distinzione concettuale che Salvatore propone tra fenomeno e processo in ambito
psicologico.
“Con fenomeno si vuole intendere lo stato della realtà, per come viene rappresentato
dall’attore/cliente,che motiva la richiesta rivolta al professionista. Con processo si vuole invece
denotare l’interpretazione modellistica del fenomeno da parte del portatore della competenza. Il
fenomeno dunque motiva e innesca l’intervento, ma non lo parametra, in quanto definisce la
condizione su cui esso si esercita nei termini delle categorie di senso comune, non necessariamente
coerenti con i criteri e le condizioni di esercizio della competenza di intervento. E’ la
trasformazione modellistica del fenomeno in processo a mettere in grado il professionista di operare
competentemente.” (Salvatore, 2005)
Il mio interesse sarà quindi quello di trattare i fenomeni “comunità terapeutica”
e “operatore” che di per sé non sono categorie psicologiche, come processi da
ricostruire. Questo non in base ad un’idea panpsicologica della realtà, dove tutto può
essere oggetto della psicologia, ma al contrario, definendo chiaramente che oggetto
dell’interesse psicologico sono i processi di attribuzione di senso. La psicologia –
dalla prospettiva che assumiamo in questo lavoro - si occupa di processi simbolici
che organizzano e definiscono i sistemi di interazioni delle attività a vari livelli dal
micro-sociale al macro-sociale (Salvatore, 2006).
L’ottica è quella di un approccio semiotico che porta a concepire i fenomeni come
configurazioni socio-simboliche e che propone l’idea che il contesto sia costruito
dalle interpretazioni degli attori che lo vivono e dentro il quale agiscono in base non
solo ad una logica razionale, ma soprattutto ad un logica emozionale che simbolizza
le realtà ambientali. La logica delle emozioni è quella della simbolizzazione affettiva
che costruisce la realtà basandosi su significati assoluti e generalizzanti che tendono a
non distinguere, ma ad amalgamare. Si sta facendo riferimento ad un modello
psicodinamico dell’organizzazioni costruite da processi mentali costituiti dalle
emozioni socialmente condivise dagli attori che vi operano:
“Possiamo definire questa idea di organizzazione come modello semiotico, in quanto considera
l’organizzazione dal punto di vista dei processi mentali di rappresentazione del contesto che gli
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attori realizzano per orientare la propria azione. Il modello semiotico evidentemente non nega le
dimensioni normative, tecnologiche, strutturali, materiali dei processi socio-organizzativi. Tuttavia,
considera tali fattori come altrettanti inveramenti - se si vuole: reificazioni - di corrispondenti forme
(anche latenti) di categorizzazione del contesto” (Salvatore, 2005: 207)
2. Dalle origini al presente: sviluppo dei modelli operativi della comunità
terapeutica e della figura dell'operatore
La prima definizione di Comunità Terapeutica fu quella di Main che nel 1946
definiva la CT
1
come:
“Il tentativo di utilizzare un ospedale non più come un’organizzazione gestita dai medici
nell’interesse di esprimere una loro sempre maggiore efficienza tecnica, ma come una
comunità che abbia come fine immediato la partecipazione di tutti i suoi membri alla vita
quotidiana e come fine ultimo la risocializzazione dell’individuo nevrotico per l’inserimento
nella società ordinaria” (Main, 1946).
Questa prima definizione è fortemente legata al periodo storico in cui Main ha
operato, si fa infatti riferimento alla CT come ad un ospedale riorganizzato secondo
parametri gruppali e socio educativi, una contrapposizione, quindi, di un sistema
chiuso verticale gerarchico fino a quel momento dominante la sanità mentale a un
sistema aperto con assetto egualitario e democratico. Nel corso degli anni, sono nate
molte altre comunità di orientamento teorico ed ideologico diverso tanto che nel 1981,
lo stesso Main si rese conto che le sue parole erano state private di un significato
specifico.
“Il termine Comunità terapeutica è divenuto di uso talmente comune da aver peso il suo
significato” (Main, 1981:140).
1
Per CT si intenderà d’ora in poi “Comunità terapeutica”
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Main elenca in modo provocatorio una serie di realtà che sono usualmente
connotate come comunità:
“un villaggio Yoruba nell’Africa occidentale, la Scuola, La Chiesa, le Prigioni, i Centri
per tossicodipendenti, i Programmi di cura comunitari, gli Ospedali generali, le Unità di
recupero, gli Ospedali Geriatrici, il Mondo e, per allusione, i campi di lavoro coatto” (Main,
1981: 140).
Negli anni ’60 Rapoport studiando l’Henderson Hospital diretto da Maxwell Jones
diede una definizione dal duplice aspetto: se da un certo punto di vista la comunità è
legata ad un’indicazione territoriale e geografica (comunità come luogo) da un altro
la comunità fa riferimento ad un sentire comune (comunità come etica di
convivenza). Etimologicamente, infatti, il temine comunità deriva da cum moenia
(muri comuni) e cum munia (doveri comuni), che Lavanco (Lavanco, 2006)
sottolinea essere un esplicito riferimento all’organizzazione della polis aristotelica
nella quale si condividevano tradizioni, valori, pensieri, ma anche spazi e tempi:
“Un luogo organizzato come una comunità nella quale ci si aspetta che tutti contribuiscano al
raggiungimento di un unico obiettivo condiviso: la creazione di un’organizzazione sociale con
qualità curative (Rapoport, 1960)
Nell’ambito delle tossicodipendenze possiamo citare la definizione proposta da
Massimo Barra, presidente della comunità terapeutica per tossicodipendenti “Villa
Maraini” che invece sottolinea come “comunità” sia un tipo di intervento che si
iscrive in uno specifico modo di modellizare la mente.
