancanze fossero infrazioni religiose le quali mettevano in
apprensione il potere ecclesiastico.
L’espiazione della colpa, in un primo momento, prevedeva
l’isolamento in una cella segreta fino al ravvedimento, mentre, in
seguito, la pena ecclesiastica muterà fino a divenire di carattere
vendicativo, cioè di natura pubblica.
Quando essa diventerà tale ed uscirà dal foro interno assumerà le
vesti dell’esemplarità, al fine di spaventare e prevenire. La
crudeltà e la spettacolarità di quei tempi hanno assunto la funzione
di deterrente nei confronti di coloro che intendevano trasgredire le
regole imposte dal "signore". A testimonianza di ciò, si ricordano i
roghi dell’Inquisizione della “Santa Romana Chiesa”.
Ma qualche cosa di quell’originale finalità, sia pure a livello di
valore, è sopravvissuto. La penitenza, infatti, nel momento in cui
si è trasformata in sanzione penale vera e propria, ha mantenuto in
parte lo scopo correzionale; questa infatti si è trasformata in
“reclusione in monastero per un tempo determinato”. L’assoluta
separazione dal mondo esterno, il più stretto contatto con il culto e
la vita religiosa, davano al condannato l’occasione, attraverso la
meditazione, di espiare la propria colpa (Melossi-Pavarini, 1977).
Il regime penitenziario dello Stato papale ha mantenuto stili di
esecuzione diversi, in quanto, oltre a caratterizzarsi per il fatto che
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la pena fosse la sola prigionia in monastero, la reclusione in cella o
nella prigione vescovile, in determinati periodi si è elevata per la
diversità di procedimento: alla privazione della libertà, talvolta
sono state aggiunte sofferenze fisiche, altre volte l’isolamento
cellulare e soprattutto l’obbligo del silenzio.
Il perché dell’assenza del lavoro carcerario nell’esecuzione penale
canonica si ritrova nella ragione per cui gli ecclesiastici avevano
attribuito al periodo d’isolamento “il significato di un quantum di
tempo necessario alla purificazione secondo i criteri propri del
sacramento della penitenza” (Melossi-Pavarini, 1977). Non è stata
quindi tanto la privazione della libertà in sé a fungere da pena, ma
piuttosto, nell’isolamento dalla vita sociale, l’occasione di poter
raggiungere quello che era lo scopo ideale della pena: il
ravvedimento.
Per concludere, quindi, lo stampo della penitenza non è stato
impresso da finalità politiche ma, al contrario, dall’esigenza
religiosa di confermare la presenza di Dio in tutti gli uomini.
Sempre la Chiesa e i principi feudali, fino alla fine del
Quattrocento, sono stati responsabili del blocco industriale e
politico (il processo di unificazione) che era in atto nelle varie parti
d’Italia. Il risultato di profonda stagnazione e arretratezza del
Paese, è stato ben visibile dal secolo dopo con conseguenti masse
di operai di varie attività prive di lavoro. Figli di tutto ciò sono
stati gli estesi fenomeni di vagabondaggio e brigantaggio che
hanno proliferato lungo tutta la penisola nel ‘500 ma soprattutto
nel ‘600.
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Per contrastare tali avvenimenti, i vari Stati Italiani avevano
adottato diverse misure preventive e di sicurezza: mentre per il
meridione la forca era l’unica politica sociale praticata per secoli,
negli altri Stati si è tentato di prendere una serie di provvedimenti
che si sono rivelati assai simili a quelli adottati nello stesso periodo
in Inghilterra, in Germania, ecc… cioè divieto di mendicare,
internamento negli ospedali, assistenza per gli inabili, sforzo di
procurare lavoro agli abili (Melossi-Pavarini, 1977).
