2
settanta il modello fordista si trova ad affrontare una prima fase di destabilizzazione. A
produrre questa crisi intervengono numerose circostanze sulla scala internazionale, che
si intersecano con eventi relativi ai singoli paesi. La complessità e l’incertezza delle
condizioni che si determinano sono però di intensità e di natura tali da non poter essere
semplificate e facilmente ridotte da schemi organizzativi tradizionali. Nella nuova età
dell’incertezza, i meccanismi organizzativi di una fase meno complessa perdono
efficacia, e l’insieme di questi fenomeni incide negativamente sul rendimento
economico delle imprese e spinge i grandi gruppi industriali ad attuare strategie di
ristrutturazione produttiva, allo scopo di diminuire il costo complessivo del lavoro e di
accrescerne la produttività
2
.
Nel quadro di tali strategie rientra anche l’intensificazione della ricerca, che
favorisce l’avvio di una nuova ondata di innovazioni basate in primo luogo sulle
applicazioni della tecnologia microelettronica, che vanno dall’automazione di intere fasi
dei cicli produttivi, allo sviluppo degli strumenti di calcolo, all’incremento dei mezzi
per la comunicazione a distanza.
Il nuovo modello economico postfordista ha importanti effetti sull’articolazione
dello spazio economico, e dà corpo allo stesso tempo a un nuovo modello urbano e a un
divenire della città che è ancora in atto e le cui caratteristiche non sono ancora del tutto
chiare. Sembrano comunque delinearsi alcuni punti fermi per quanto riguarda le nuove
tendenze localizzative degli attori economici rispetto all’epoca fordista: nell’epoca
postfordista gli attori principali sono imprese, spesso multinazionali, che dal punto di
vista produttivo si avvalgono di stabilimenti più piccoli e territorialmente decentrati, in
funzione delle esigenze delle diverse unità di produzione.
In conseguenza di ciò, mentre il periodo fordista appariva dominato da una
generale tendenza alla concentrazione delle attività produttive in grandi poli urbani, il
periodo più recente vede, piuttosto, la compresenza di spinte centrifughe e centripete.
Le prime riguardano le attività industriali e, soprattutto, quelle che producono beni di
largo consumo: esse tendono a essere svolte in stabilimenti di minori dimensioni e
collocati al di fuori delle aree metropolitane, se non addirittura in aree a basso sviluppo.
Sul territorio la dinamica di sostituzione e specializzazione funzionale dell’area
centrale è accompagnata dall’abbandono di vaste aree destinate in precedenza alla
produzione di beni. La chiusura o la rilocalizzazione degli impianti produttivi dalle aree
centrali verso le direttrici periferiche di sviluppo vede infatti aprirsi grandi vuoti urbani,
che rischiano di rimanere inutilizzati ed abbandonati a causa di una interruzione del
circuito di riutilizzazione degli spazi urbani per nuove funzioni. Per le aree abbandonate
emerge quindi la necessità di un intervento attivo dell’operatore pubblico nel definire
una strategia complessiva di recupero, mirata prioritariamente alla ricostruzione di un
contesto fisico e funzionale capace di generare nuove potenzialità di sviluppo
economico e territoriale.
Non mancano d’altra parte le spinte centripete, le quali si riferiscono soprattutto
alle attività terziarie più qualificate (centri di consulenza e di marketing, finanza,
ricerca, ecc.) per le quali la localizzazione nei grandi centri metropolitani e nei centri
direzionali appare ancora più importante che in passato. Infatti per esse risulta
particolarmente rilevante la vicinanza con i nodi del sistema dei trasporti, data la forte
mobilità dei loro addetti, ed è essenziale la disponibilità di manodopera ad alta
qualificazione, quale si può trovare soprattutto nelle aree metropolitane dei paesi
2
Bagnasco Arnaldo, “Torino, un profilo sociologico”, Nuovo Politecnico 154, Einaudi Editore, Torino,
1984.
3
avanzati, le quali tendono quindi a diventare la sede privilegiata di insediamenti terziari
e direzionali. Inoltre, laddove emerge una convergenza di interessi tra l’intervento
privato e l’intervento o il sostegno dell’operatore pubblico, questi vengono raggruppati
all’interno di poli scientifici e tecnologici, una nuova modalità di aggregazione spaziale
basata essenzialmente sulla complementarità e sinergia fra centri di ricerca e attività
produttive che applicano in tempi rapidi i risultati di tale ricerca al fine di perseguire
l’innovazione tecnologica.
Le trasformazioni economiche che hanno investito i paesi più sviluppati si
ripercuotono anche sulla distribuzione della popolazione e dei diversi gruppi sociali sul
territorio. Le città centrali perdono popolazione in favore delle fasce periurbane e delle
cinture esterne e si assiste a un’inversione di tendenza di grande rilievo: alla città-
fabbrica, anima pulsante della civiltà industrial-capitalistica, progettata in funzione del
modello produttivo fordista con le sue esigenze di concentrazione di popolazione,
organizzazione produttiva e investimenti, si sostituisce una nuova forma urbana la quale
occupa sempre più spazio e dilaga nella campagna secondo una tendenza, tipica
soprattutto dell’Europa e del Nord America, alla diffusione urbana.
In definitiva, la continua crescita delle città ha portato negli ultimi decenni
all’urbanizzazione generalizzata del territorio: le città si espandono sino a coprire vaste
aree geografiche, se non regioni, dai confini incerti. Ne deriva che l’assetto
metropolitano non è più precisamente definibile sul territorio entro confini spaziali
rigidi; la forma metropolitana non è rappresentabile come una città “più grande” il cui
accesso è da ritrovarsi in una cerchia di mura più ampia, bensì appare come una forma
di insediamento diffusa sul territorio, dai confini poco percepibili e non facilmente
definibili. La città diventa una città senza fine, un continuum urbano-rurale ininterrotto,
fenomeno che è ben visibile negli sviluppi dell’area metropolitana milanese, nonché
nell’urbanizzazione generalizzata del territorio padano, tale per cui in molti ritengono
che si possa ormai parlare di una vera e propria “megalopoli padana”.
