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INTRODUZIONE
L’argomento della tesi che ho scelto per concludere questo bellissimo e splendido
triennio riguarda le trasformazioni che negli ultimi decenni hanno interessato la Fiat,
ed in particolare i mutamenti dei modelli di organizzazione della produzione, dei
processi e delle relazioni di lavoro e sindacali.
Ammetto di essere un grande appassionato del mondo dell’automobile, in quanto
rappresenta il simbolo della nostra società industriale. ¨ per questo che ho deciso di
trattare questa tematica dal punto di vista storico e sociologico, perchØ ritengo che la
Fiat sia una delle piø importanti aziende dell’Italia industrializzata. La sua storia è
profondamente legata a quella di un paese che, nel giro di un secolo circa, è passato
da agricolo a industriale. La sua organizzazione, in particolare, ha subito profondi
cambiamenti dovuti al rapido evolversi del clima economico, sociale e politico.
Infatti, l’azienda, come la maggior parte delle imprese occidentali, ha seguito la
strada del Fordismo al fine di organizzare la produzione e il lavoro operaio in modo
da ridurre i costi e accrescere la produttività. Tale sistema rimarrà attivo fino alla fine
degli anni ’70, quando l’azienda torinese deciderà prima di investire “nell’Alta
Automazione” e poi nel corso degli anni ’90 di riorganizzare il lavoro e in generale
tutto il sistema di gestione del personale operaio e dirigenziale secondo i criteri della
“produzione snella”.
Il metodo portato avanti dall’azienda del Lingotto negli ultimi decenni può essere
considerato un ibrido tra i due modelli di organizzazione della produzione e del
lavoro che hanno segnato la storia delle grandi imprese ed in particolare
dell’industria automobilistica: il Fordismo-Taylorismo, da un lato, e il Toyotismo-
Ohnismo, dall’altro. Tali metodi hanno avuto origini geografiche diverse: il primo,
diffusosi negli USA, ha avuto in Henry Ford il suo principale ideatore e la prima vera
applicazione nella produzione del famoso modello T; mentre il secondo ebbe origine
nel Giappone del secondo dopoguerra ad opera di Taiichi Ohno, che a partire dagli
anni ’50 ideò e perfezionò un nuovo sistema di organizzazione del lavoro presso la
Toyota e che successivamente si diffonderà in tutto il mondo, soprattutto dopo gli
anni ’70.
Il Fordismo-Taylorismo prevedeva una particolare divisione del lavoro dove la
fabbricazione era altamente standardizzata, mentre la fabbrica era organizzata in
5
modo da permettere una produzione di massa altamente standardizzata. Con
l’avvento del Fordismo venne introdotta la catena di montaggio, costituita da un
nastro trasportatore, che facilitava un veloce ed efficiente svolgimento dei compiti.
Inoltre, venne riorganizzato tutto l’apparato burocratico da monte a valle, ovvero
tutte le decisioni venivano prese dalla direzione centrale e attraverso i vari settori
dell’organizzazione arrivavano fino all’ultimo operaio. Queste novità portarono a
una riduzione netta dei prezzi, e a un incremento delle vendite e allo sviluppo di un
mercato di massa negli Stati Uniti e successivamente in Europa.
Il modello Toyota, diffusosi in Giappone, ha avuto origine a partire dagli anni ’50,
quando una piccola azienda, la Toyoda Automatic Loom, nata come produttrice di
telai tessili nel 1933, aprì una nuova divisione destinata alla produzione di automobili
sotto la direzione di Taiichi Ohno. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale
l’impresa attraversò una profonda crisi economica, che la portò sull’orlo del
fallimento. Con lo scoppio della guerra di Corea, la Toyota si ritrovò
improvvisamente un numero di commesse enormi, e questo rappresentò il
presupposto per uscire dalla crisi. ¨ in questa situazione che un giovane ingegnere di
nome Taiichi Ohno attuò una serie di disposizioni capaci di portare l’azienda a
diventare una della maggiori case automobilistiche del mondo (di fatto oggi l’azienda
giapponese contende alla General Motors il primato di auto prodotte) e a mettere a
punto un sistema di produzione che porta il suo nome, ovvero l’Ohnismo. Esso
consisteva sostanzialmente nel produrre automobili Just in Time rispetto alle
richieste del mercato, avendo a disposizione, tra l’altro, poche risorse materiali,
umane e finanziarie su cui poter contare.