Negli Stati Pontifici, come spiega il giurista romano Prospero
Farinaceo (XVII sec.), “gli arrestati, cioè gli eretici, gli autori di
delitti atroci, non devono essere messi in un carcere oscuro e tetro,
ma chiaro e illuminato. A tal fine è disposto dalle leggi pontificie
che le carceri nei sotterranei e nelle cave (nelle quali, a causa di
umidità, i detenuti sono colpiti da infermità e vengono a trovarsi in
pericolo di vita) sono proibite e che i prelati i quali rinchiudono in
un “tetrus carcer” (trad. it.: carcere tetro) un chierico o un altro
delinquente agiscono illegalmente e sono considerati passibili
dell’accusa di omicidio!” (Canosa-Colonnello,1984). Lo stesso
principio secondo cui il carcere sia servito a custodire e non a
punire porta con sé la considerazione che il carcerato non debba
essere assoggettato all’interno del luogo di detenzione a catene,
ferri, ecc., ma debba restare slegato e libero nella persona, poiché
infatti “ligare carceratum non pertinet ad simplicem custodiam, sed
ad poenam” (trad. it.: legare il carcerato non si applica alla
semplice custodia ma alla pena) (Canosa-Colonnello, 1984).
Ovviamente questi principi valgono soltanto durante la
carcerazione preventiva, dal momento che, una volta emessa la
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sentenza (ed il reo condannato al carcere) è consentito dalle norme
vigenti che il carcere sia oscuro, “ferreo”, sotterraneo, ecc…,
anche se a questo tipo di carcerazione non devono essere
assoggettati né i carcerati vecchi né i vicini alla liberazione
(Canosa-Colonnello, 1984).
Oltre al giurista romano, anche il giurista pavese Jacobus
Menochius (XVI sec.) ha contribuito ad arricchire la letteratura
sulle pene e carceri del tardo Cinquecento.
Menochio ci ha premesso che, nonostante i “vagabondi” siano
comunemente chiamati “qui nullam artem exercentes, modo huc,
modo illuc vagantur” (trad. it.: coloro che non esercitano nessuna
arte, vagando ora qua, ora là) e distinti dai cosiddetti “banniti” (i
quali possono benissimo avere abitazione o domicilio in luoghi
diversi da quelli dai quali sono stati banditi) secondo il diritto
comune, non sia per i primi prevista alcuna pena. Ma poiché è
possibile sospettare di coloro che, per vivere in ozio, hanno
commesso dei furti, non si può fare a meno di auspicare,
nell’interesse pubblico, che “pro principis, vel iudicis arbitrio
poena aliqua indicatur” (trad. it.: di fronte al padrone, ossia di
fronte all’arbitrio del giudice qualsiasi castigo viene svelato)
(Canosa-Colonnello, 1984).
Quanto ai mendicanti, Menochio li ha distinti in validi e invalidi.
Validi sono considerati coloro che, sebbene siano in grado di
procurarsi da vivere con il proprio lavoro, preferiscono mendicare
e vivere nell’ozio. Questo tipo di mendicità va considerata illecita,
mentre così non si può per i mendicanti invalidi che, loro
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malgrado, sono impossibilitati a vivere una esistenza decorosa a
causa delle loro deficienze fisiche (Canosa-Colonnello, 1984).
Invece, il carcere con riferimento agli imputati di condotte clericali
era ancora molto severo. Come ci ha narrato Deciano (XVI sec.),
le pene “corporali” da infliggere agli eretici annoverano, oltre a
quella del fuoco, dell’esilio, della deportazione, della
“verberazione”, ecc… anche quella del carcere perpetuo: a tale
pena devono essere condannati coloro dai quali “non speratur vera
sed ficta reversio” (trad. it.: non si può sperare in una reale
conversione ma solo in una finzione). Al contrario, non sono stati
condannati al carcere perpetuo gli imputati “poenitentes sponte”
(trad. it.: i pentiti spontaneamente) (Canosa-Colonnello, 1984). I
chierici che hanno peccato vi sono stati rinchiusi per cinque o sette
anni affinché piangano le loro colpe e siano messi
nell’impossibilità di tenerne di più gravi. La pena della reclusione
in monastero non è inoltre ecclesiastica, ma è stata recepita nello
ius civile (Canosa-Colonnello, 1984).