Parallelamente a questa inarrestabile espansione urbana, alla città industriale
dalla struttura monocentrica si sta progressivamente sostituendo un nuovo modello
urbanistico polinucleare, composto da tanti insediamenti abitativi, produttivi e
funzionali, sparsi su un territorio sempre più vasto e di difficile demarcazione.
All’interno di questo quadro di transizione verso una nuova forma urbana si
inserisce il “Progetto Bicocca”, il quale mira a costituirsi come un vero e proprio
“centro storico della periferia diffusa” e a contribuire, in tal modo, a una visione
policentrica dell’area metropolitana milanese. Obiettivo di tale progetto, che mira alla
riutilizzazione delle aree industriali dismesse degli stabilimenti Pirelli, sarebbe infatti
quello di “costituire un nuovo polo di centralità per l’area del Nord della città, dotato di
un ordine insolito rispetto alla deregolazione della campagna urbanizzata, e
caratterizzato dalla mescolanza di funzioni e dalla presenza di attività di ricerca e di
insegnamento universitario”
3
.
Ed è appunto al Progetto Bicocca che è dedicata la seconda parte della tesi, con
l’obiettivo di descrivere gli intenti dei suoi promotori, le caratteristiche del progetto e i
successivi sviluppi che questo ha subito in conseguenza del mutamento delle condizioni
esterne e di una parziale ridefinizione delle funzioni previste.
Il Progetto Bicocca nasce formalmente nel 1985, da un accordo stipulato fra le
Industrie Pirelli, proprietarie dall’area in questione, e le autorità locali, ovvero il
Comune di Milano, la Provincia di Milano e la Regione Lombardia. Il Protocollo di
3
Gregotti Vittorio, “Progetto Bicocca, un contributo per una Milano policentrica”, Milano, 1999.
4
Intesa è l’esito di un rapporto di collaborazione tra operatore pubblico e operatore
privato inedito nella nostra città, tanto da creare un caso specifico nella gestione dei
rapporti tra privato, qui inteso come grandi gruppi industriali, ed enti pubblici. Esso
sancisce l’obiettivo della società Pirelli di riqualificare una vasta area di sua proprietà,
mediante il restringimento dello spazio occupato dall’industria, o di ciò che resta dopo il
riordino degli anni precedenti, e la riutilizzazione degli spazi dismessi per ospitare un
“centro tecnologico polifunzionale ed integrato”, in cui, accanto ad aziende innovative e
centri di ricerca, è previsto l’insediamento di un’importante struttura universitaria.
Si tratta di un progetto di notevole portata sia per le sue dimensioni - riguarda il
futuro di un’area di oltre 400 mila metri quadrati - sia per l’impatto che la soluzione
identificata avrà, secondo le previsioni, sul contesto urbano e regionale, in particolare
sulla riqualificazione produttiva ed urbanistica di un vasto comprensorio industriale
posto a nord della città di Milano; il Progetto Bicocca si inserisce pertanto in uno
scenario futuro di Milano che, in linea con quanto è avvenuto o avverrà in molte altre
grandi città europee, prospetta rilevanti cambiamenti di destinazione e di uso del
territorio.
In seguito alla stipulazione del Protocollo d’Intesa viene indetto un concorso
internazionale di idee per sviluppare il tema del futuro assetto urbanistico ed
architettonico dell’area, concorso a cui prendono parte diciotto architetti di fama
internazionale e che, dopo una prima selezione superata dai tre progetti di Gabetti e
Isola, di Gino Valle e di Vittorio Gregotti e Associati, si conclude con la vittoria di
quest’ultimo nel febbraio del 1988.
Il progetto di Vittorio Gregotti viene scelto per il suo carattere flessibile e capace
allo stesso tempo di garantire una configurazione sufficientemente chiara e precisa del
Polo Tecnologico, nonostante l’intervento di una pluralità di soggetti che ne interpretino
i caratteri, oltre che per il fatto di proporre una definizione di fasi attuative che
permettano di combinare i tempi amministrativi di approntamento ed approvazione
degli strumenti urbanistici con l’abbandono progressivo dell’uso industriale e con la
configurazione di nuove parti destinate alla ricerca ed alla sperimentazione di nuovi
processi, prodotti e tecniche.
Lo scopo principale del progetto è la trasformazione dell’area da recinto chiuso
di fabbrica a parte di città, prendendo come spunto la maglia viaria esistente all’interno
dello stabilimento stesso, che, come giacitura e tracciato, coincide largamente con il
reticolo circostante di quella parte di città nella sua versione consolidata da circa un
secolo. Si assume inoltre l’obiettivo di gerarchizzare le parti in senso urbano:
formazione di piazze, viali alberati e strade trasversali, aree verdi che definiscano degli
isolati e istituiscano rapporti e relazioni tra le parti, in grado soprattutto di restituire
un’immagine complessiva dell’area.
Il progetto vincitore del concorso è tuttavia costretto a confrontarsi, nella fase di
attuazione, con numerosi fattori di inefficienza, derivanti dal mutamento di alcune
condizioni esterne. In particolare si può rilevare la difficoltà dell’operatore privato
promotore dell’iniziativa, la Pirelli S.p.A., di individuare i possibili utenti del Polo
Tecnologico, nonché di definire con maggiore chiarezza la connotazione funzionale del
Polo, ma anche l’instabilità politica (nel periodo 1990-1993 si alternano quattro giunte
alla guida della città) gioca un ruolo determinante nel rallentare il processo decisionale.
