movimenti sociali e intellettuali che si sono messi alla ricerca di una “terza via”, un’alternativa alla
rigidità e alla paralisi di pensiero e di azione che colpisce il mondo arabo-musulmano
contemporaneo. Tra questi movimenti un ruolo fondamentale è ricoperto dal femminismo islamico,
il quale affronta la questione dell’uguaglianza e dalla parità di genere spingendosi oltre la rigida
distinzione dicotomica Occidente/Islam. Il femminismo islamico infatti si pone, allo stesso tempo,
all’interno e al di là di questi due paradigmi, criticandoli entrambi: esso occupa così una posizione
problematica, complessa, indefinita e soprattutto esposta a critiche e minacce da parte dei
fondamentalisti di entrambe le sponde. Il progetto femminista islamico, infatti, in modo quasi
paradossale, si inscrive, da un lato, all’interno della tradizione islamica di esegesi coranica,
dall’altro, si inserisce all’interno del movimento femminista internazionale: esso quindi partecipa a
modelli e visioni che fanno riferimento sia all’Islam che all’Occidente. Secondo questa duplice
direzione, inoltre, il femminismo islamico ha elaborato importanti critiche intellettuali e politiche
sia nei confronti dell’Islam che dell’Occidente.
Nel primo caso, le femministe islamiche hanno innanzitutto messo in evidenza la difficoltà di
molti musulmani di leggere criticamente il proprio passato e la propria tradizione religiosa,
mostrando così una sorta di paura irrazionale della modernità2. Esse si sono impegnate, in tal senso,
in un progetto di rilettura del testo sacro, smontando le interpretazioni tradizionali (patriarcali e
misogine) del Corano e cercando di innescare un processo di meditazione e auto-riflessione
all’interno della comunità islamica3.
All’Occidente il femminismo islamico, invece, rimprovera l’arroganza del potere e la pretesa
di imporre ovunque la sua visione del mondo e i suoi valori, presentandoli come universali.
Concetti nobili come democrazia, libertà, sviluppo, emancipazione femminile, si svuotano così di
senso in quanto sono utilizzati per sancire la superiorità dell’Occidente e giustificarne i progetti di
dominio nel Terzo Mondo: essi diventano dunque “parole-veleno, parole che si infiltrano nel sangue
come una droga, pervertono il desiderio e oscurano il giudizio”4.
Le direzioni del discorso femminista islamico sono quindi multiple, eterogenee, utilizzano
metodi e riferimenti culturali diversi, e a volte sembrano avere poco in comune tra di loro, ma tutte
rispondono ad un unico obiettivo: restituire le donne musulmane a se stesse, ovvero trasformarle da
oggetto a soggetto del discorso, facendo così sentire la loro voce e dimostrando che esse sono
perfettamente in grado, da sole, di sfidare le autorità religiose islamiche smontando le loro
interpretazioni misogine e patriarcali del Corano e di decostruire i pregiudizi e i ruoli stereotipati
che l’Occidente ha creato per loro.
Il femminismo musulmano è così un progetto doppiamente sovversivo ed estremamente
eterogeneo in quanto ingloba esperienze ed orientamenti molto diversi tra di loro: in tale senso
6
Myriam Cooke ha sottolineato che “il femminismo islamico non è un’identità, ma è piuttosto una
delle moltissime posizioni del discorso”5.
Il femminismo islamico sfugge ad una definizione univoca e definitiva e si inscrive, in tal
senso, nella prospettiva del margine, del confine: tale spazio sospeso, come un ponte tra due rive, è
sicuramente il luogo dell’indefinito, del disorientamento, del pericolo ma è anche il luogo della
possibilità, dell’incontro, dell’”intercreatività”6. In tale spazio il soggetto non-occidentale si pone
come un “Tu”, un partner alla pari nel “dialogo inevitabile”7 tra culture e religioni e diventa così
“scomodo” perché mette in crisi, disorienta il soggetto occidentale normativo (maschio, bianco),
abituato a pensarsi come universale (quindi unico). La messa in crisi, a cui il progetto femminista
islamico contribuisce, dell’Io occidentale è così una premessa fondamentale per poter instaurare un
dialogo vero con l’Altro, di com-prenderlo e di avviare, di conseguenza, anche un processo di
riorganizzazione di sé, orientato alla ridefinizione dei confini della identità occidentale.
