5
affermati era la possibilità di forgiare uno specifico modo di rappresentazione
della “realtà”, ossia la conquista della propria autonomia di medium
1
.
Di fatto, nei suoi primi anni di vita il cinematografo non fu considerato come un
mezzo di comunicazione indipendente, ma come una protesi aggiuntiva in grado
di potenziare la performance degli altri media. Le forme culturali già affermate se
ne servirono, letteralmente, per riprodursi: il nuovo apparecchio permetteva,
infatti, di registrare spettacoli ed eventi e di trasmetterli successivamente a
piacere davanti ad un pubblico. Si può dire che “il cinematografo, strumento di
lavoro, si situa al confine di diversi fasci di determinazioni di media o di generi
già riconosciuti, contemporanei al suo avvento, già legittimati e
istituzionalizzati”
2
.
Le prime realizzazioni del cinematografo risentivano quindi della dipendenza da
altre forme artistiche: frontalità e orizzontalità della visione, unità espressiva di
singole lunghe scene riprese da un unico punto di vista, uso del fondale dipinto,
adesione ad una bidimensionalità basata sul rifiuto della prospettiva
illusionistica, costruzione di spazi mutuati dalle rappresentazioni pittoriche e
grafiche.
Nel corso del tempo il cinematografo iniziò ad adottare una modalità narrativa
basata sulla concatenazione di molteplici riprese di momenti diversi della stessa
scena, realizzate con inclinazioni e distanze differenti della cinepresa rispetto al
profilmico
3
. Ne derivò una scomposizione della realtà in una scala di campi e
piani che la nascente pratica del montaggio cinematografico permise di legare tra
loro per generare una continuità visiva. La frammentazione del reale e la
costruzione di un discorso, basato sulla linearità visiva in seguito alla
concatenazione dei frammenti ottenuti, rappresentarono il primo passo del
cinematografo verso l’indipendenza dagli altri media e la costituzione di un
proprio linguaggio. Tuttavia nemmeno il montaggio poté essere considerato un
1
“(…) ogni medium ha proprie leggi e propri codici che ne strutturano il linguaggio tanto da far cambiare
significato al messaggio a seconda del medium utilizzato” (Provenzano 1999: p. 14).
2
Gaudreault 2004: pp. 53, 54.
3
Ossia “tutto ciò che si trova davanti alla macchina da presa, voluto o non voluto, e che viene filmato. É
la materialità del reale che, con tutta l’imprevedibilità del suo manifestarsi, impressiona la pellicola e
genera l’immagine filmica” (AA.VV., 2004: II tomo, voce “profilmico”, p. 939).
6
elemento esclusivo del cinematografo, in quanto assimilazione di un principio di
organizzazione narrativa tipico della letteratura e della pittura
4
.
Ciò che conferì al cinematografo la consacrazione ad arte con piena autonomia
(la cosiddetta “settima arte”), dandogli la possibilità di emanciparsi dai vincoli di
derivazione pittorica, teatrale e letteraria, fu la sua capacità di appropriarsi dello
spazio scenico, di muoversi al suo interno liberamente, esplorandolo e
dilatandolo a piacere. Tratto linguistico esclusivo, assente nelle modalità
comunicative degli altri media, l’effetto visivo generato dal movimento della
macchina da presa rivoluzionò i codici del racconto cinematografico,
consentendo di esprimere concetti astratti e metafore, e mutò radicalmente la
posizione stessa dello spettatore di cinema nei confronti dello spettacolo filmico,
ponendolo letteralmente all’interno del mondo rappresentato sullo schermo: esso,
infatti, “offre un analogo del ‘viaggio immobile’ nello spazio diegetico e la prova
tangibile della tridimensionalità dello spazio”
5
. Questo “viaggio immobile” è
quello tipico di un’esperienza moderna tanto quanto quella provata dal nuovo
spettatore, ossia il viaggio ferroviario: “treno e cinema hanno in comune un dato
fondamentale nella percezione del mondo: l’immobilità fisica del viaggiatore e
dello spettatore, che contrasta con la loro estrema mobilità visiva”
6
.