Durante la sua attuazione il Progetto Bicocca si è pertanto dovuto adattare
all’evoluzione degli orientamenti della Pubblica Amministrazione, ma soprattutto si è
riconfigurato in base alle “occasioni” che il mercato gli ha offerto. Il risultato è ben
5
illustrato dalle parole di Nicolò Costa, secondo il quale al posto del previsto Polo
Tecnologico è sorto alla Bicocca un “polo della cultura e della scienza”, che vede una
complementarità di funzioni propriamente scientifiche, accanto ad altre di carattere più
genericamente “culturale”, la Scala bis prima fra tutte.
Lo stesso Carlo A. Puri Negri, presidente della società Milano Centrale Servizi
S.p.A., spiega che “dell’originario ‘Progetto Bicocca’ è stata preservata in particolare la
dimensione scientifica ed estetica, mentre è stata potenziata la dimensione culturale e
sociale dell’intervento. La presenza di una cospicua componente abitativa, la ricchezza
dei servizi, come le attrezzature sportive, i negozi, il verde, i parcheggi,
rappresenteranno elementi fondamentali per un consistente miglioramento della qualità
della vita, e il passaggio significativo da polo tecnologico a nuova centralità urbana, con
la creazione di un secondo centro di Milano: un elemento di discontinuità per una città
tradizionalmente monocentrica”.
La connotazione assunta dal Progetto Bicocca di nuova “centralità urbana” per la
varietà e importanza delle funzioni che ospita, nonché di area destinata a soddisfare le
nuove esigenze dell’abitare, porta così alla ribalta il tema della qualità della vita, tema
che a partire dagli anni ’70 è entrato prepotentemente a far parte del linguaggio comune
e di quello scientifico, per la sua capacità di evocare e riassumere la complessità dei
problemi che caratterizzano la vita dell’uomo moderno, in senso non soltanto materiale
ma anche esistenziale.
A questa tematica è dedicata la terza ed ultima parte della tesi, incentrata su
uno studio empirico della qualità della vita nel quartiere Bicocca. La ricerca, di carattere
diagnostico-esplorativo e basata su un campione non rappresentativo composto da
ventiquattro persone residenti in alcune abitazioni di recente costruzione, ci permette di
puntare l’obiettivo direttamente sulla vita all’interno del quartiere, per vederlo da
vicino, attraverso gli occhi dei suoi abitanti. Quella che emerge è l’immagine di un
quartiere in evoluzione, ancora in parte carente dal punto di vista dell’offerta di servizi,
della presenza di verde e di spazi per la socialità e lo svago, ma che sta scommettendo
sulla sua capacità di garantire elevati standard qualitativi di vita, in una città in cui la
congestione, il traffico e la mancanza di verde sono tra le principali cause della fuga alla
ricerca di spazi e ritmi più vivibili e ‘umani’.
D’altra parte il Progetto Bicocca è nato anche come una scommessa, si è
imposto per il suo carattere innovativo e coraggioso nel voler affrontare con un’idea
forte una fase di transizione come quella che la nostra città ha dovuto attraversare negli
ultimi quindici-vent’anni, e nonostante le molte difficoltà e i ripetuti cambi di rotta ha
saputo mantenere questo suo carattere di sfida: dapprima ha puntato a diventare un polo
tecnologico, poi a costituirsi come nuovo centro della periferia, e oggi si confronta con
il problema della qualità della vita, divenuto ormai prioritario per gli abitanti delle
grandi città del mondo occidentale, in cui il problema della sussistenza è stato in gran
parte risolto, e alla preoccupazione per il benessere materiale si affianca quella per gli
aspetti qualitativi della propria esistenza.
Se il Progetto Bicocca riuscirà a vincere questa sfida è una questione ancora
aperta, i lavori sono tuttora in corso di svolgimento e la realizzazione del Progetto
Bicocca è lontana dall’essere terminata, non tanto per quanto riguarda la sua costruzione
fisica quanto per ciò che concerne la crescita della sua vita e le modificazioni che essa
indurrà nell’immediato circostante e nell’area metropolitana, nel momento in cui in
quest’ultima si riconoscerà pienamente l’esistenza di un nuovo luogo e delle sue
funzioni.
6
Desidero ringraziare innanzitutto la Dott.ssa Viviana Rocco, la quale, per il suo
ruolo di responsabile dell’Archivio Storico Pirelli, ma soprattutto per la sua
disponibilità personale, è stata per me un punto di riferimento sicuro a cui rivolgermi in
caso di necessità. Altri ringraziamenti vanno al Prof. Guido Martinotti, il quale ha
seguito per tutti questi mesi il mio lavoro di tesi dandomi preziosi consigli in proposito,
ed al Prof. Nicolò Costa, che mi ha aiutato a fare un po’ più di chiarezza sulla
complessa vicenda del Progetto Bicocca. Infine, non posso esimermi dal ringraziare di
cuore tutte quelle persone che hanno partecipato alla ricerca sulla qualità della vita
alla Bicocca, e senza le quali questa ricerca non sarebbe stata possibile.
Grazie, Elena Castagnoli.
7
PARTE PRIMA:
LA CITTÀ IN TRASFORMAZIONE
8
1. L’URBANESIMO FORDISTA E LA SUA CRISI.
1.1. Premessa: la città, fenomeno economico.
“La città moderna è il punto centrale di interessi economici internazionali. Essa
ha un carattere metropolitano non soltanto per il fatto che il numero di abitanti è
aumentato ovunque in modo quasi fantastico, a causa di una fuga generale verso la città,
ma ancora più per il fatto che gli interessi e i pensieri della nuova popolazione cittadina
sono orientati verso un’economia globale”
1
.
