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chi si propone di affrontare il problema della gestione delle squadre sportive d’alto livello una
conoscenza più approfondita della psicologia dei gruppi e dello sport.
Una volta giustificata l’importanza dei meccanismi psicologici nel funzionamento di gruppo
all’interno degli sport di squadra, si è proceduto con l’andare a verificare se gli allenatori dei
suddetti team fossero a conoscenza di questi aspetti e cosa ne pensassero.
Nella seconda parte di quest’elaborato viene allora presentato un questionario, da me ideato, e
sottoposto ad alcuni allenatori professionisti di squadre di calcio, pallavolo e basket
1
. Obiettivo
di tale indagine era quello di comprendere quale conoscenza, quali atteggiamenti e quali
prospettive d’uso essi avessero relativamente ad alcune caratteristiche del lavoro di gruppo
ritenute di centrale importanza.
Una volta presentati gli aspetti metodologici di tale ricerca, vengono illustrati i dati ricavati
dall’analisi del contenuto delle interviste, tentando poi di evincere cosa gli allenatori pensassero
fosse importante e necessario fare per ottimizzare il lavoro della squadra e fornendo inoltre agli
addetti indicazioni sulla gestione dei gruppi di lavoro. Queste ultime non vogliono e non hanno
le caratteristiche di sistematicità per essere considerate un “vademecum” per l’allenatore
professionista, ma cercano solo di costituire un insieme di validi spunti per la gestione dei
gruppi sportivi.
Proprio da questo punto di vista, la presente indagine s’inserisce in un contesto nel quale, già a
partire dagli anni ’80, il bisogno di formazione per professionisti di diversa estrazione si è fatto
sempre più insistente. E’, infatti, ormai assodata la necessità di aggiornare tali persone con i
contributi delle cosiddette “scienze nuove”, come la psicologia, onde fornire loro le conoscenze
e gli strumenti per operare in un mondo che si sta trasformando sempre più velocemente.
E’ necessario cercare di aiutare a riflettere gli operatori che hanno a che fare con gruppi sportivi
d’altissimo livello.
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Il dischetto contenente la sbobinatura di tutte le interviste realizzate è depositato presso il prof. Cesare Kaneklin,
relatore della presente tesi.
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Essi devono considerare in un’ottica più ampliata la loro professione, cercando di non fermarsi
al solo aspetto tecnico-tattico del rapporto, ma cominciando a pensare i giocatori, non solo
come membri di un aggregato di persone che si trovano insieme e fanno le stesse cose, ma
anche come individui concreti che comunicano e interagiscono di continuo, che influenzano il
rapporto tra loro ed il rapporto con gli obiettivi del gruppo.
Se si vogliono creare squadre, intese come gruppi di lavoro efficaci ed efficienti, è necessario
intenderle come insiemi di persone strettamente interdipendenti, riunite attorno ad un obiettivo
comune, nel quale però non si esaurisce il loro rapporto. Bisogna sempre ricordare che ciascun
giocatore è, infatti, portatore di una propria storia personale e di una propria personalità che
contribuiscono a determinare la rete emotiva e relazionale che verrà creandosi con il resto dei
componenti della squadra, e che influenzerà poi in maniera significativa la prestazione del
gruppo.
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PARTE PRIMA
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CAPITOLO I
LA PSICOLOGIA DEI GRUPPI
L’interesse per il concetto di gruppo nasce dalla volontà di scoprire la natura del rapporto che
l’individuo instaura sia con le altre persone, sia con la società nel suo complesso. Il desiderio di
conoscere quali siano i meccanismi che regolano i comportamenti e i modi di pensiero in
gruppo, non è però un aspetto unicamente dell’uomo contemporaneo o, tanto meno, una
curiosità che caratterizza solamente chi si occupa di squadre sportive; basta pensare che già
nella Republica di Platone e nella Politica di Aristotele si trovano riflessioni sui fenomeni
collettivi, sulle strutture che concorrono all’organizzazione della vita pubblica e sulle procedure
attraverso cui si articolano i rapporti sociali nella polis.