Con lo svincolo della macchina da presa dalla fissità arcaica giunge a
compimento il percorso generativo del medium che ha segnato il Novecento,
capace di reinterpretare la “realtà” attraverso il suo linguaggio e i suoi codici,
generando emozioni e coinvolgimento negli spettatori di ogni età: il cinema.
Ma in che modo è avvenuta la conquista del movimento da parte della macchina
da presa? Come ha cambiato il rapporto spettatore-film?
Ovvero, come è nato il cinema in quanto medium?
4
“Il principio del montaggio può essere considerato come l’anima della cultura figurativa giapponese”
(Eizenstejn, Il principio cinematografico e l’ideogramma in Eizenstejn 1964: p. 28).
5
Burch 2001: p. 162.
6
Jacques Aumont cit. in Mazzoleni 2004: p. 56.
7
1.
Il cinematografo
1.1. L’alba del sogno: le prime immagini
Un giorno, migliaia e migliaia di anni fa, nel gelido buio di una grotta in cui si è
nascosto per sfuggire alle insidie del mondo o per trovare riposo dalla fatica,
l’antenato dell’uomo si appoggia inavvertitamente alla roccia umida della
spelonca e scopre con immenso stupore di aver lasciato una traccia, un’impronta
del tutto simile alla sua mano. Dopo un certo tempo, tastata e graffiata la parete
con delle pietre, si sente investito di un potere straordinario: incidere dei segni
somiglianti alle forme che conosce, animali, piante, persino se stesso. I suoi
simili non tardano a riconoscere in lui uno stregone, un sacerdote da rispettare e
venerare; così, quella nuova e misteriosa abilità assume un valore magico,
religioso. Nello svolgersi delle ere, tramandata di generazione in generazione, la
capacità di disegnare sulla pietra si affina, migliora, mentre l’aurea sacra e
simbolica che circonda quelle figure continua ad esercitare un impatto profondo
sullo spirito sensibile degli individui che le osservano. Le pitture parietali,
realizzate per propiziare una battuta di caccia, per celebrare un evento o
ringraziare una divinità, finiscono per acquisire una struttura modulare: su
porzioni diverse della parete, o su muri distinti all’interno dell’antro, vengono
incisi disegni differenti, da “leggere” in relazione gli uni agli altri. Disegnare
diventa, quindi, un mezzo non solo per creare un’icona sacra, immagine
controllabile e gestibile di una realtà che sfugge al dominio materiale dell’uomo,
ma anche per ricordare e raccontare un avvenimento, una storia. Sezioni diverse
del disegno assumono così la funzione di raccontare i vari momenti che
compongono una vicenda. Percorrendo, ad esempio, le diverse camere e i
corridoi che compongono la grotta di Lascaux, in Francia, il visitatore odierno si
8
trova di fronte ad una serie di dipinti
1
(alcuni incisi nel rispetto di una primitiva
ma efficace profondità apparente) di cavalli, bisonti e altri animali, ma anche di
una figura antropomorfa: camminando tra le incisioni, si entra così in una
narrazione che sembra dipanarsi passo dopo passo, il cui senso, però, pare per noi
sfuggire e perdersi nei meandri del tempo.
Con il passare dei secoli, la pittura parietale si arricchisce di un nuovo elemento
che nasce, forse, dal desiderio di rappresentare in toni più vividi la realtà esterna:
il tentativo di riprodurre il dinamismo delle cose e degli esseri viventi. Nella
caverna di Altamira, in Spagna, sono stati ritrovati dipinti (risalenti a 14000 anni
fa) di animali disegnati con più zampe, come per dare l’illusione della corsa, del
movimento nello spazio. Tramite una serie d’immagini statiche di oggetti dipinti
in modo da ricordare, in termini intuivi, il moto dei corpi, l’uomo cerca di
comunicare le proprie storie, di tramandare e immortalare il proprio vissuto in
termini visivi, come esempio e guida per le generazioni a venire, ma anche come
segno indelebile del proprio passaggio. Nel fare questo, mira certo anche a
coinvolgere e colpire l’osservatore, indotto a muoversi non solo con lo sguardo,
ma anche con il corpo per seguire lo svolgersi del racconto nelle sue fasi
successive.