Questo brano di Scheffler è del 1913, ma potrebbe essere facilmente postdatato
tanto sintetizza un modo diffuso di vedere il fenomeno metropolitano di questo secolo,
secondo il quale il rapporto tra economia e metropoli è così stretto da essere un destino
e una necessità.
La città è un sistema sociale di grande complessità, che presenta al proprio
interno, in forma “concentrata”, la quasi totalità dei fenomeni tipici di sistemi di più
ampie dimensioni, come le società nazionali o, addirittura, i sistemi internazionali. Si
può dunque affermare che la città è, contemporaneamente, un fenomeno economico,
politico, culturale e così via, e che al suo interno ogni aspetto è indissolubilmente legato
agli altri e, perciò, influenzato da essi. Ma se è vero che nessun ordine di priorità si
impone necessariamente, tuttavia parlando della città vi è almeno un motivo essenziale
che porta a mettere in evidenza la relazione tra questa e la dinamica dell’economia,
considerata in un’ampia prospettiva storica
2
.
Infatti si possono citare almeno due grandi momenti “rivoluzionari” nella storia
dello sviluppo delle società umane, che corrispondono anche a fasi di importanza
decisiva per la storia del fenomeno urbano, in quanto hanno stabilito i presupposti
rispettivamente per la nascita della città e per un’enorme crescita dell’incidenza del
fenomeno urbano
3
.
Il primo corrisponde alla cosiddetta rivoluzione neolitica ed allo sviluppo
dell’agricoltura, avviatosi almeno 8.000 o 9.000 anni prima di Cristo: si tratta di un
importante processo di trasformazione della base economica, che pone le basi per lo
sviluppo di una società locale articolata, di tipo “urbano. Il secondo momento di grande
trasformazione storica si avvia, invece, nel XVIII secolo, con la rivoluzione industriale.
A partire dall’Inghilterra, si assiste in quest’epoca ad una crescita sia della popolazione,
che della produttività del lavoro, tanto nei settori industriali emergenti quanto nella
stessa agricoltura. Grazie a questo aumento della produttività diviene conveniente lo
sviluppo della produzione di beni e lo scambio di essi in uno scenario nazionale ed
internazionale; la popolazione dedita ad attività extragricole cresce a ritmi accelerati e si
creano, in tal modo, le basi per una grande espansione del fenomeno urbano. A partire
da quel momento la crescita urbana diviene sempre più generale, al punto che, oggi, nei
1
Scheffler K., “La metropoli”, in M. Cacciari, “Metropolis”, Officina Edizioni, Roma, 1973.
2
Alfredo Mela “Sociologia delle città” , La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996.
3
Idem.
9
paesi più sviluppati all’incirca i due terzi della popolazione vivono nelle città e, tra gli
abitanti delle città, circa la metà vive in agglomerati di popolazione superiore ai 500.000
abitanti
4
.
Secondo alcuni studiosi, oggi ci troveremmo nel corso nel corso di un terzo,
altrettanto essenziale, momento di transizione economica e tecnologica, determinata
dallo sviluppo delle tecnologie a base microelettronica e delle telecomunicazioni, che
avrebbe come conseguenza possibile una ulteriore mutazione del fenomeno urbano e
persino, secondo alcuni, la sua progressiva estinzione, in direzione di un continuum di
insediamenti, collegati da forme di comunicazione a distanza
5
. L’attuale fase di
transizione vede quindi la città assumere una nuova identità e un nuovo ruolo
economico, ma ciò non toglie rilevanza al fenomeno urbano, in quanto sede di rilevanti
attività economiche locali, aperte verso l’esterno ed inserite in uno spazio reticolare di
carattere globale.
1.2. Sviluppo economico e urbanizzazione.
L’effetto territoriale della maturazione, a partire dal XVIII secolo, di una
spiccata divisione del lavoro tra agricoltura e industria e tra i vari settori dell’agricoltura
e dell’industria è, in primo luogo, il processo di urbanizzazione e la formazione delle
città industriali. Ma l’inizio di un processo rapido e costante di urbanizzazione è solo il
più visibile degli effetti socio-territoriali dell’accumulazione originaria: la
mercantilizzazione dell’agricoltura e la specializzazione agricola modificano
radicalmente i rapporti sociali nelle campagne, mentre il decollo industriale modifica la
funzione ed il ruolo delle città, oltre che le loro dimensioni.
Uno degli elementi centrali della transizione verso la società capitalistica è
infatti costituito dalla maturazione di una profonda contraddizione fra città e campagna,
che rispecchia un drenaggio di risorse di tutti i tipi dall’agricoltura (compreso il
proletariato industriale, in gran parte di provenienza contadina) per poter espandere la
nascente produzione industriale
6
. Senz’altro il caso inglese è l’unico che mostra un
totale sacrificio della campagna al processo di accumulazione capitalistica
7
, ed è proprio
in Inghilterra, patria della rivoluzione industriale, che risulta più chiara la connessione
tra il processo di urbanizzazione e la nascita lo sviluppo del capitalismo: la società
inglese che, fatta eccezione per Londra, era molto poco urbanizzata prima della
rivoluzione industriale, nel giro di pochi decenni si trovò caratterizzata da enormi
squilibri regionali e dall’accentramento della popolazione in pochi grandi centri
industriali.