L’interesse per i fenomeni di gruppo rimase poi latente per moltissimi anni e bisogna aspettare
il 1930 perché si verifichi il primo tentativo di dare una definizione scientifica di gruppo. E’,
infatti, questo l’anno in cui Kurt Lewin, uno studioso di origine tedesca esponente della
Gestalttheorie, si trasferisce da Berlino negli Stati Uniti, dove viene a contatto con la nascente
psicologia sperimentale.
La sua opera costituisce il primo organico e fondamentale tentativo di collegare la ricerca
psicologica all’azione sociale (action-research), cioè all’intervento rivolto alla “soluzione dei
conflitti sociali” (Lewin, 1948). Egli formula una teoria originale – la teoria di campo – che
l’autore stesso definisce un metodo “galileiano” e “costruttivo”, utile “per analizzare le
relazioni causali e per edificare costrutti scientifici”, teoria che mette alla prova in un
programma di ricerca sperimentale (Lewin, 1951a, p.45). Lewin introduce in psicologia,
mutuandolo dalla fisica, il concetto di campo visto come “la totalità dei fattori coesistenti
considerati come interdipendenti” (Lewin, 1951b, p.46) e lo applica dapprima allo studio delle
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azioni individuali, poi allo studio dei gruppi. Il concetto di campo permette, infatti, di
evidenziare il nesso dinamico esistente tra i fattori individuali e i fattori socioambientali.
L’ipotesi teorica di fondo è che la realtà, il campo, sia articolata in regioni che risultano tra loro
contigue e più o meno sovrapposte. L’insieme delle regioni che risultano accessibili al singolo
costituisce lo spazio vitale individuale, ossia lo spazio psicologico di libero movimento. Lo
spazio vitale s’identifica quindi con la situazione psicologica presente dell’individuo o del
gruppo, un presente che, ovviamente, trasloca nel “qui ed ora” anche lo spessore dell’esperienza
passata. L’intervento di situazioni di tensione e di bisogno o l’emergenza di spinte interiori o
esterne possono attivare processi in grado di determinare la “locomozione” da una regione
all’altra e, quindi, di provocare una nuova strutturazione dello spazio vitale dell’individuo. Sia
che la locomozione avvenga in senso fisico, sia che avvenga in senso psicologico, essa
comporta un cambiamento della struttura cognitiva, ossia una ri-rappresentazione, a livello
cosciente, dello spazio vitale e costituisce pertanto, in senso generale, un apprendimento
(Lewin, 1952).
Lewin concettualizza il gruppo come campo unitario dinamico i cui membri sono in relazione
d’interdipendenza reciproca. “Nell’analisi lewiniana il gruppo è un fenomeno, non una somma
di fenomeni rappresentati dall’agire e dal pensare dei suoi membri; è cioè un’unità, per cui
l’analisi può focalizzarsi non solo sulle persone del gruppo, ma sul gruppo in sé” (Amerio,
1982, p.185).
Nella concezione dinamica lewiniana un gruppo – un gruppo che lavori – è un insieme
dinamico caratterizzato da un rapporto d’interdipendenza tra i suoi componenti e da una
comunità di scopi, dove l’azione del gruppo esprime un’intenzionalità rivolta verso un fine in
base ad un progetto e ad una decisione comune. Il gruppo e il suo ambiente costituiscono un
campo sociale dinamico, in cui le modificazioni di una variabile privilegiata possono provocare
modificazioni della struttura d’insieme.
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Indubbiamente, il lavoro svolto da Kurt Lewin rappresenta “una tappa fondamentale per tutta la
psicologia e per le scienze sociali in generale, sia per l’originalità dell’approccio, sia per la
novità delle intuizioni, sia per la fecondità della ricerca” (Kaneklin, 1993, p.7).