In particolare, il giovane ingegnere s’imbattØ subito nel problema degli stock, visto
come punto di partenza. ¨ in questo contesto che nasce “la fabbrica minima”, le cui
funzioni produttive vengono ridotti ai coefficienti strettamente necessari per far
fronte alla domanda giornaliera. Tale sistema si regge su due “pilastri” fondamentali:
la produzione “just in time” e “l’autoattivazione”. La novità di Ohno era di pensare
tutto il processo di produzione “all’inverso”, ovvero organizzare il lavoro, non solo
di tutti gli operai, ma di tutto il sistema fabbrica secondo criteri di efficienza e di alta
qualità.
Con la crisi petrolifera degli anni ’70, il sistema di produzione fordista entrò in piena
crisi in tutti i paesi industrializzati. Questi ultimi cominciarono a guardare con
estremo interesse al modello giapponese che garantiva sviluppo soprattutto in periodi
6
di crescita economica lenta. Ci si iniziò ad interrogare se fosse possibile esportare
tale metodologia e sulle conseguenze presso i lavoratori, e piø in generale presso
tutto il sistema impresa.
In Italia, la Fiat visse gli anni ’70 in modo conflittuale per via delle fluttuazioni del
petrolio, del terrorismo delle BR e delle numerose agitazioni operaie. Quest’ultime si
conclusero solo nel 1980 con la famosa marcia dei 40000 a Torino e l’inizio del
periodo di maggiore concertazione tra Fiat e gli operai. Negli anni ’80 la Fiat compì
enormi investimenti verso “l’alta automazione” con l’inaugurazione degli
stabilimenti di Termoli e Cassino, che utilizzano tecnologie di fabbricazione molto
sofisticate. Tuttavia, ciò non bastò a incrementare la qualità dei prodotti. Infatti, nel
1993 con la fondazione della Fiat SATA a Melfi l’azienda raggiunse la piena
realizzazione della “fabbrica integrata” integrando in quello che può essere definito
un green field un modello di produzione organizzato secondo i dettami della
produzione snella Just in Time e nuove relazioni industriali tra sindacato e
management di tipo cooperativo.
La mia tesi si divide in tre capitoli. Nei primi due si tenterà di effettuare una attenta
ed approfondita analisi sulle caratteristiche peculiari dei due principali sistemi di
organizzazione del lavoro affermatisi nel XX secolo: il Fordismo taylorismo, prima;
il Toyotismo-Ohnismo, poi. Infine, il terzo capitolo sarà dedicato a come, a partire
dagli anni ’70, la Fiat abbia intrapreso un percorso di mutamento che ha comportato
una profonda trasformazione dei processi di produzione e delle relazioni di lavoro e
sindacali attraverso le esperienze dell’alta automazione e della fabbrica integrata.
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CAPITOLO I
L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO E LA
PRODUZIONE DI MASSA:
DA TAYLOR A FORD
1.1. La rivoluzione industriale e le origini del Taylorismo
L’inizio della rivoluzione industriale in Gran Bretagna viene datata nel XVIII secolo.
Landes
1
la definisce come un complesso di innovazioni che allevia la fatica
dell’uomo e aumenta l’efficienza delle abilità umane. Ciò rese possibile il passaggio
dall’artigianato alla manifattura, costituendo le basi per lo sviluppo dell’economia
moderna. I due aspetti che caratterizzano la rivoluzione industriale sono, da un lato,
l’innovazione tecnologica, con tutte le sue applicazioni nella produzione; dall’altro,
la crescente separazione dell’unità di consumo (la famiglia) dall’unità di produzione,
con la nascita della fabbrica e dell’operaio dell’industria.
La Gran Bretagna fu la prima Nazione che portò avanti questo grande mutamento
radicale della tecnica produttiva, soprattutto nel periodo 1760 – 1830. Tuttavia,
prima di questo periodo, ci furono numerose iniziative imprenditoriali che, con la
costante innovazione scientifica e tecnologica, con la concentrazione e
riorganizzazione artigiana, permisero l’ascesa del commercio e del mercato.