Industrializzazione significa infatti concentrazione territoriale, in quanto
l’insediamento industriale è alle origini condizionato da tre fattori, non equamente
distribuiti sul territorio: la presenza di fonti energetiche, di materie prime per l’industria,
e di un mercato locale sufficientemente esteso per l’assorbimento su scala locale di una
4
Bairoch P., “De Jéricho à Mexico. Villes et économie dans l’histoire”, Gallimard, Paris, 1985.
5
Alfredo Mela “Sociologia delle città”, op. cit.
6
Mingione Enzo, “Urbanizzazione, classi sociali, lavoro informale. Saggi sul processo di urbanizzazione
in relazione allo sviluppo economico, alla crisi attuale, alla ristrutturazione-decentramento industriale”,
Franco Angeli Editore, Milano, 1983.
7
Kemp T., “L’industrializzazione in Europa nell’800”, Il Mulino, Bologna, 1975.
10
parte della produzione industriale. L’esigenza di bassi costi di produzione e di un’alta
produttività valorizza pertanto quelle aree geografiche dove si possono realizzare dei
risparmi nella produzione: i grandi agglomerati urbani preesistenti dove vi è già una
concentrazione di forza lavoro e delle infrastrutture per la sopravvivenza di una grande
comunità, i porti e le aree minerarie dove le materie prime e/o lo smercio dei prodotti
costano meno, i grandi centri amministrativi e finanziari dove non solo si è più vicini
alle scelte di potere ma anche ai mercati più estesi. Inoltre, più la concentrazione urbana
cresce sotto la spinta di una industria che si sta sviluppando e più l’industria trova
vantaggioso l’insediamento nella grande città, dove realizza delle forti economie di
mercato
8
.
In effetti l’unica risorsa produttiva che risulta mobile sul territorio a dei costi non
proibitivi sono i lavoratori, anche perché gran parte del costo sociale, economico ed
umano della mobilità del lavoro è pagato dal lavoratore stesso. Così le migrazioni
risultano essere il nucleo principale dei mutamenti dell’assetto territoriale per una lunga
fase del processo di sviluppo industriale.
Pertanto questo primo periodo di sviluppo industriale, che può essere chiamato
della “città-fabbrica”, vede realizzarsi un rapido processo di urbanizzazione su scala
nazionale e una consistente crescita di alcuni grandi centri produttivi dove, per ragioni
di geografia economica, si concentrano le grandi fabbriche. La crescita delle grandi città
industriali è dovuta in questa fase prevalentemente alle migrazioni della vasta
sovrapopolazione agricola che il capitalismo eredita dalla società precapitalistica. In
ogni caso l’incremento di popolazione delle città è parallelo ad un incremento della
quota di popolazione occupata nell’industria: urbanizzazione e industrializzazione
vanno in questa fase di pari passo
9
.
Lo sviluppo industriale e le profonde trasformazioni della struttura sociale e
politica che l’accompagnano si può quindi dire che creino i presupposti per un
altrettanto radicale mutamento del fenomeno urbano, che si evidenzia prima di tutto
nella sua enorme espansione quantitativa, esito di una forte correlazione tra la crescita
industriale e la crescita delle città. Infatti, a partire dal XIX secolo i tassi di
urbanizzazione relativi al continente europeo sono in rapida ascesa: in cento anni questo
indicatore, che all’inizio supera di poco il 12%, è più che triplicato e l’incremento
prosegue a ritmi accelerati nel XX secolo, sino al 1970
10
.
In base ai dati ora citati, sembra potersi ricavare l’immagine di uno sviluppo
parallelo e continuo (se non proprio lineare) tanto della crescita economica, quanto della
crescita delle città. Tuttavia sarebbe sbagliato dedurre da questo parallelismo l’esistenza
di una semplice casualità diretta tra industrializzazione ed urbanizzazione. Infatti, la
natura delle relazioni tra i due processi non resta immutata nel corso dell’epoca
industriale, ma si modifica in funzione delle caratteristiche assunte dallo sviluppo
economico nei vari periodi in cui quest’epoca può essere suddivisa
11
.
Numerosi economisti sostengono infatti che lo sviluppo economico degli ultimi
duecento anni si è realizzato attraverso un andamento ciclico, in cui cioè compaiono
“ondate” successive di espansione e declino basate sulla dinamica, anch’essa ciclica,
dell’innovazione tecnologica
12
. Secondo la teoria di Kondratiev, la durata media di tali
cicli (cui spesso si allude parlando di onde lunghe dello sviluppo) è di circa 50 anni, da
8
Mingione Enzo, “Urbanizzazione, classi sociali, lavoro informale”, op. cit.
9
Idem.
10
Bairoch P., “De Jéricho à Mexico. Villes et économie dans l’histoire”, op. cit.
11
Alfredo Mela “Sociologia delle città”, op. cit.
12
Schumpeter, “Il processo capitalistico. Cicli economici”, Boringhieri, Torino, 1977.
11
cui consegue che la storia dell’epoca industriale contiene per intero quattro cicli, mentre
un quinto potrebbe essere considerato ai suoi inizi. Seguendo la classificazione di
Freeman
13
, è possibile individuare come segue i cicli già completati:
a) ciclo della prima meccanizzazione, basato sull’industria tessile (1770-1840 circa);
b) ciclo basato sull’uso del vapore come forza motrice e sullo sviluppo delle ferrovie
(1840-1890);
c) ciclo basato sull’introduzione della forza elettrica e sulla ingegneria pesante ( 1890-
1940);
d) ciclo basato sulla produzione di massa di tipo “fordista” (1940-1990).
Occorre tuttavia precisare che, in realtà, la parte terminale di ogni ciclo si
sovrappone a quella iniziale del ciclo precedente. Questo appare particolarmente
evidente per l’epoca attuale: già a partire dagli anni ’70 si avvia infatti il superamento
del quarto ciclo e cominciano a delinearsi i caratteri di un ciclo successivo, legati alla
centralità delle tecnologie a base microelettronica e ai processi di elaborazione
dell’informazione e di comunicazione a distanza.