Nelle questioni laiche, le ragioni della carcerazione sono state le
più varie: dal non aver pagato i debiti all’aver commesso delle
truffe, all’aver compiuto dei reati di sangue. Nella carcerazione
preventiva, è stato compito del giudice decidere se l’imputato
doveva essere trasportato in carcere o poteva essere affidato ad un
“garante” (Canosa-Colonnello, 1984). E’ accaduto anche che in
occasione delle feste di Natale e di Pasqua, molti giudici hanno
fatto rilasciare gli arrestati presenti in carcere, sempre che il reato
non sia stato enorme e l’imputato né “confessus” (trad. it.:
confesso) né “convictus” (trad. it.: convinto). L’imputato ha potuto
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inoltre essere rilasciato in tutti i casi in cui non sia stato risultato
colpevole del delitto attribuitogli. Infine, il giudice, nel caso di
decisione di rilascio dell’imputato sotto fideiussione, aveva dovuto
opportunamente accertarsi prima che si trattassero di fideiussori
idonei (Canosa-Colonnello, 1984).
Di contro, a Venezia si è cercato di occupare i poveri e i
mendicanti mandandoli a lavorare negli Arsenali; mentre a Parma,
Torino, Modena, Genova e Pisa sono stati eretti Ospedali proprio
per accogliere e custodire i vagabondi.
E’ superfluo notare come anche in queste prime esperienze
italiane, il povero non sia stato per niente distinto dal piccolo
criminale: la legislazione repressiva ha creato i reati di
vagabondaggio e di mendicanza e, la figura del povero veniva
stigmatizzata per tutta la vita, al piccolo furto e così via. Sono stati
distinti invece, il povero “buono” (che grato accettava come dono
l’internamento) da quello “cattivo” (che si ribellava nei confronti
dell’autorità, rifiutando la reclusione) (Melossi-Pavarini, 1977).
Fra tutte, però, una delle prime esperienze carcerarie moderne in
Italia è stata quella impiantata nella Firenze della metà del XVII
secolo. Infatti, i ragazzi abbandonati venivano raccolti per la città,
assistiti, ospitati e mandati a lavorare in qualche bottega cittadina.
Ciò che fa di questa, un’esperienza particolare, è la speciale
sezione dell’ospizio (detto di San Filippo Neri), costruita nel 1677
o qualche anno più tardi, chiamata “correzionale” e destinata in
genere a giovani di buona famiglia che i genitori affidavano a
Filippo Franci (XVII sec.) perché avevano dato qualche segno di
disadattamento al normale stile di vita borghese (Melossi-Pavarini,
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1977). Questa sezione era costituita di otto cellette singole in cui
venivano rinchiusi, in un isolamento continuo, notte e giorno, i
giovani corrigendi o, più raramente, altri giovani assistiti, per
punizione (Melossi-Pavarini, 1977).
Da fonti storiche, sembra che tale forma di correzione sia stato il
primo caso conosciuto di segregazione cellulare continuato.
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1.2 La crisi del XVIII secolo fino alla fine dell’era fascista
Per l’Italia, il ‘700 è stato il secolo della paralisi totale, figlio delle
disgraziate gestioni feudali dei 200 anni precedenti. Ovviamente
anche le politiche sociali incentrate sulle varie forme detentive, le
quali hanno fatto la parte del leone in tutti gli altri paesi europei, ne
hanno risentito profondamente in questo periodo di difficoltà.
Infatti, lo sviluppo industriale italiano non aveva avuto lo stesso
slancio dell’Inghilterra, Olanda, Germania, ecc…. A differenza
degli altri paesi europei, la situazione del nostro paese è stata
quella di un forte squilibrio tra domanda dell’industria e offerta di
mano d’opera che ha portato alla nascita e allo sviluppo del
brigantaggio. Di conseguenza è facile immaginarsi come in Italia
non è stato possibile utilizzare la forza-lavoro presente nelle
carceri come altrove accadeva, ad eccezione della Milano
austriaca.