La ricerca scientifica sui gruppi ebbe storicamente origine, tuttavia, da un esperimento condotto
in azienda su alcuni gruppi di lavoro. Il riferimento è al noto esperimento di Hawthorne, presso
la Western Electric, condotto dal sociologo Elton Mayo, che resta il primo e più noto tentativo
organico di interpretare la realtà dell’organizzazione aziendale non nei suoi aspetti tecnici o
puramente economici, ma in quelli psicosociologici (Mayo, 1969). La ricerca fu orientata
sull’incidenza delle condizioni ambientali sull’efficienza dei gruppi di lavoro e pose in evidenza
un curioso fenomeno: sui gruppi sottoposti all’esperimento il variare delle condizioni
ambientali, contrariamente alle ipotesi di base, non produceva effetti sensibili sulla produttività
che rimaneva in ogni caso sensibilmente superiore a quella dei gruppi di controllo. Da qui la
rilevazione, da parte dei ricercatori, del cosiddetto “effetto Hawthorne”, un elemento X che
incideva positivamente sulla produttività aumentando il morale dei membri del gruppo e che era
stato individuato nella particolare situazione psicologica d’essere oggetto privilegiato
d’attenzione e sperimentazione, che è un elemento di gratificazione collettiva assai potente.
Da allora (anno 1927 e ss.) l’interesse degli studiosi dei gruppi sociali, e segnatamente sui
piccoli gruppi, crebbe vigorosamente e portò a numerosi tentativi di definirne le caratteristiche
e le proprietà. Pionieri di queste ricerche, oltre a Kurt Lewin, furono i suoi discepoli Lippitt
(1958) e White (1960), soprattutto per quanto riguarda i differenti stili di guida (leadership) e
Sherif (1962) per quanto riguarda l’emergere delle norme di gruppo come elemento costitutivo;
particolarmente noto è lo studio di White sul comportamento dei gruppi nei bassifondi di
Boston.
Gli studi sperimentali di Elton Mayo, che possiamo interpretare come una reazione ad una
psicologia industriale che si andava sviluppando similmente ad un’emanazione diretta del
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taylorismo, danno origine alla cosiddetta scuola delle Relazioni umane. Questa scuola,
portatrice di un certo tipo di analisi delle organizzazioni, dei rapporti tra gruppi al loro interno e
degli individui che ne fanno parte, contribuì, parallelamente all’influsso lewiniano, alla
realizzazione di tutta una serie di opere di vari autori che saranno poi accomunati come
appartenenti alla scuola dello Sviluppo Organizzativo (OD): “…un approccio teorico e pratico
alla vita delle organizzazioni che si sviluppa negli Stati Uniti tra gli anni Cinquanta ed i
Sessanta, e che si connota per il forte atteggiamento pragmatico ed efficientista” (Kaneklin,
1993, p.23).
Esso rappresenta sicuramente la prospettiva di studi e ricerche che, più concretamente e con
maggior completezza concettuale, ha saputo tradurre gli spunti offerti proprio da Mayo e Lewin
in un modello integrato di analisi ed intervento nelle organizzazioni: che meglio, cioè, si è
mossa nell’ottica di un consolidamento del rapporto tra teoria e prassi, tra cambiamento ed
evoluzione delle conoscenze sui fenomeni organizzativi e sociali e cambiamento ed evoluzioni
dei fenomeni stessi. Comunque, sul piano metodologico tutti i contributi fin qui citati
sanciscono la possibilità d’utilizzare il “gruppo” quale artefatto culturale atto ad intervenire ed
influenzare il comportamento individuale ed il funzionamento delle organizzazioni sociali.
In linea con le teorie propugnate dal OD, bisogna ricordare poi il contributo di Elliot Jaques:
psicoanalista e studioso di organizzazioni, già appartenente al Tavistock Institute di Londra,
egli rappresenta in un certo senso la “versione europea” dello Sviluppo Organizzativo che lui
stesso definisce Socioanalisi (Jaques, 1951). Anche in questo caso il richiamo a Mayo e Lewin
è ampiamente presente, anche se il contributo più significativo all’elaborazione degli schemi di
analisi e di intervento nelle organizzazioni proposti è da ricondurre alla matrice psicoanalitica.