La celebrazione delle identità marginali, ibride, meticce non va scambiata però con il gusto
per l’esotismo o per un folkoristico melting pot di culture; essa è il giusto riconoscimento a quelle
donne portatrici di molteplici identità, che, ridotte al silenzio per lungo tempo, stanno cercando di
riappropriarsi della parola, del proprio discorso.
Tali donne però, anche quando hanno libero accesso alla parola, rischiano di ricadere nella gabbia
dell’Alterità (leggi inferiorità) in base alla loro appartenenza etnica: sarebbe più opportuno quindi
considerare queste donne non tanto come portatrici di differenza (inscritta nel corpo), ma
semplicemente come delle donne del nostro tempo, come, delle “figlie dell’epoca”, di un’epoca che,
come recitano i bellissimi versi della poesia di Wislava Szymborska, è irrimediabilmente,
ineluttabilmente politica in tutti i suoi aspetti: il potere è ovunque, nelle parole, nelle cose, nei corpi,
nei nomi. Il nostro compito, la nostra “responsabilità etica” non sta allora nel combattere questo
dato di fatto, ma nel tentare sempre di situare il potere, di coglierne le dinamiche invisibili, di
smascherarlo. E in questo compito arduo ed impegnativo lo sguardo delle femministe islamiche e
postcoloniali diventa molto prezioso.
NOTE
1
CASSANO, Franco, ZOLO Danilo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007 p. 86-89
2 Si veda MERNISSI, Fatima, Islam e democrazia. La paura della modernità, Firenze, Giunti, 2002
3
Id,
Donne del Profeta. La condizione femminile nell’Islam, Genova, Ecig, 1997
7
4
LATOUCHE, Serge, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla
costruzione di una società alternativa, Torino, Bollati Boringhieri, 2005 p.29
5 Cit. in PEPICELLI, Renata, Donne e diritti nello spazio mediterraneo in CASSANO, Franco, ZOLO Danilo (a cura
di), L’alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2007 p.320
6
Ivi, p.99
7 PANIKKAR, Raimon, L’inévitable dialogue, Gordes, Le Relié, 2008
8
1. LEGITTIMITÀ, DEFINIZIONI, STORIE: LA COMPLESSA GENEALOGIA
DEL FEMMINISMO ISLAMICO
“Or non è molto, la terra contava due miliardi di abitanti, ossia cinquecento milioni d’uomini e un miliardo e
cinquecento d’indigeni. I primi disponevano del Verbo, gli altri se ne servivano”
Jean Paul Sartre, Prefazione a I dannati della Terra
“Parlare appartiene a una struttura già ben definita e a una storia di dominazione”
Rey Chow, Il sogno di Butterfly
“Può la subalterna parlare?”
Gayatry Spivak, Can the subaltern speak?
Qualcosa ci è successo. Dentro di noi, qualcosa ha cominciato a muoversi. Voci mai sentite ci hanno trasformato [..]
Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava la prima volta. Da ogni dove uscivano
tesori, addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate.”
Michel De Certeau, La presa della parola
“La Parola è pericolosa. [..] In un’epoca di propaganda, di semplificazioni politiche e di violenza, le nostre storie sono
cruciali. A parte il fatto che ai politici vanno sempre poste delle domande, è in queste storie- che sono conversazioni
con noi stessi - che possiamo parlare, comprendere e creare delle versioni di noi più complesse e difficili”
Hanif Kureishi, La parola e la bomba
1.1. OSSIMORO O REALTA’?
SULLA LEGITTIMITA’ DEL FEMMINISMO ISLAMICO
Negli ultimi anni, sia nei paesi arabo-islamici che nelle comunità diasporiche musulmane in
Occidente, si è acceso un aspro dibattito intellettuale e politico sul cosiddetto ‘femminismo
islamico’. Tale dibattito ha avuto convenzionalmente inizio nel febbraio del 1994, quando Afnaseh
Najmabadi tenne, alla School of Oriental and African Studies di Londra, una conferenza in cui
celebrava il femminismo islamico come movimento innovativo e riformista che poteva aprire nuovi
orizzonti di dialogo tra il pensiero laico e quello religioso. La conferenza della storica e antropologa
iraniana ebbe un grande impatto sul mondo accademico, soprattutto sugli studiosi delle tematiche di
genere nel mondo musulmano, suscitando reazioni molteplici e contrastanti1. Le reazioni più dure
furono quelle di alcuni scienziati sociali di origine iraniana come Haideh Moghissi, Sharzad Mojab
9
e Hammed Shahidian che si scagliarono veementemente contro Najmabadi e i suoi sostenitori2. Da
allora molte voci si sono levate per criticare e negare la legittimità del femminismo islamico. Per
molte studiose/i e attiviste/i, arabe/i e non, infatti, l’unione tra il paradigma islamico e quello
femminista costituisce un ossimoro in termini di pratiche e di discorsi in quanto l’Islam, come le
altre religioni del Libro, si fonderebbe su un’ideologia patriarcale evidentemente inconciliabile con
il pensiero femminista3.