Nasce così, insieme alla capacità di disegnare e creare delle immagini, il sogno
dell’uomo di cogliere e riprodurre il dinamismo incessante che anima la vita in
tutti i suoi multiformi e molteplici aspetti.
1
Risalenti a più di 16000 anni fa.
9
1.2. Dai geroglifici agli affreschi: storie nate da immagini consecutive
Per migliaia di anni, questa aspirazione si esprime tramite forme di narrazione
visiva (figurativamente sempre più evoluta), date dall’accostamento di molteplici
immagini legate tra loro dalla vicinanza o dal ripetersi di temi e personaggi. Così,
gli antichi Egizi visualizzano le storie che intendono raccontare tramite un
susseguirsi di piccoli geroglifici vicini gli uni agli altri: la lotta tra due uomini, ad
esempio, è rappresentata disegnando le figure dei combattenti anche decine e
decine di volte in successione, in una riproduzione quasi seriale dei corpi, che
varia solo per le posizioni di volta in volta assunte nella foga dell’agonismo. Più
di 3000 anni dopo, nel ciclo pittorico della Cappella degli Scrovegni di Padova
2
,
Giotto narra le storie della Vergine, così come quelle di Gesù e della sua
Passione, in modo non molto differente: una concatenazione di “quadri”, vere e
proprie scene che illustrano diversi momenti salienti della vita dei personaggi,
figure la cui presenza assicura la continuità narrativa e lega ciascun blocco al
successivo.
Di secolo in secolo, migliorano le tecniche pittoriche, si affinano le modalità di
rappresentazione realistica del mondo (con la fondamentale codificazione della
prospettiva), ma lo svolgersi nel tempo di un evento continua ad essere mostrato
tramite la giustapposizione d’immagini o la compresenza nello stesso “spazio
scenico” di fasi cronologicamente successive le une alle altre: nell’affresco
intitolato La liberazione di S. Pietro dal carcere
3
, ad esempio, Raffaello dipinge
una storia formata da due atti cronologicamente distanti, mostrati però uno
accanto all’altro e separati dalla composizione delle architetture. Al centro, nello
spazio creato dalla grata della prigione, S. Pietro dorme accasciato a terra, mentre
un angelo compare e abbaglia i soldati di guardia. A sinistra della grata, altri
soldati, caduti addormentati, vengono svegliati e incitati da un superiore ad
intervenire. A destra del dipinto, S. Pietro, in piedi, è libero accanto all’angelo
che lo ha soccorso. Spazi diversi del dipinto, confinanti tra loro, coincidono così
2
Gli affreschi furono conclusi, secondo gli studiosi, tra il 1305 e il 1306.
3
Realizzato nel 1513 per la decorazione della Stanza di Eliodoro dei Palazzi Vaticani, Città del Vaticano.
10
con tempi distinti della storia
4
: una modalità di rappresentazione narrativa che
non si allontana in termini significativi da quella adottata da Giotto a Padova o
dagli antichi Egizi nei corridoi delle piramidi.
La pittura è stata, fino all’Ottocento, indubbiamente in grado di esprimere il
movimento attraverso il dinamismo della composizione, l’uso di luci ed ombre,
la contrazione dei corpi negli spasmi dell’agonia e della sofferenza, la
rappresentazione viva e vibrante dei sentimenti e delle passioni. Ciononostante, è
rimasta un medium incentrato sulla staticità, sulla fissità del punto di vista:
capace di cogliere il senso dei gesti, di mostrare la fenomenologia degli eventi
con immediatezza e forza espressiva, ma impossibilitata a riprodurre il
movimento del corpo nel tempo, lo svolgimento diacronico delle azioni umane.
Anche se nel Novecento tenta, con il futurismo, di esprimere la tensione moderna
alla velocità, oppure, complice Picasso, di cogliere la realtà materiale adottando
punti di vista multipli, la pittura non è il medium cui spetta il merito di aver
realizzato il sogno prometeico dell’uomo di catturare e ricreare il movimento.
4
Si tratta, a ben vedere, della modalità narrativa che sta alla base della rappresentazione per tappe della
via crucis.