Ma in che senso le onde lunghe dello sviluppo industriale influenzano il
fenomeno dell’urbanesimo? In primo luogo, attraverso la mediazione di numerose
variabili, il succedersi delle ondate e l’alternanza di fasi di innovazione e di stagnazione
incidono sulle capacità attrattive delle città, aumentandole o diminuendole secondo un
ritmo anch’esso ciclico. Per effetto di ciò, può essere osservata una relazione tra le
dinamiche dello sviluppo industriale alla scala mondiale (caratterizzate dal succedersi
delle ondate prima richiamate) e le fluttuazioni dei tassi di crescita della popolazione
urbana.
Questa prima risposta, tuttavia, è ancora debole e limitata agli aspetti
demografici dell’urbanesimo. Molto più importanti sono gli effetti che le specificità di
ciascuna ondata hanno sui caratteri qualitativi del fenomeno urbano, vale a dire sulla
struttura occupazionale, sulla stratificazione sociale, sui modi di vita, sui conflitti e sulla
stessa forma fisica della città. Ogni ciclo economico di lungo periodo riplasma in modo
radicale il volto della città e ne trasforma i connotati sociali. Questi cambiamenti, come
pure quelli che riguardano l’ambiente costruito della città e il sistema delle
infrastrutture, si succedono con intensità discontinua: in genere sono rapidi nelle fasi
iniziali di ciascun ciclo, mentre segnano il passo nei momenti della maturità e della
stagnazione
14
.
Stando a quanto detto, dunque, è lecito parlare di ampi cicli dello sviluppo
urbano, mettendoli in relazione con le corrispondenti onde lunghe della dinamica
economica
15
. Per questo è oggi frequente l’uso di espressioni come “la città della prima
meccanizzazione” o “la città fordista”, per alludere ai caratteri tipici che l’urbanesimo
assume, rispettivamente, nel primo Ottocento e negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale.
Può pertanto essere utile analizzare l’urbanesimo contemporaneo usando la
chiave interpretativa dei cicli economici e di quelli urbani e, dunque, focalizzare
l’attenzione sui recenti processi di transizione da un periodo fordista ad uno
postfordista, e sulla conseguente trasformazione del fenomeno urbano.
13
Freeman Ch., “Long Waves in the World Economy”, F. Pinter, London, 1984.
14
Alfredo Mela “Sociologia delle città”, op. cit.
15
Idem.
12
1.3. Il periodo fordista e il ruolo della città.
Molti sociologi convengono nel definire fordista quel periodo di sviluppo
economico mondiale che ha inizio, all’incirca, negli anni Trenta e si conclude nel corso
dei Settanta. Il termine iniziale del periodo, dunque, è posto negli anni che precedono la
Seconda Guerra Mondiale e che vedono le società occidentali impegnate a reagire alla
crisi economica mondiale iniziata con il crollo della Borsa di Wall Street nel 1929. Il
termine finale, invece, si pone a ridosso dell’epoca attuale ed è definito da un complesso
di trasformazioni tecnologiche ed economiche oggi non ancora del tutto concluse.
Peraltro, per quanto riguarda l’avvio di questo periodo, occorre osservare che i
suoi presupposti economici e tecnologici si delineano già negli anni Dieci, e che - come
mostra il termine con cui esso è designato - un ruolo essenziale è svolto da una specifica
impresa e dal suo proprietario: Henry Ford. L’elemento innovativo del modello
proposto da Ford ha come primo fondamento una trasformazione tecnologica e una
riorganizzazione razionale dell’impresa, nelle quali una parte decisiva è svolta
dall’applicazione dei principi propugnati in quegli anni da un celebre testo di Taylor
(1911)
16
.
L’introduzione dei metodi tayloristici implica la scomposizione del processo
produttivo di un bene in una serie di operazioni elementari e la sua ricomposizione per
mezzo di una soluzione tecnica innovativa: la catena di montaggio mobile. L’effetto
immediato è una netta diminuzione dei tempi necessari per produrre un bene, purché
questo sia prodotto su scala sufficientemente ampia da ammortizzare i costi
dell’impianto iniziale della catena
17
. Lo sviluppo della produzione di massa a basso
costo, con il forte e rigido impiego di capitali che comporta, richiede l’eliminazione di
incertezza delle procedure di produzione, sui mercati di fornitura, di sbocco dei prodotti,
del lavoro. Pertanto la produzione di massa di tipo fordista implica meccanismi
organizzativi di regolazione, in una forma tendenzialmente molto pura. Il principio
organizzativo che incorpora è la prevedibilità attraverso la standardizzazione:
organizzazione gerarchico-funzionale accentrata, rigida divisione del lavoro, attività
esecutive semplici che possano essere rapidamente apprese e ripetute senza errori.
All’esterno, solo condizioni accettabili di relativa stabilità e prevedibilità dei mercati e
dell’ambiente sociale consentono la strategia del forte e rigido impiego di capitale che la
produzione di massa persegue
18
.
Pertanto, le conseguenze del nuovo modo di produrre non si limitano alla
fabbrica, ma pervadono l’intera società. Il mercato deve essere accessibile ad ampie
masse, di cui facciano parte gli stessi lavoratori che producono quei beni. Gli operai
devono quindi fruire di redditi sufficienti per acquistare prodotti industriali e soprattutto
beni di consumo durevole. Solo in questo modo il ciclo produzione-risparmio-consumo
può continuare a funzionare in maniera efficace.