Altre/i sottolineano che il femminismo affonda le sue radici storiche in Occidente e che non è
un prodotto “originale” della cultura arabo-musulmana e che, quindi, non ha ragione di esistere4.
Altri ancora, muovendo una critica più raffinata e costruttiva, considerano il femminismo
islamico, alla stregua dell’islam politico, il frutto della crisi che il mondo arabo-musulmano sta
attraversando. Secondo questo filone interpretativo, l’ancoraggio delle rivendicazioni femministe
all’interno di un quadro islamico, sentito come proprio e culturalmente autentico, sarebbe infatti una
diretta conseguenza del fallimento dei progetti di modernizzazione di stampo occidentale in Medio
Oriente. La sociologa statunitense di origini iraniane Haideh Moghissi, ad esempio, ha evidenziato
come, negli ultimi anni, “i discorsi laici sulla promozione dell’uguaglianza di genere siano stati
screditati come élitari, modernisti, o bianchi o filo-occidentali”5 e come l’Islam sia diventato l’unico
terreno, considerato legittimo, all’interno del quale avanzare le richieste dei diritti delle donne, o più
in generale, dei diritti umani fondamentali. Tale tendenza, ritenuta vincolante ed inaccettabile dalle
femministe arabe laiche e dagli intellettuali liberali, viene nettamente rifiutata dalla studiosa, la
quale conclude: “Una persona può definirsi come femminista, ma non può credere
contemporaneamente nella nozione islamica e in quella femminista di uguaglianza. Queste nozioni
non sono compatibili”6. Moghissi, inoltre, critica i cosiddetti “postmodernisti” e “relativisti
culturali” occidentali che, affascinati dalle differenze e dall’idea di autenticità culturale, celebrano il
femminismo islamico come un modello autoctono di femminilità, oscurando le ideologie laiche
sull’emancipazione della donna musulmana, considerate esterne, filo-occidentali7. Tale critica è
stata ripresa anche da Sharzad Mojab, la quale denuncia gli “approcci particolaristi”8, che esaltano
le micro-narrazioni inserite in un contesto islamico e considerate così più autentiche, mentre i
discorsi delle donne musulmane laiche, che fanno riferimento ai diritti umani universali per
rivendicare l’uguaglianza di genere, vengono emarginati e screditati come forme di
occidentalizzazione. L’enfasi e l’entusiasmo che sono stato posti da molti occidentali sul
femminismo islamico sarebbero così il risultato di un “moda multicultarista”9, che tende a esaltare
le voci “altre”, diverse, marginali. Secondo tale corrente di pensiero, dunque, non è legittimo
parlare di femminismo islamico, il quale non sarebbe altro che il frutto congiunto della crisi
10
identitaria del mondo arabo-musulmano e dell’“imperialismo benevolo”10 occidentale, che produce
le differenze in modo da poterle controllare.
Ultimamente, comunque, la tendenza generale è quella di accettare l’orizzonte di pensiero e di
azione del femminismo islamico ritenendo, in primo luogo, che l’Islam non possa essere
considerato a priori una religione intrinsecamente patriarcale e misogina ma, al contrario, che sia
possibile rintracciare nel Corano un messaggio perfettamente compatibile con il principio
dell’uguaglianza di genere e dei diritti delle donne11.
In secondo luogo si argomenta che oggi ‘femminismo’, più che un concetto univoco e
definito, sia una parola polisemica, una dimensione di pensiero e di azione transnazionale e globale
seppure estremamente diversificata nelle sue varianti locali, tanto che si preferisce parlare di
femminismi12. Myriam Cooke, ad esempio, ritiene che il femminismo non sia solamente un
movimento e un’ideologia storicamente determinati, ma che esso sia “soprattutto un’attitudine, una
forma mentale, che mette in luce il ruolo dl genere (gender) nell’organizzazione sociale”13. Secondo
tale punto di vista, quindi, il femminismo non è un prodotto esclusivo dell’Occidente, ma è un
termine in grado di comprendere una vasta gamma di esperienze intellettuali e politiche che si sono
espresse in varie parti del mondo.