Proprio la psicoanalisi costituisce il fondamento della seconda matrice teorica individuabile
all’interno della storia della psicologia dei gruppi. Se, infatti, possiamo parlare di “filone della
psicologia sociale sperimentale” per ciò che riguarda i contributi forniti da Mayo alla Western
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Electric e di Lewin durante la seconda guerra mondiale, allo stesso modo si può definire “filone
psicoanalitico” quello che parte da Sigmund Freud, ma che valorizza soprattutto gli apporti di
autori noti come Wilfred Bion, Melanie Klein, Elliot Jaques, Didier Anzieu ed altri.
Lewin, e coloro che hanno seguito la strada da lui indicata, cercano costantemente di raccordare
obiettivi sperimentali a obiettivi applicativi, sviluppo della conoscenza su situazioni di gruppo e
suo utilizzo per favorire il cambiamento dei comportamenti. Al contrario, la teoria
psicoanalitica offre strumenti di analisi e interpretazione ai fini della presa di coscienza dei
fenomeni di gruppo; offre strumenti teorico-metodologici per la definizione, e quindi per
l’analisi e interpretazione, del setting del gruppo. La psicoanalisi ha anche il merito di aprire
alla scoperta della rilevanza delle interferenze affettive, anche di ordine implicito e inconscio,
nella strutturazione dei rapporti sociali; dell’ambivalenza intrinseca che caratterizza le relazioni
interumane; del gruppo, qualunque gruppo vivente, quale forma generata da processi di
collusione mentale inconscia tra i membri e individuabile nei dati verbali e comportamentali.
Concependo i due filoni in questa maniera, emerge immediatamente come le ipotesi di lavoro
supposte da entrambi possano essere facilmente applicate ai temi emergenti nel campo della
psicologia dei gruppi sportivi. Anzi, sarà proprio dalla loro fusione in una visione più integrata
dei fenomeni di gruppo che potrà derivare il maggiore beneficio.
Per parlare del secondo percorso di ricerca e dei contributi dei principali autori ad esso
appartenenti non si può non partire, come già detto, da Sigmund Freud (1940-1952), la cui
attenzione verso i fenomeni di gruppo s’indirizza però in maniera ancora embrionale:
l’approccio freudiano al problema consiste essenzialmente in un allargamento del concetto di
realtà e nella peculiarità del metodo.
Per quanto riguarda l’oggetto di studio (dinamica di gruppo) si deve sottolineare che nell’opera
di Freud l’analisi del sociale non si riduce all’esame delle forze oggettive e manifeste, bensì
comprende soprattutto l’altra scena della realtà: il mondo degli affetti e dei vissuti, della
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fantasia e dei fantasmi, meno evidenti all’osservazione, ma non per questo meno importanti e
concreti.
Per quanto riguarda il metodo, se le tendenze e le scuole precedenti miravano a spiegare ciò che
non appare all’osservazione tramite ciò che appare, la psicoanalisi, invece, cerca di spiegare ciò
che appare attraverso ciò che non appare all’osservazione diretta. Opporre quindi la realtà dei
fantasmi e dei vissuti alla realtà cosiddetta materiale, la realtà del pensiero alla realtà esteriore,
equivale ad affermare che il soggettivo è il nostro oggetto, l’oggetto della psicologia, altrettanto
valido di quello delle scienze naturali. Se gli affetti, le pulsioni allo stato libero e nelle
rappresentazioni, sono meno evidenti, non per questo sono meno reali.