11
1.3. L’immagine fotografica: congelare il movimento
Dal XVII secolo molti pittori (come Canaletto, ad esempio) iniziano ad
utilizzare, allo scopo di perfezionare la resa dei dettagli nei dipinti di vasti
panorami e paesaggi, uno strumento messo a punto già da alcuni secoli, i cui
principi di funzionamento risalgono agli studi fisici degli antichi greci, mentre il
fenomeno ottico che ne è alla base è stato descritto nel 1500 da Leonardo da
Vinci: la “camera oscura”, un mezzo che, indipendentemente dalla forma (che
può variare da una piccola scatola ad una tenda o una carrozza oscurata)
rappresenta l’antenato della macchina fotografica. Si tratta di “uno spazio chiuso
entro il quale la luce può entrare solamente attraverso un foro (foro stenopeico)
oppure attraverso un sistema ottico (obiettivo)”
5
: ciò che sta davanti alla camera
oscura si riflette sopra un piano posto al suo interno, creando un’immagine
luminosa e nitida. Nel 1657, Kaspar Schott, tramite un meccanismo scorrevole
che permette di variare la distanza tra la lente ed il piano, trova il modo per
mettere a fuoco la camera oscura. Secoli dopo, nell’Ottocento, sfruttando lo
stesso principio, numerosi scienziati cercano di “fermare”, su un supporto
sensibile alla luce, l’immagine riflessa dalla lente. Dopo aver inutilmente tentato
l’esperimento utilizzando carta sensibilizzata al cloruro di argento, lo studioso
Nicéphore Niépce riesce, nel 1826, a fissare la prima stabile (anche se poco
definita) immagine “fotografica” della storia, nata cioè “scrivendo con la luce”
6
:
Tavola imbandita. A partire da quella data, nel mondo scientifico iniziano una
serie di ricerche finalizzate ad ottenere un’immagine più nitida, a diminuire le
dimensioni della camera e, soprattutto, a ridurre i lunghi tempi di esposizione
(inizialmente anche di alcune ore) fino ad arrivare, intorno al 1870, a 1/25 di
secondo
7
. Nel frattempo, medici e scienziati impegnati nello studio delle
proprietà della visione, scoprono che l’occhio umano è in grado di percepire un
movimento continuo osservando una serie d’immagini lievemente diverse tra
loro, se fatte scorrere o ruotare ad una velocità di almeno 16 immagini al
5
Uccello 1997: p. 17.
6
Non a caso, “Niépce chiamò il suo procedimento eliografia”. Uccello op. cit.: p. 21.
7
Cfr. Uccello op. cit.: pp. 24, 25.
12
secondo. Sulla base di questa scoperta, nel corso del secolo vengono inventati e
messi in commercio numerosi strumenti ottici che, facendo ruotare sequenze di
piccoli disegni diversi, danno l’illusione del movimento: il Taumatropio di Paris,
il Fenachistoscopio di Plateau, lo Zootropio di Horner o lo Stroboscopio di von
Stampfer, ad esempio. Dal 1839, con l’invenzione (detta calotipia) da parte di
Talbot dei negativi su carta, era peraltro già diventato possibile stampare copie di
immagini fotografiche su lastre di vetro, per poi proiettarle
8
. Nel 1878, il
fotografo americano Muybridge, utilizzando diverse macchine fotografiche ad
esposizione rapida (1/1000 di secondo), scatta una serie di fotografie di un
cavallo in corsa, allo scopo di scomporne l’azione in una molteplicità di fasi
distinte, ma senza alcuna eventuale intenzione di proiettarle per riprodurre il
movimento. Con lo stesso obiettivo di congelare e fermare i gesti per studi di
carattere scientifico, nel 1882 il francese Marey inventa un “fucile fotografico”,
chiamato cronofotografo, capace di frazionare un dinamismo della durata di un
secondo in dodici immagini, impressionate su un rullo di pellicola (supporto
disponibile dal 1880)
9
. Queste ricerche sul movimento, insieme al continuo
svilupparsi di innovazioni tecnologiche che permettono di apportare significativi
miglioramenti alla tecnica fotografica, influenzano ed ispirano molti studiosi e
scienziati, che vedono nella fotografia uno strumento per dare corpo all’antico
sogno di ricreare, e non solo immortalare, il dinamismo della materia.
8
Ibidem: p. 22.
9
Cfr. Bordwell, Thompson 2001: p. 400.