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1. INTRODUZIONE ALL’ANTROPOLOGIA VISUALE
L‟antropologia visuale si occupa di documentare le manifestazioni visive del
comportamento umano, analizzando le diverse usanze, i costumi, i miti e le cerimonie,
l‟abbigliamento, l‟organizzazione dello spazio, i gesti e la mimica, e l‟arte in ogni sua
forma. Le sue origini si identificano nel periodo delle esplorazioni etnografiche di fine
Ottocento, momento in cui film e fotografia pongono agli antropologi diverse questioni,
che diventeranno in seguito proprio il centro dell‟interesse per la nuova disciplina.
L‟antropologia visuale si avvale di un approccio olistico, per poter porre l‟attenzione sui
vari fenomeni sociali.1
La fotografia, fin dalle sue origini, fu ritenuta uno strumento fondamentale per
qualsiasi attività di documentazione, in quanto antropologi, scienziati e altri studiosi
credevano che essa fosse capace di riprodurre la realtà con precisione, tralasciando
l‟intervento soggettivo dell‟uomo. E‟ proprio per questo motivo che l‟antropologia della
seconda metà dell‟Ottocento si avvalse del mezzo fotografico per studiare i cosiddetti
popoli primitivi, oggetto di studio durante il XIX secolo, epoca in cui l‟Occidente
“moderno” e “civilizzato” entrò in contatto diretto con le popolazioni del continente
africano, asiatico e americano. In questo periodo si inaugurò l‟era dell‟etnografia2,
metodo peculiare per le grandi potenze colonialiste, interessate ad indagare le strutture
sociali e i sistemi culturali delle popolazioni da loro controllate. Il sapere antropologico
si servì, appunto, dello strumento fotografico per sistematizzarsi: la rappresentazione
iconica risultava necessaria per studiare l’alterità umana, dal momento che una delle
questioni fondamentali per le discipline demo-etno-antropologiche consisteva nella
valorizzazione dell‟oggettività e dell‟attendibilità.3 Lungo tutto il secolo XIX
perdurarono le catalogazioni delle diverse “razze” umane, utilizzando particolarmente il
criterio della misura del cranio.
1
P. Chiozzi, Manuale di antropologia visuale, Edizioni Unicopli, Milano, 1992, pag. 9.
2
Letteralmente significa “descrizione dei popoli” (dal greco ethnos –nazione- e grapho –scrivo-).
3
P. Chiozzi, op. cit., pag. 17-18.
4
Ma agli albori della fotografia, l‟uso delle immagini fu enfatizzato da coloro che
erano particolarmente attratti dal significato dell‟aspetto esteriore dell‟uomo, in quanto
le immagini venivano intese come lo specchio della realtà; per esempio, la fisiognomica
tentava di dare scientificità allo studio dei tratti del viso, pensando che fosse possibile
collegare la sfera biologica dell‟uomo e il suo essere morale-culturale. Questa disciplina
pretendeva di dedurre i caratteri psicologici e morali di un individuo dal suo aspetto
fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Secondo le teorie
dell‟antropologo criminale Cesare Lombroso, era possibile, appunto, derivare il
carattere di un individuo dai tratti somatici.4
Cesare Lombroso
Grazie al mezzo fotografico, quindi, era possibile documentare importanti aspetti
in tutti i settori dell‟antropologia, ma le prime immagini etno-antropologiche
tralasciavano varie dimensioni del soggetto (come l‟ambiente, il pensiero, le dinamiche
socio-culturali…), inaugurando la cosiddetta fotografia antropometrica.5 Per quanto
4
W. Guadagnini, Fotografia, Zanichelli Editore, Bologna, 2000, pag. 7.
5
Siccome la fotografia era ritenuta una copia oggettiva della realtà, si riteneva che da essa si
potessero ottenere dati importanti relativi al corpo umano, come l'altezza, la lunghezza degli arti, il
bacino, il torace, la forma della mano delle dita, oltre alle caratteristiche dei capelli, alla forma della testa,
ecc.
5
riguarda l‟applicazione dello strumento fotografico all‟ambito antropologico, nei primi
anni, si faceva, perciò, riferimento al fatto di poter indagare il collegamento fra la sfera
biologica e quella morale-culturale: la mimica facciale, per esempio, a detta di Guillame
Benjamin Duchenne, era fondamentale, in quanto si intendeva come un linguaggio
universale; e la fotografia era diventata così la modalità di rappresentazione per
eccellenza nella descrizione dell‟obiettività.6
Le fotografie di Duchenne andarono a costituire il nucleo centrale della collezione
di Charles Darwin che, nel suo studio sulle espressioni delle emozioni, utilizzò proprio
il mezzo fotografico per acquisire dati obiettivi riguardanti la fisionomia; perfino le
immagini costruite in studio erano considerate essenziali (il fotografo Oscar Gustave
Rejlander fu incaricato dallo stesso Darwin di scattare delle fotografie in studio).