In terzo luogo, il femminismo islamico, come denunciano le studiose arabe laiche e liberali,
rispecchia indubbiamente la problematica congiuntura storica che il mondo arabo-musulmano si
trova oggi ad affrontare: il confronto con la “modernità proibita”14 dell’ Occidente e i conseguenti
tentativi di opporvi resistenza attraverso la produzione di modernità alternative. Esso rappresenta,
perciò, una risposta alla crisi identitaria che negli ultimi decenni ha investito il mondo islamico e
che ha visto un sempre più importante “ritorno all’Islam”. Se quindi, da una parte, l’analisi del
femminismo islamico condotta dalle intellettuali arabe liberali è, per alcuni aspetti, perfettamente
condivisibile; d’altra parte, però, sembra piuttosto sbrigativa e faziosa la loro tendenza a negare la
compatibilità tra Islam e femminismo, rifiutandosi di vedere che, come afferma Tariq Ramadan,
“uno studio sul territorio, negli Stati Uniti come in Europa, ma anche nel mondo musulmano,
dall’Africa all’Asia, passando per il Medio Oriente e l'Iran, rivela la nascita di un movimento che
esprime chiaramente il rinnovamento del ruolo della donna nelle società islamiche e l’affermazione
di una liberazione, rivendicando una totale fedeltà ai principi dell'islam”15.
Il femminismo islamico non si configura poi come un semplice movimento tradizionalista
che guarda al passato, bensì si pone come un progetto innovativo che si inserisce del più ampio
discorso riformista, il quale mira a modernizzare l’Islam dall’interno. In tal senso si ritiene che il
percorso verso l’emancipazione femminile non debba obbligatoriamente svilupparsi attraverso
l’adozione del modello femminista occidentale, ma che possa realizzarsi attraverso la
11
reinterpretazione critica della propria tradizione culturale. La storica americana di origini egiziane
Leyla Ahmed ha fatto acutamente notare a tal proposito: “Come appare chiaro dalla storia delle
donne occidentali, l’idea che l’emancipazione femminile sia realizzabile solo attraverso
l’abbandono dei costumi di una cultura androcentrica locale in favore di un’altra cultura, non ha
alcuna validità. [..] Né si è mai sostenuto, dai tempi di Mary Wollstonecraft, quando le donne
europee non avevano diritti, ai nostri giorni, o anche da parte delle femministe più radicali, che
l’unica possibilità per le donne occidentali fosse quella di abbandonare la loro cultura per trovarsene
un’altra”16. In tale direzione le femministe islamiche si ribellano all’imperativo etnocentrico che
vorrebbe imporre loro l’adozione del modello occidentale di emancipazione femminile per
raggiungere l’uguaglianza di genere e vanno alla ricerca di una terza via, di un’alternativa che
“trascenda e distrugga i tradizionali binomi religioso/secolare, oriente/occidente, riduca le
differenze e manifesti interessi e scopi comuni[..]”17, provando a oltrepassare la rigida dialettica
dicotomica amici-nemici, così diffusa in Occidente come nel mondo arabo.
Il femminismo islamico può essere così considerato un progetto intellettuale di grande pregio,
ma soprattutto è un atto politico doppiamente provocatorio: da una parte le femministe islamiche,
rileggendo le fonti coraniche alla luce di un’ermeneutica femminista ma attraverso i metodi
tradizionali, sono in grado di confrontarsi con le autorità religiose islamiche sul loro stesso terreno
e, dall’altra, sono pronte a sfidare gli sguardi coloniali e neo-coloniali dell’Occidente che continua
a rappresentare le donne musulmane come ombre silenziose assoggettate ai loro uomini in virtù di
un contesto religioso-culturale - quello arabo-islamico - retrogrado e intrinsecamente contrario
all’emancipazione femminile.
Il femminismo islamico presenta dunque una natura problematica, in quanto unisce paradigmi
apparentemente contraddittori, ma ha in sé un potenziale creativo e critico, in base al quale ritengo
si possa accordare ad esso una piena legittimità intellettuale e politica, tra l’altro avvallata dalla
crescente visibilità internazionale che esso sta acquisendo, grazie a iniziative importanti come il
Congresso sul femminismo islamico18 tenutosi a Barcellona nel novembre 2005 o, in ambito
italiano, l’istituzione nel dicembre 2006 del Seminario Permanente delle Femministe Musulmane
che ha dato vita ad un Osservatorio su Islam e Genere in Italia19.
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