Nel periodo fordista la città - soprattutto se caratterizzata dalla grande impresa -
viene ad assumere una funzione molto importante, ma al tempo stesso subisce
trasformazioni che ne mutano la struttura e la sottopongono a tensioni rischiose per la
sua identità.
16
Il testo a cui ci si riferisce è: Taylor F.W., “Principles of Scientific Management”, Harper and Row,
New York, 1911.
17
Alfredo Mela “Sociologia delle città”, op. cit.
18
Bagnasco Arnaldo, “Torino, un profilo sociologico”, Nuovo Politecnico 154, Einaudi Editore, Torino,
1984.
13
Da un lato, infatti essa è il fuoco principale di irradiazione del modello fordista:
la grande impresa, per risultare efficiente, ha bisogno di tenere concentrate le proprie
unità produttive e le proprie sedi amministrative e direzionali. L’industria, dunque, si
presenta come un complesso di attività spazialmente non divisibili, il quale ha la
necessità di appoggiarsi ad una grande città: in essa l’industria trova, oltre ad un ampio
bacino di manodopera e ad un primo mercato di sbocco dei propri beni, anche una rete
di servizi e infrastrutture, e tutto ciò le consente di realizzare quei risparmi che vanno
sotto il nome di economie di urbanizzazione
19
.
Per questi motivi lo sviluppo industriale fordista ha carattere inevitabilmente
polarizzato, si attua cioè per mezzo della crescita di grandi complessi economici,
egemonizzati da una o più grandi industrie - le imprese motrici del polo - che spesso
stabiliscono con le altre imprese dei rapporti di dominazione. Inoltre, dal punto di vista
insediativo, tutto questo presuppone l’espansione di un numero relativamente ridotto di
poli di sviluppo, ossia di aree metropolitane in continua crescita demografica.
Dall’altro lato, però questa costante espansione dell’industria e della città non
può attuarsi se non al prezzo di forti costi sociali. L’urbanizzazione è infatti un processo
caratterizzato da rilevanti contraddizioni sociali. Tra le più importanti e durature vi è
indubbiamente il problema degli alloggi; altri fenomeni contraddittori sono la
disoccupazione urbana, la questione dei trasporti e del pendolarismo, il rinnovo urbano,
ecc.
20
L’aumento dei posti di lavoro nei poli di sviluppo genera forti flussi migratori, i
quali, oltre a far sorgere problemi di integrazione dei nuovi arrivati, hanno l’effetto di
spingere la città verso una crescita impetuosa, che spesso ne produce un allargamento “a
macchia d’olio”, con la costruzione frettolosa di nuovi quartieri a bassa qualità
ambientale, scarsamente collegati con il centro e malamente dotati di servizi
21
.
Sono gli effetti territoriali della rivoluzione dei trasporti, che permette una
utilizzazione nuova del territorio. Utilizzando la rivoluzione dei trasporti, le grandi città
possono crescere oltre la misura limite della fase precedente e differenziarsi
notevolmente in aree residenziali, aree produttive, aree destinate agli uffici e al terziario.
Le grandi città come Milano, Torino e Genova crescono rapidamente soprattutto
per l’inurbamento di numerosi contadini; a Milano più che la città incominciano a
crescere velocemente i comuni limitrofi secondo le tangenti dello sviluppo industriale e
del costo del terreno. Si assiste, almeno per le quattro città italiane che si sviluppano
maggiormente in questo periodo, cioè Roma, Milano, Genova e Torino, ad un processo
di crescita urbana e di colonizzazione del territorio molto intensa. Si forma il cosiddetto
“triangolo industriale”, e a Milano, che è allora la città più popolosa d’Italia e il più
grande centro industriale, sono concentrate le officine metallurgiche (Breda e Falk), il
nascente colosso chimico della Montecatini, alcune grandi imprese meccaniche
(Marelli), ma soprattutto hanno sede i grandi gruppi finanziari e bancari del tempo
22
.
Le tre città poste ai vertici di quel triangolo industriale che si viene costituendo
nel Nord Italia - Milano, Torino e Genova - a partire dagli anni cinquanta registrano allo
stesso tempo una rapida crescita socio-economica e una espansione del compatto urbano
senza precedenti. Le cinque città di Milano, Torino, Genova, Roma e Bologna hanno,
nel ventennio 1951-71, assorbito il 35% dell’incremento demografico del paese. Milano
e Torino da sole assorbono nel 1971 il 21,6% dell’occupazione industriale italiana, ma
19
Alfredo Mela, “Sociologia delle città” , op. cit.
20
Mingione Enzo, “Urbanizzazione, classi sociali, lavoro informale”, op. cit.
21
Idem.
22
Idem.
14
Milano, Torino e Roma insieme si può dire abbiano il controllo di quasi tutta
l’economia, in quanto sono le sedi delle grandi industrie e delle banche
23
.
Le grandi città settentrionali, in particolare Genova e Milano, crescono al di
fuori della amministrazione comunale nei comuni residenziali limitrofi, aumenta il
raggio d’influenza della città e la distanza dei flussi di pendolarità. Per quanto riguarda
Milano, i confini comunali estremamente ristretti nascondono l’espandersi di una città
di dimensioni notevoli, e Dalmasso calcola nel 1972 che il raggio di gravitazione
pendolare su Milano coinvolge centinaia di migliaia di lavoratori e supera facilmente i
confini della regione stessa, per penetrare in Piemonte, nella Liguria settentrionale e
nell’Emilia
24
.
In questa fase le grandi città e il loro hinterland continuano a crescere perché i
fattori di concentrazione dell’economia continuano a rendere la città il luogo di gran
lunga preferito nelle decisioni localizzative di imprese e individui
25
. Questo sviluppo
conduce all’affermazione di quel modello urbano-industriale per il quale G. Martinotti
ha coniato la definizione di “metropoli di prima generazione”
26
, fortemente
caratterizzata dal fenomeno del pendolarismo e da un’espansione territoriale
orizzontale.