Darwin fu sollecitato proprio dal lavoro del medico-fotografo Duchenne, che condusse i
suoi esperimenti sulla fisiognomica presso l‟ospedale di Salpétrière, famoso per gli
archivi di immagini riguardanti le malattie mentali, del sistema nervoso e muscolare.
Altre immagini presenti nella collezione darwiniana appartenevano a Louis Agassiz,
secondo il quale era possibile mostrare l‟esistenza di gruppi umani distinti e la
persistenza di tratti razziali: questo biologo realizzò 15 dagherrotipi7, che ritraevano
alcuni schiavi negri, seguendo la linea principale dell‟epoca, che poneva l‟attenzione
6
P. Chiozzi, op. cit., pag. 21-22.
7
Il dagherrotipo, scoperto nel 1839 da Luois-Jacques Mandé Daguerre, consisteva in una lastra di
rame argentata e viene ricordato come la prima pellicola [W. Guadagnini, op. cit., pag. 52.].
6
sull‟aspetto fisico dell‟uomo. In tal senso la fotografia fu utilizzata per dimostrare una
tesi precostituita.8
Louis-Jacques Mendé Daguerre
Louis Agassiz
La fotografia, quindi, si affiancò abbastanza velocemente alle discipline demo-
etno-antropologiche, tanto da divenire una vera e propria forma di documentazione: le
immagini di viaggio furono fondamentali, ad esempio, per far conoscere all‟Europa i
luoghi conquistati durante le imprese coloniali di metà Ottocento, periodo in cui la
fotografia diventò un elemento portante della conoscenza del mondo.9 Ad ogni modo, la
fotografia non poteva rappresentare il movimento, questione che si risolse grazie alla
cinematografia, i cui esordi risalgono al 1895, anno delle prime proiezioni pubbliche dei
fratelli Lumiére.10 La nascita delle prime cineprese aumentò l‟interesse per i luoghi
esotici e i popoli lontani. Infatti, con la locuzione film etnografico si può intendere un
film che presenta diversi aspetti della vita di popolazioni “selvagge” o “primitive”.11
Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX, perciò, fotografia e
cinematografia diventarono strumenti fondamentali per gli antropologi, che volevano
8
P. Chiozzi, op. cit., pag. 23/26.
9
W. Guadagnini, op. cit., pag. 7.
10
P. Chiozzi, op. cit., pag. 28.
11
Ivi, pag. 35.
7
documentare usi e costumi, le culture di popoli lontani e le diverse fisionomie;
l‟obiettivo era quello di preservare le testimonianze di popoli e culture in via
d‟estinzione, soprattutto grazie alla metodologia dell‟osservazione partecipante.12 Fu
Malinowski a sostenere che l‟antropologo dovesse osservare partecipando, ovvero
entrando in rapporto empatico con i nativi, prendendo parte alla vita delle popolazioni,
cercando di cogliere il loro punto di vista e la loro visione sul proprio mondo:
nell‟esperienza del campo l‟etnografo oltrepassava una sorta di confine per entrare in
contatto con la realtà socio-culturale “altra”; la ricerca malinowskiana nelle isole
Trobriand durò circa due anni e il suo risultato fu la pubblicazione di “Argonauti del
Pacifico Occidentale” (1922). Pensiamo, inoltre, alle ricerche dello zoologo Alfred Cort
Haddon con gli antropologi Charles Seligman e William Halse Rivers (1888) fra le
popolazioni delle isole dello Stretto di Torres: si trattò del primo esperimento
cinematografico scientifico sul campo, importante perché Haddon intendeva rilevare
sistematicamente i dati relativi alle popolazioni di quell‟area, rispetto all‟organizzazione
sociale e religiosa, alla vita quotidiana e alla cultura materiale; ancora abbiamo
l‟esempio del lavoro di Spencer (inizio 1900) con gli Aborigeni australiani, dei quali
furono analizzate alcune attività cerimoniali e di vita quotidiana.13
Il ruolo della fotografia e del cinema nelle ricerche scientifiche aumentò e si
valorizzò sempre di più, gettando così le basi per l‟antropologia visuale; fu proprio la
spedizione allo Stretto di Torres a sancire la nascita dell‟antropologia visuale
nell‟ambito della ricerca sul campo. Uno dei padri fondatori della nuova disciplina è
considerato Robert J. Flaherty, che girò un film importante fra gli abitanti dell‟Isola di
Baffin, “Nanook”, risultato di un lungo periodo di convivenza di Flaherty con i nativi; è
considerato il primo documentario della storia del cinema, ed è per questo che il regista
statunitense è considerato il primo protagonista del cinema-verità. 14
Per quanto concerne l‟Italia, è utile fare riferimento alla nascita della “Società
Fotografica Italiana” (1889), la cui presidenza fu affidata a Paolo Mantegazza, secondo
il quale il mezzo fotografico era un prezioso sussidio per la ricerca scientifica; egli
studiò il fenomeno del dolore, criticando le tesi deterministiche darwiniane: egli chiese
12
Ivi, pag. 38-39.
13
Ivi, pag. 39-40.
14
Ivi, pag. 46/49.