Per quanto riguarda l’analisi del sociale e lo studio dei piccoli gruppi, non è dunque il livello
manifesto ad essere al centro dell’ottica psicoanalitica, ma l’”Altra zona”, il non detto e
l’informale, in cui si gioca – come afferma Freud – la funzione dell’immaginario. Non i
processi o gli accadimenti di gruppo, direttamente osservabili, non le strutture, le norme e i
sistemi di relazione immediatamente visibili, sono l’oggetto di studio, ma i vissuti e le
dinamiche inconsce, e soprattutto la funzione inconsapevole che ha il gruppo per i singoli
membri che lo compongono. Il gruppo e la sua dinamica trova la sua spiegazione non quale
istituzione, bensì quale formazione psichica immaginaria.
In particolare, l’estensione delle dottrine freudiane alla sfera dello studio dei gruppi si ritrova in
quattro scritti: “Totem e tabù” (1913), “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921), “Il
disagio della civiltà” (1929) e “Mosè e il monoteismo” (1938).
Tali scritti si situano nella stessa matrice concettuale e manifestano una certa continuità nella
risoluzione dei problemi. Di essi i primi tre possono essere considerati una vera e propria
trilogia, in cui l’analisi del sociale è in certa misura analisi storica della civiltà e all’interno
della quale Freud cerca di riscoprire l’intero arco di sviluppo della specie (dell’uomo, dal punto
di vista della sua filogenesi). Abbiamo così in “Totem e tabù” un’interpretazione del passato, in
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“Psicologia delle masse” uno schema interpretativo del presente, e nel “Disagio della civiltà”
un’ipotesi sul futuro dell’umanità.
Un rilevante apporto alla psicoanalisi dei gruppi viene poi dalla scuola psicoanalitica inglese.
Da un lato attraverso il contributo teorico e clinico di Melanie Klein, dall’altro attraverso i
contributi di Rickman, Main, Foulkes, Bion, della Tavistock Clinic e del Tavistock Institute di
Londra, dove, a partire dal 1935, furono messi a punto metodi di gruppo finalizzati alla terapia
e alla formazione.
Anche se la Klein non si occupò direttamente dei fenomeni della dinamica di gruppo, alcune
sue osservazioni sull’affettività sono particolarmente rilevanti. Le sue concettualizzazioni
rivestono oggi un’importanza notevole per quanto riguarda lo studio psicoanalitico del gruppo.
Questo perché i meccanismi descritti dalla Klein si ripresentano nella situazione gruppale: qui
l’individuo, di fronte alla complessità della vita affettiva del gruppo, rimette in atto processi
psichici primari (scissione, proiezione, identificazione proiettiva, ecc.).
Melanie Klein (1932; 1937; 1948; 1955; 1957; 1961; 1963) amplia ed approfondisce inoltre
l’intuizione di Freud sull’importanza e l’azione della libido e dei processi d’identificazione
all’interno della dinamica di gruppo.
Bion (1961) si stacca da questa impostazione interpretativa per studiare sul campo gli stessi
fenomeni. Egli, come dopo Ezriel (1950), Jacques (1951; 1955; 1956; 1961; 1964; 1970),
Menzies (1960), Foulkes (1964), Sutherland (1965; 1969), Balint M. e E. (1961), cerca in una
pratica concreta (psicoterapia di gruppo, gruppi di formazione, interventi nelle organizzazioni)
di verificare le ipotesi psicoanalitiche sui gruppi. Stimolato dalle conclusioni di Freud e, in
particolare, dagli apporti kleiniani sull’angoscia e sui fantasmi, egli però rileva un limite
dell’orientamento freudiano allo studio del gruppo nell’assenza di differenze tra analisi dei
fenomeni psicologici individuali ed analisi di quelli di gruppo. Secondo Bion, infatti, la
differenza non è solo di ordine quantitativo, ma anche qualitativo: il comportamento dei
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membri di un gruppo si manifesterebbe su due piani. Il piano razionale e conscio che riguarda
lo scopo o il compito comune, e che dipende da una corretta analisi delle risorse e delle
condizioni e da un coordinamento dei ruoli in funzione degli scopi; l’attività che genera da
questo livello è definita da Bion “gruppo di lavoro”. Il piano emotivo e inconscio che
interferisce in vario modo con il primo, a volte paralizzandolo, a volte stimolando la
cooperazione dei membri.