1.4. La crisi del modello economico fordista.
Il fordismo ha rappresentato per alcuni decenni un modello di sviluppo
economico e sociale assai forte e coerente. Tuttavia il suo successo poggiava su di un
complesso di condizioni allora effettivamente presenti, ma non destinate a riprodursi per
un periodo più prolungato. Fin dagli inizi degli anni settanta il modello fordista si trova
ad affrontare una prima fase di destabilizzazione. A produrre questa crisi intervengono
numerose circostanze di scala internazionale, che si intersecano con eventi relativi ai
singoli paesi
27
.
Tra le prime occorre citare l’impennata del prezzo del petrolio e in generale il
venir meno delle condizioni di stabilità del quadro economico mondiale e del regime di
cambi monetari. L’organizzazione della grande impresa fordista, con la sua stessa
crescita, tendeva a diminuire possibili situazioni di incertezza nell’ambiente circostante,
in particolare sui mercati. La complessità e l’incertezza delle condizioni che si
determinano sono però di intensità e di natura tali da non poter essere semplificate e
facilmente ridotte da schemi organizzativi tradizionali
28
. Al tempo stesso in molti paesi
si assiste ad un aumento dei conflitti sociali e ad un rifiuto, da parte dei lavoratori, delle
condizioni di lavoro tipiche della fabbrica organizzata in base alla catena di montaggio.
La grande impresa subisce sfide culturali, relative a nuovi atteggiamenti rispetto
al lavoro e ai consumi; politiche, relative alla forza raggiunta dagli interessi organizzati
e alla difficoltà degli accordi; tecnologiche, in conseguenza della rapidità e profondità
dei processi innovativi e di possibili alternative di organizzazione del lavoro che si
aprono; di mercato, con riferimento all’emergenza di maggiori differenziazioni e
23
Dalmasso E., “Milano capitale economica d’Italia”, Franco Angeli, Milano, 1972.
24
Idem.
25
Nicolò Leotta, “PHOTOMETROPOLIS - per una sociologia visuale della città”, Ed. Le Vespe,
Milano, marzo 2000.
26
Guido Martinotti, “Metropoli”, Il Mulino, Bologna, 1996.
27
Alfredo Mela, “Sociologia delle città” , op. cit.
28
Bagnasco Arnaldo, “Torino, un profilo sociologico”, op. cit.
15
presenze di soggetti internazionali
29
. Nella nuova età dell’incertezza, i meccanismi
organizzativi di una fase meno complessa perdono efficacia, e l’insieme di questi
fenomeni incide negativamente sul rendimento economico delle imprese e spinge i
grandi gruppi industriali ad attuare strategie di ristrutturazione produttiva, allo scopo di
diminuire il costo complessivo del lavoro e di accrescerne la produttività.
Nel quadro di tali strategie rientra anche l’intensificazione della ricerca, che
favorisce l’avvio di una nuova ondata di innovazioni basate in primo luogo sulle
applicazioni della tecnologia microelettronica, che vanno dall’automazione di intere fasi
dei cicli produttivi, allo sviluppo degli strumenti di calcolo, all’incremento dei mezzi
per la comunicazione a distanza. Nella fase innovativa basata sulla microelettronica ciò
che prevale è l’innovazione di processo, piuttosto che quella di prodotto, ovvero
vengono introdotti nuovi modi di produrre beni già presenti sul mercato, con fortissimi
risparmi sui costi. Questa forma di innovazione ha rapidamente trasformato il volto di
molte fabbriche, dove l’automazione dei processi produttivi ha causato l’espulsione di
un numero consistente di lavoratori. Si aggiunga poi che una parte delle attività
produttive tende ad essere trasferita dai paesi a più alto sviluppo verso quelli
“emergenti”, ove il costo del lavoro è nettamente più basso. In queste condizioni nei
paesi economicamente avanzati la crescita della produzione non significa più aumento
dell’occupazione industriale, in quanto si è interrotto quel circolo virtuoso che legava
l’aumento della produzione industriale all’aumento dell’occupazione e all’ampliamento
dei mercati interni
30
.
Ma se la produzione di beni di consumo durevoli si sposta sempre più nei paesi
di recente industrializzazione, nelle aree forti dello sviluppo un ruolo sempre maggiore
è svolto dall’offerta di beni e servizi che hanno in comune il fatto di consistere
essenzialmente in attività di raccolta ed elaborazione di informazioni. Si tratta dunque di
beni e servizi in cui l’elemento decisivo è di natura “immateriale” (l’informazione),
l’incidenza di tecnologie avanzate è assai forte ed elevato il ritmo con cui si succedono
le innovazioni. Gli ultimi decenni hanno visto inoltre un enorme sviluppo tecnologico
del settore delle comunicazioni e telecomunicazioni, sviluppo che ha reso possibile
quella internazionalizzazione dei processi economici (oltre che culturali) nota con il
nome di globalizzazione.
In questo processo di globalizzazione delle culture e delle economie le città
subiscono grandi trasformazioni architettoniche, morfologiche e tecnologiche
31
e il
modello della città-fabbrica, che aveva caratterizzato lo spazio economico fordista, ne
risulta evidentemente provato: nasce la città postfordista.
29
Bagnasco Arnaldo, “Torino, un profilo sociologico”, op. cit.
30
Alfredo Mela “Sociologia delle città” , op. cit.
31
Nicolò Leotta, “PHOTOMETROPOLIS - per una sociologia visuale della città”, op. cit.