L’economia di sussistenza e quella basata ancora sulla vecchia proprietà fondiaria
entrarono in crisi, mentre la borghesia, diede vita alla società capitalistica, dove le
relazioni non si fondarono piø sul prestigio di ceto, ma sul libero mercato. La
crescente libertà da vincoli e dalle convenzioni della società tradizionale permise di
porre grande fiducia nell’individualismo economico, visto come motore della
crescita.
L’individualismo economico trovò un proprio fondamento nell’etica protestante.
Infatti, secondo Weber
2
, la dottrina della predestinazione suscitava in ciascun
individuo una grande ansia sulla propria salvezza. Solo attraverso una attenta
dedizione al razionalismo, all’ascetismo mondano, all’utilizzo razionale del tempo,
1
Landes D. , Il prometeo liberato,1969 (trad. it. , Einaudi, Torino, 1978); citato in Della Rocca G. ,
Fortunato V. , Lavoro e organizzazione, dalla fabbrica alla società postmoderna, Laterza, Roma, 2006,
pag. 3.
2
Weber M. , L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904 – 1905, (trad. it. , Sansoni, Firenze,
1965).
8
non solo nella preghiera ma anche nel lavoro, permetteva la salvezza divina. Il
successo nel lavoro era il risultato tangibile del giusto modo di vivere.
Per Thompson
3
, il modo di misurare il tempo delle precedenti società agricole e
contadine seguiva la logica della necessità e dei ritmi naturali. Non era separato dalla
vita quotidiana e dalle relazioni di comunità, la giornata si allungava o si accorciava
a seconda delle necessità. Nella nuova società industriale la manodopera veniva
assunta e retribuita in denaro, e di conseguenza il tempo si trasformò in denaro.
Quindi, diventava importante sorvegliare che ciò non andasse sprecato. Tuttavia, non
bastava controllare il tempo, perchØ esso doveva essere sincronizzato, ma nella prima
rivoluzione industriale non esistevano preventivi rigidi sul tempo, sulla durata della
giornata lavorativa e tanto meno sui tempi per singole attività. Solo a partire dalla
fine della seconda metà dell’Ottocento si assistette ad un contenimento dei salari
entro tempi certi e si ridusse la discontinuità nella prestazione. La sincronizzazione,
secondo Thompson, deve eliminare tutte le discontinuità, e ottenere maggiore
precisione nei ritmi e negli orari richiesti dalle nuove tecniche di produzione. ¨ da
qui che nacque la necessità di concentrare tutto il lavoro in un unico edificio
chiamato “fabbrica”.
Il progresso tecnologico permise il miglioramento non solo di un prodotto,ma anche
di tutto quello che girava intorno, incentivando fortemente tutti gli altri settori ad essi
collegati, così che si superarono i cosiddetti colli di bottiglia, che rappresentavano
sempre un grosso problema. Per esempio, le nuove macchine della manifattura
crearono il bisogno di energia, quindi di carbone e di motori a vapore, e tanto queste
macchine che questi motori necessitarono di ferro che richiedeva, a sua volta, altro
carbone e altra energia. Inoltre, si rendevano necessarie trasformare tutti gli utensili e
le attrezzature in modelli standard, favorendo una maggiore integrazione tra le
lavorazioni e un miglior utilizzo del tempo.
L’imperante sviluppo del progresso chiedeva una nuova organizzazione, che fu
concentrata nella fabbrica per dare piø regolarità, piø precisione e piø rigore alla
organizzazione lavorativa. L’avvento dell’impianto produttivo moderno come unità
logistica ebbe un enorme impatto sociale, le cui conseguenze vennero descritte molto
3
Thompson E. , Time, Work Discipline and Industrial Capitalism, in E. Grendi, 1967, (trad. it.
Società patrizia e cultura plebea, Einaudi, Torino, pag. 345-355); citato in Della Rocca G. , Fortunato
V. , Lavoro e organizzazione, dalla fabbrica alla società postmoderna, Laterza, Roma, 2006, pag. 5.
9
approfonditamente da K. Marx
4
. Secondo la sua concezione, nell’industria c’è chi è
proprietario dei mezzi di produzione (Capitalisti), e chi (Proletariato), non
possedendo alcun capitale, era libero di vendere la propria forza lavoro entro una
determinata dimensione temporale.