Agli inizi del XVIII secolo, la giovane industria capitalistica
milanese ha cercato la propria affermazione “fuori dal chiuso
regime delle corporazioni”, e l’utilizzo delle masse di oziosi e
vagabondi era diventato il referente naturale di questa politica:
”…nel 1720 il governo aveva sollecitato, discusso e approvato un
progetto Ronzio per far risorgere il commercio con l’istituzione di
una casa di lavoro che impiegasse coattivamente i vagabondi”
(Melossi-Pavarini, 1977). Nell’editto del 30 maggio del 1764,
infatti, si evince la voglia di attuare tali misure con fermezza:
“comminava severe penali a chi, con offerta di maggiore
guadagno, subornava gli altrui operai inducendoli a violare gli
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accordi firmati con il proprio imprenditore e comminava il carcere
agli operai che abbandonassero il padrone a lavoro incompiuto”.
(Melossi-Pavarini, 1977).
Tra gli anni ’60 e ’80 è stata intensa la nascita di nuovi istituti e
idee innovative, e la politica criminale non è certo l’ultima della
lista. A tal proposito, è interessante notare come Cesare Beccaria
sia particolarmente coinvolto in questo tipo di politica. Rispetto al
delitto tipico delle classi povere e il furto, egli pronuncia queste
esatte parole: “I furti che non hanno unita violenza, dovrebbero
esser puniti con pena pecuniaria. Chi cerca di arricchirsi dell’altrui,
dovrebbe essere impoverito del proprio. Ma come questo non è
nell’ordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il
delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà
non ha lasciato che una nuda esistenza; ma come le pene
pecuniarie accrescono il numero dei rei al di sopra di quello dei
delitti, e che tolgono il pane agl’innocenti per darlo agli scellerati,
la pena più opportuna sarà quell’unica sorta di schiavitù che si
possa chiamar giusta, cioè la schiavitù, per un tempo, delle opere e
della persona alla comune società, per risarcirla, colla propria e
perfetta dipendenza, dell’ingiusto dispotismo usurpato sul patto
sociale” (Melossi-Pavarini, 1977).
Questo passo del Beccaria che abbiamo riportato chiarisce in modo
esplicito il significato della pena detentiva nella società borghese
classica e cioè fondata sulla libera concorrenza.
Sempre a Milano, caso raro in Italia di questo secolo ma frutto
della regione più progredita e culturale di quel periodo, vengono
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eretti due stabilimenti carcerari basati sui criteri più moderni:
l’ergastolo e la casa di correzione.
Dalla descrizione di Jhon Howard sembra che, mentre il secondo
stabilimento sia stato occupato da detenuti condannati a pene non
gravi, nell’ergastolo vi siano stati ospitati i condannati a pene assai
lunghe o a vita e occupati in lavori di pubblica utilità nelle strade
(Melossi-Pavarini, 1977). In questo istituto non vi è stata
separazione cellulare anche se nel 1785 il codice Giuseppino aveva
sancito il principio d’isolamento e del lavoro “in un luogo chiaro,
senza ferri né lacci, senza comunicare e a pane e acqua”.
Così come per la Lombardia, se pur in tono minore, anche la
Toscana aveva avuto la sensazione che l’impero asburgico portasse
innovazioni importanti. Infatti, tra il 1765 e il 1790, in questo
granducato abbiamo avuto un periodo di intensa attività
riformatrice, la quale, per l’ambito penale, aveva dato vita alla
Legislazione criminale toscana del 1786 (codice Leopoldino). In
tale riforma vengono riportati i principi espressi da Beccaria e da
Howard, cioè l’abolizione della pena di morte e la tortura; mentre i
delitti di lesa maestà sono stati ridotti a pene comuni e viene posto
come scopo fondamentale della pena la correzione del reo.