Il gruppo tenderebbe poi ad assoggettarsi alternativamente a tre stati affettivi molto primitivi, o
assunti di base, senza riconoscerli, e che lo porterebbero ad assumere comportamenti di natura
simil-psicotica. Lo stesso autore scrive nel suo volume Esperienze nei gruppi: “Questi assunti
di base che sembrano essere adeguatamente descritti dai tre concetti di accoppiamento,
dipendenza e attacco-fuga , ad un’ulteriore indagine danno l’impressione di potersi sostituire
l’un l’altro come se rispondessero a qualche impulso non ben chiaro”.
Il gruppo di dipendenza può ricercare tal condizione dal leader, stato di dipendenza che
risponde al sogno di un capo potente e buono che si faccia carico delle responsabilità; gli
individui sono riuniti per ricevere nutrimento spirituale e protezione materiale da un capo
infinitamente superiore. All’apparenza il gruppo funziona, ma non progredisce in modo
proficuo.
Il gruppo di attacco-fuga si crea qualora il leader non soddisfi la ricerca dello stato di
dipendenza, per cui il gruppo si sente frustrato e abbandonato e tende ad individuare nel leader
il proprio nemico. Il gruppo si costituisce quindi per difendere o aggredire qualcuno o qualcosa
da cui si sente minacciato.
Nel gruppo di accoppiamento l’unità è fondata sulla speranza che dall’accoppiamento sessuale
dei membri possa nascere qualcosa o qualcuno che salverà il gruppo dalla sua miseria terrena.
Questa coppia, che può apparire come una speranza di rifondazione dell’intero gruppo, nei fatti
si costituisce come un sottogruppo indipendente e rappresenta un pericolo per il lavoro di
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gruppo, soprattutto nel caso in cui l’aspettativa messianica si realizzi.
Numerosi sarebbero ancora i contributi di Bion all’analisi dei fenomeni gruppali, così come lo
sono in lui i riferimenti alla teoria kleiniana sulle relazioni oggettuali che il bambino, il neonato,
stringe con gli oggetti parziali che lo circondano.
Elliot Jacques (1970) però, pur rimanendo ancorato al sistema concettuale kleiniano, sposta
l’attenzione dai gruppi psicoterapeutici dominati dagli assunti di base, ai gruppi di lavoro e alle
istituzioni realistiche che hanno compiti e obiettivi specifici da raggiungere. Egli elabora un
modello di interpretazione del funzionamento di organizzazioni specifiche quali quelle
industriali e del significato che in generale le organizzazioni rivestono per gli individui ad un
livello più profondo rispetto a quello definito dagli scopi espliciti per cui esse si costituiscono.
L’ipotesi principale di Jacques è quella secondo cui le istituzioni sociali permettono di
rinforzare i meccanismi individuali di difesa dei loro membri contro il riaffiorare delle
primordiali ansie paranoidi e depressive.
Come Bion dunque, anche egli ipotizza una natura psicotica dei comportamenti sociali: questi
sarebbero infatti strettamente connessi a processi di identificazione proiettiva ed introiettiva e a
meccanismi difensivi di scissione, controllo onnipotente di sé e gli altri, negazione ed
idealizzazione. Ciò non significa che i comportamenti di gruppo e inter-gruppo siano comunque
psicotici, ma che è probabile che essi funzionino anche in questo modo, anche se non
esclusivamente. L’appartenenza ad un’istituzione comporta l’incontro tra i sistemi difensivi
dell’individuo e quelli sociali, per cui è necessaria una continua ristrutturazione di entrambi.
L’equilibrio tra i due livelli dipenderebbe da ripetute proiezioni delle difese individuali nel
sistema sociale e da ripetute introiezioni delle difese sociali nel sistema psichico individuale.
Quando la differenza tra i due livelli si fa troppo grande, si ha una rottura del sistema difensivo,
che da realistico-funzionale diventa disfunzionale e patologico.