Le condizioni lavorative, con il nuovo sistema, peggiorarono gravemente, in quanto
venne innanzitutto meno la possibilità di scegliere come, quando e in quale luogo
svolgere il proprio lavoro, così che essi dovettero abbandonare una parte del loro
salario. Il lavoro a termine o a giornata era molto diffuso, mentre quello a tempo
parziale era molto raro. L’assenteismo era di solito punito con multe, ma poteva
portare anche al licenziamento. Le ore di lavoro potevano arrivare fino ad oltre 16
ore al giorno, e non esistevano forme di tutela e protezione verso i minori e le donne,
costretti anch’essi a condizioni ambientali malsani e nocivi.
Il ritmo e l’intensità del lavoro era determinato dal sistema delle tariffe di cottimo a
pezzo, piø che da metodi scientifici di organizzazione. Gli operai, al fine di alleviare
la sofferenza delle proprie condizioni, attuarono politiche di solidarietà spontanea,
convenzioni su come misurare il lavoro e su come evitarlo, su come avviare trattative
informalmente ed evitare il controllo di chi aveva compiti di supervisione.
La fabbrica, secondo Mokyr
5
, eliminò il lavoro a domicilio, perchØ permetteva di
avere tutti i lavoratori sotto lo stesso tetto. Ciò garantiva “interazioni ripetute” e
assicurava una maggiore possibilità di trasmissione delle informazioni tra gli stessi
operai. Il modello di produzione a domicilio si prestava bene, entro certi limiti, alla
divisione del lavoro, favoriva piø attività separate tra loro, i costi che comportava nel
trasferire beni intermedi da lavoratore a lavoratore non erano trascurabili, ma in ogni
caso erano considerati inferiori a quelli sostenuti nel riunire tutti i lavoratori nello
stesso sito. La fabbrica, durante la rivoluzione industriale, permetteva di coordinare
al meglio tutto il capitale di savoir-faire. Negli stabilimenti tecnici e ingegneri si
coordinavano tra loro e con gli operai.
Il subcontratto fu la principale formula di impiego della forza lavoro nella fabbrica
manifatturiera. Come ricostruiscono diversi autori, fino al 1870 molti operai avevano
un rapporto di lavoro verso un subappaltatore intermediario che era allo stesso tempo
4
Marx K. , Il capitale. Critica dell’economia capitalistica, 1867, (trad. it. Editori Riuniti, Milano,
1956).
5
Mokyr J. , I doni di Atena. Le origini storiche dell’economia della conoscenza, 2002, (trad. it. Il
mulino, Bologna, 2004); citato in Della Rocca G. , Fortunato V. , Lavoro e organizzazione, dalla
fabbrica alla società postmoderna, Laterza, Roma, 2006, pag. 9.
10
operaio e datore di lavoro. Il padrone di un’azienda o imprenditore non gestiva
direttamente gli operai e il loro rapporto di lavoro, ma negoziava una relazione
contrattuale con un intermediario, detto “contrattista”, che diventava a sua volta
datore di lavoro. L’imprenditore, inoltre, si limitava a provvedere al capitale fisso, ad
alcuni tipi di forniture e ai materiali e controllava la vendita del prodotto finale. Ai
contrattisti spettava assumere gli operai, fissare le modalità della prestazione
richiesta e pagare il salario
6
. Ad essi toccava ideare tutte le soluzioni tecniche e
umane per abbassare i costi: “la portata di questo incentivo – scrive Nelson – è
chiara per il fatto che soltanto il contrattista coglieva i frutti del sistema. Gli uomini
che lavoravano per lui ricevevano di norma paghe giornaliere e spesso
sopportavano il costo degli aggiustamenti al ribasso della somma stabilita per il
contrattista, quando l’azienda stabiliva che i profitti di quest’ultimo erano troppo
alti”
7
. La ricetta dell’appalto poteva essere applicata sia per lavori poco complessi,
sia per lavori piø complessi e qualificati.
Littler, in particolare, precisa che la figura del contrattista non costituiva l’unica
figura di coordinamento e di gestione interna della produzione. Alcune imprese
optavano per il controllo diretto utilizzando la formula del capo squadra. Questa
politica aveva una autonomia parziale dal sistema del subappalto. Comunque, era
adottato applicando regole di mercato, e il capo squadra, come il contrattista, aveva
la facoltà di assumere, licenziare, distribuire il lavoro e organizzarlo. Anche in questo
sistema gli operai ricevevano continue pressioni affinchØ lavorassero piø duramente,
indipendentemente dalla presenza di sistemi di cottimo o di altre forme di incentivo.