Se per le due prigioni di Firenze, il Palazzo degli Otto e le Stinche,
la riforma non ha mutato granché le condizioni dei carcerati, non si
può dire altrettanto per la fortezza di Livorno, in cui “gli autori di
delitti più gravi sono nelle galere, mentre gli altri sono occupati in
lavori pubblici”. La vita nella prigione ha ricevuto così il supporto
di regole e ha riportato la traccia della riforma leopoldina in campo
amministrativo. Infatti, sono state introdotte quasi tutte le regole
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classiche dell’istituzione carceraria moderna: orari, pulizia,
perquisizioni, vestiario uniforme, taglio dei capelli, ecc…. I forzati
si recavano al lavoro per il quale venivano retribuiti, incolonnati e
incatenati due a due. Venivano impiegati nella pulizia del porto o
nella costruzione di edifici pubblici, come il lazzaretto (Melossi-
Pavarini, 1977).
Al contrario, la condizione imperante nel Regno di Napoli
rispecchiava quella feudale predominante. A causa dell’accentuato
fenomeno dell’immiserimento di larghe masse contadine, qui la
forca ha continuato instancabilmente a decimare la popolazione
meridionale (Melossi-Pavarini, 1977). Infatti, a seguito dell’entrata
in carcere, la prassi è stata che i guardiani affittassero il letto al
prezzo fissato dalla legge, ma senza le lenzuola e le coperte.
Quanto ai carcerati miserabili, che non potevano permettersi di
pagare l’affitto, la legge prevedeva che i carcerieri concedessero
dei tavolati sui quali far dormire gli stessi (Canosa-Colonnello,
1984). Quali fossero le intenzioni dei governanti, possiamo
evincere che la situazione delle carceri napoletane, alla fine del
Settecento, erano in condizioni tutt’altro che buone. Lo stesso
Howard dichiara che la condizione di ozio caratterizzava anche i
condannati ai lavori forzati (Canosa-Colonnello, 1984).
Gli Stati Pontifici, nello stesso periodo, avevano tutte le prigioni
concentrate in Roma ad eccezione delle galere di Civitavecchia. La
situazione economica era pressappoco simile a quella riscontrata a
Napoli e per questo nelle carceri si trovavano rei per
vagabondaggio o per piccoli furti. A differenziare Roma dal Regno
Partenopeo, è stata la situazione dentro le carceri in cui, sia per gli
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Ospizi per mendicanti sia per l’istituto di San Michele in Ripa
(casa per giovani delinquenti), le regole e l’obbedienza sono state
l’asse portante della punizione.
In ambito carcerario, il XIX sec. si apre sfruttando la scia lasciata
dal XVIII sec. con il notevole fermento materiale e morale che la
rivoluzione borghese ha suscitato nelle masse.
Con l’editto del 1814 Vittorio Emanuele I, re degli Stati Sardi,
aveva stabilito di ritornare semplicemente alla situazione
antecedente la rivoluzione francese, reintroducendo tutta quella
serie di pene e torture che già allora venivano definite barbare
(Melossi-Pavarini, 1977). Ma solo sotto il potere di Carlo Alberto,
agli inizi degli anni ’40, e grazie all’opera di Ilarione Petitti di
Roreto , si è ricominciato a discutere di riforma penale e a costruire
nuovi penitenziari che fossero all’altezza del progresso morale in
atto nell’‘800. Il regime vigente nei penitenziari piemontesi è stato
prima quello “auburniano”, lavoro collettivo e isolamento
notturno, e in un secondo tempo, grazie all’intervento di Cavour, è
stato introdotto il sistema “filadelfiano” il quale consisteva nella
segregazione cellulare continua al fine di redimersi da tutti i
peccati.
La svolta si è avuta con il codice penale sardo-italiano del 1859,
così detto perché sarebbe divenuto il codice del nuovo Regno
d’Italia. Questo prevederà ben sei differenti tipi di pene detentive,
distinte in pene criminali e pene correzionali: lavori forzati a vita o
a tempo, reclusione e relegazione le prime, carcere e custodia, le
seconde.