“Per Comunità Terapeutica intendiamo un tipo di intervento mirato anche ad un lavoro intrapsichico che
vada a scoprire ed elaborare i meccanismi disfunzionali di base nella personalità del tossicodipendente.
Da distinguere da Comunità di Lavoro o Cooperativa di lavoro le quali intervengono esclusivamente a
correggere il comportamento e il senso del vivere in comune, che a nostro avviso sono buoni interventi, ma
limitati ad alcune persone che già hanno un equilibrio quasi sufficiente, per i quali a volte basta intervenire
appunto sul comportamento per risolvere il problema della droga.” (Barra, 1998)
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Una definizione più recente del concetto di CT è quella proposta da Aldo
Lombardo
“La CT è un assetto terapeutico complesso, concepito come sistema aperto fondato sul
gruppo, che è il suo strumento operativo principale. Il sistema CT è provvisto di funzioni, in
ugual misura terapeutiche ed educative, un modello di concezione della malattia diverso da
quello medico, una cultura altrettanto distinta, detta cultura dell’indagine, e principi
specifici (democrazia, “comunalismo”, permissivismo e confronto con la realtà). La CT si
avvale inoltre, di una tecnica basata sulle nozioni di “empowerment” e “living learning,”
punti fermi peculiari dell’autogestione, e funziona come un apparato con caratteristiche
operative particolari come ad esempio community meeting ed il gruppo emotivo per lo staff.
Questa complessa definizione sarebbe incompleta senza citare la finalità principale di una
comunità terapeutica: la maturazione personale” (Lombardo, 2004:49)
La definizione è suggestiva per noi in particolare per alcuni principi
metodologici in essa enunciati (l’accento posto sullo strumento gruppo, sulla cultura
dell’indagine, più che della spiegazione, ecc.). Ne rimangono tuttavia degli altri, sui
quali sentiamo di aver uno sguardo meno accogliente e meno “identificato”. Un
primo nodo problematico è quello che concerne “la maturità personale” come finalità
della comunità”. In primo luogo perché il significato di “maturità personale” non
sembra iscritto nei termini. Andrebbe quindi specificato in cosa consista, o meglio
con quale “lenti” venga costruita, secondo quale paradigma o modello della mente ci
si situi.
In secondo luogo, maturità personale è una stella polare terminale che non aiuta
a definire le modalità con cui raggiungere tale obiettivo. In che modo lo psicologo
potrebbe perseguire la maturità personale?
Una seconda nota è relativa al contenuto dei principi specifici (democrazia,
comunalismo, ecc.) che Lombardo riconosce alla Comunità. Tali principi emergono
in letteratura diverse volte, e sono figli di una indagine sul campo dell’antropologo
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Robert Rapoport (1960)
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, che così li sintetizzava: permissivness, democracy,
communalism, reality confrontation. Essi si prestavano bene a esprimere una diversa
concezione e considerazione del paziente come parte integrante e paritetica del
dispositivo di cura e una concezione sistemica dell'Istituzione nel suo insieme. La
storia ha tuttavia evidenziato che la loro assunzione come principi fondanti delle
comunità ha condotto a modelli molto differenti, così che essi rappresentano più
delle linee tendenziali che dei punti di partenza, criteri di operatività così generali da
non essere facilmente distinguibili dall’uso che se ne fa nel linguaggio comune, e
quindi dal buon senso.
Le vicende legate alla definizione, ma anche alla concezione ed a quelle che con
un linguaggio più moderno chiameremmo vision/mission della CT, influenzano
fortemente un altro termine “operatore”. Che anche essa sia una realtà costruita sulla
base di rappresentazioni socio-simboliche e ambientali, né è evidenza il fatto che è
stata definita da un certo punto in poi, nel momento in cui gli ospedali hanno
incominciato a trasformarsi da centri del potere psichiatrico a centri community
based. Accanto a figure tradizionali quali medici, psichiatri, infermieri sono state
inseriti psicologi, assistenti sociali, educatori, art therapist, psicodrammatisti,
psicomotricisti ecc.
“Si pone a questo proposito la questione del termine più adatto a indicare queste diverse
funzioni terapeutiche: in Francia viene usato il termine soignants, in Inghilterra il termine
adottato è TC workers; in Italia non c’è una denominazione comunemente accettata” (Ferruta,
1998:2).
Il termine più comunemente utilizzato in Italia per indicare chi lavora in
comunità terapeutiche è quello di “operatore”. Ma questo termine, forse anche più di
quello di “comunità terapeutica” non è affatto un termine neutro, dal chiaro
significato. Il suo ruolo, le sue funzioni, il suo curriculum formativo è storicamente
dipeso dall’ideologia di intervento dominante. Si può in qualche modo rintracciare, e
lo farò nel corso di questo capitolo, una evoluzione parallela della teoria, ma forse
2
Rapoport, R.N. (1960): Community as a doctor. Tavistock Publications.
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