Tale sistema era conosciuto come “drive system” (traducibile come sistema della
spinta). Jacoby
8
lo definisce come “controllo stretto, abuso, irriverenza e minacce –
e aggiungendo che - le regole informali che presiedevano al comportamento di
lavoro come alle pause venivano rafforzate in modo duro e arbitrario. Gli operai
erano continuamente spinti a muoversi piø in fretta e a lavorare piø duramente”.
La concentrazione di potere nelle mani dei capireparto non si limitava ad impedire
alle direzioni aziendali la conoscenza delle fasi interne al processo produttivo, essa
6
Della Rocca G. , Fortunato V. , Lavoro e organizzazione, dalla fabbrica alla società postmoderna,
Laterza , Roma, 2006.
7
Nelson D. , Manager and Workers: Origins of the New Factory System in the United States, 1880 –
1920, Madison, University Wisconsin Press, 1975; citato in Bonazzi G. , Storia del Pensiero
Organizzativo, FrancoAngeli, Milano, 2008, pag. 36.
8
Sanford J. , The Development of Internal Labor Markets in American Manufacturing Firms, in
Internal Labor Markets, Paul Osterman editor, MIT Press, Cambridge, Mass, 1984; citato in Bonazzi
G. , Storia del Pensiero Organizzativo, FrancoAngeli, Milano, 2008, pag. 35.
11
comportava una diffusa empiria, approssimazione e arbitrarietà dei metodi di
conduzione dell’officina. Non devono essere trascurati i veri e propri atti di arbitrio
descritti in modo esauriente sempre da Jacoby: “per l’operaio il caporeparto era un
despota, non sempre benevolente, che decideva e interpretava la politica del
personale come meglio gli garbava… il controllo del caporeparto sui dipendenti
cominciava letteralmente ai cancelli della fabbrica. Il caporeparto stava in testa alla
folla e sceglieva gli operai che gli apparivano piø adatti o che erano riusciti ad
avvicinarsi. In una fabbrica di Filadelfia il caporeparto gettava delle mele nella
folla;chi riusciva ad afferrare una mela aveva il lavoro. I capireparto potevano
essere meno arbitrari assumendo loro amici o parenti di quelli già impiegati. Molti
si basavano su stereotipi etnici per stabilire chi doveva avere il lavoro e quale
lavoro offrire. Gli operai ricorrevano spesso alla corruzione offrendo al caporeparto
whisky, sigari o denaro per avere un lavoro
9
”.
L’organizzazione di fabbrica era dunque una costellazione di laboratori e piccole
officine con contrattisti o capisquadra che gestivano manovali e aiutanti.
Un’organizzazione estremamente flessibile necessaria per controbilanciare
l’instabilità dei mercati e della produzione industriale.
Oltre alle condizioni di impiego, con la rivoluzione industriale ci si avviò alla
trasformazione dei contenuti del lavoro operaio. La figura dell’artigiano,
predominante nella prima fase della rivoluzione industriale, venne pian piano
sostituita da quella dell’operaio di mestiere e da quella dell’operaio specializzato,
rappresentante della completa integrazione nella fabbrica del lavoro operaio
competente, non piø soggetto a regole di mercato come il subcontratto, anche prima
dell’avvento e della completa diffusione della direzione scientifica del lavoro.
L’artigiano e l’operaio di mestiere riflettevano un contesto di fabbrica poco
strutturato, non erano assunti, lavoravano a contratto e il grado di interazione sulle
conoscenze tecniche e di processo tra mestieri, di tipo orizzontale all’interno della
fabbrica era molto ridotto, mentre l’operaio specializzato lavorava in un contesto piø
burocratizzato, proprio perchØ assunto dall’imprenditore e dipendente da una
gerarchia piø strutturata.
In questo periodo nacquero anche i sindacati di mestiere, che erano delle associazioni
volontarie ed esclusive degli operai rispettabili, costruiti in modo tale da garantire
9
Ibidem.