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Capitolo I
La leggenda americana
1. Dal fumetto al cartoon di serie
Diversi studi storico-critici, in questi ultimi decenni, hanno
sottolineato il fondamentale contributo del fumetto nell’esordio e nello
sviluppo del cinema d’animazione.
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Infatti la nascita del fumetto,
databile alla fine dell’Ottocento, coincide con la grande espansione del
cinema come spettacolo popolare, uno spettacolo che si ispira proprio
alle “strisce” pubblicate sui quotidiani e settimanali di informazione. Il
fumetto costituisce lo svago preferito, e a prezzo accessibile, per
milioni di persone soprattutto dei ceti popolari; esso rispecchia tutta
una serie di problemi della società americana a cavallo dei due secoli,
che vengono sdrammatizzati attraverso la satira, l’ironia, il grottesco.
1
G. Bendazzi, Cartoons. Il cinema d’animazione 1888-1988, Marsilio Editori, Venezia, 1988.
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È un modo per esorcizzare i drammi quotidiani delle masse popolari
della nuova civiltà industriale e degli immigrati.
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I personaggi del primo cinema comico americano hanno come modelli
proprio i personaggi dei fumetti e, nei disegni animati, vi è la totale
trasposizione degli stessi personaggi e delle stesse storie dal fumetto al
cinema. Si assiste dunque, agli inizi del Novecento, alla progressiva
acquisizione da parte del cinema di consumo degli elementi che
costituiscono il successo del fumetto presso un pubblico popolare, che
trova in esso un mezzo d’evasione dalle abitudini quotidiane. Le storie
semplici e i personaggi elementari permettono al lettore-spettatore di
immedesimarsi e di immaginare un riscatto nei confronti della vita e
della società. Non è difficile riscontrare, in queste opere di satira, la
dissacrazione di alcuni miti borghesi, il ridicolo in cui sono immersi le
istituzioni sociali e i rappresentanti del ceto medio-alto. Segno
distintivo di questo genere di opera è il disegno grossolano, la
narrazione sgrammaticata, la trascuratezza e l’improvvisazione;
questo sia per creare appunto una cultura alternativa e differenziata da
quella borghese, sia per il ritmo di produzione estremamente
accelerato che non consente troppe rifiniture tecniche e artistiche.
Trasportando i personaggi e le storie dei fumetti dalla carta stampata
al grande schermo si pensa soprattutto alle conseguenze commerciali
ed economiche, in quanto è fortemente auspicabile che i milioni di
lettori possano trasformarsi in altrettanti spettatori. A questa
diffusione del disegno animato cinematografico contribuisce
l’invenzione di Earl Hurd, il quale, nel 1914, utilizza per primo un
2
Cfr. su questo argomento G. Rondolino, Storia del cinema d’animazione, Utet , Torino 2004, pp.
73-74.
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foglio trasparente chiamato rodovetro, che consente di mantenere
inalterato lo sfondo scenografico su cui, per trasparenza, vengono fatti
muovere i personaggi disegnati. La produzione di serie, favorita
dall’invenzione di Hurd, porta il disegno animato americano, già alla
fine degli anni Dieci, a un livello produttivo cospicuo e a una
diffusione capillare, anche oltre i confini degli Stati Uniti. Ciò
determinerà, negli anni seguenti, la crisi del cinema d’animazione
europeo e il predominio assoluto del disegno animato fumettistico
statunitense.
Un nome su tutti a cui far risalire la nascita del disegno animato
statunitense è Winsor McCay, noto tra i cultori del fumetto come
l’artista forse più geniale e poetico delle prime strisce americane. Egli
si afferma nel 1905 con le avventure di Little Nemo pubblicate a
puntate sul “New York Herald”; il suo stile si distingue subito dagli
altri artisti in quanto estremamente rifinito e barocco. In una società
che sempre più si va orientando verso il profitto immediato, in cui la
legge di mercato e il rapido consumo dei prodotti determinano ogni
tipo di scelta, anche nel campo artistico e culturale, non c’è troppo
spazio per un artista come McCay, le cui opere sono il frutto di
un’attività isolata e aristocratica. Egli, infatti, esercita in un periodo
precedente all’invenzione del rodovetro e il suo lavoro risulta
finanziariamente dispendioso e tecnicamente complesso in quanto è
costretto a disegnare ogni volta, immagine per immagine, non solo il
personaggio nelle sue diverse pose ma anche lo sfondo paesaggistico.
È soprattutto a partire dal 1914, quando per la prima volta si utilizza il
rodovetro, che si afferma una produzione di serie tecnicamente
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pregevole e con costi più contenuti. Si formano così, negli anni
durante e subito dopo la prima guerra mondiale, dei settori produttivi
specializzati nel disegno animato, con la formazione tecnico-
professionale di centinaia di persone, che costituiranno la struttura
portante della nuova industria del cinema d’animazione.
Ma non tutti i fumetti di successo si trasformano in film di altrettanto
successo: il cinema è ancora muto e l’animazione si riduce a far
muovere i personaggi su sfondi disegnati ad hoc perdendo così, nella
trasposizione cinematografica piatta e priva di fantasia, il sapore
comico-grottesco delle “strisce”. La maggior parte dei disegnatori
infatti non comprende che i fumetti hanno una dinamica e un ritmo
soggettivo e che tale dinamica dipende dai tempi di lettura e dalla
capacità d’apprendimento del lettore. Dunque la trasformazione dei
fumetti in una successione meccanica e fissa di immagini
cinematografiche spesso non corrisponde con il ritmo libero e
articolato che il lettore dà al fumetto. Il fumetto, in quanto mezzo di
svago, rimane unico nel suo genere; riflette lo spirito del tempo e
fornisce molti elementi per una analisi del costume, dell’opinione
pubblica e delle tendenze culturali di una società. Esso dà al lettore la
possibilità di metterci del proprio, di interpretare fatti e personaggi dal
proprio punto di vista, cosa non sempre possibile nelle sale
cinematografiche: la satira del fumetto, il grottesco del segno grafico,
l’umorismo delle situazioni drammatiche si perdono in una serie di
prodotti di consumo alquanto dozzinali. Si capisce che dietro i
disegnatori, gli animatori e i registi c’è il produttore con evidenti
intenti speculativi e commerciali. Il loro obiettivo è sfruttare al
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massimo il successo dei fumetti utilizzandone i personaggi noti e
popolari per confezionare prodotti redditizi. L’incompatibilità estetica
tra il fumetto e il disegno animato è evidente in diverse opere
cinematografiche, ma l’afflusso di pubblico nelle sale resta
notevolissimo proprio grazie al seguito che i fumetti ricevono tra la
popolazione.
Poco a poco i film animati si trasformano in un prodotto di consumo
per tutta la famiglia: rappresentano il momento della distensione, del
divertimento di un popolo avviato sempre più verso la vita affannata
della metropoli, l’alienazione delle fabbriche, i contrasti sociali, le
lotte di potere. L’America degli anni di guerra e del dopoguerra, fino
alla crisi del 1929 e al successivo periodo di ricostruzione nazionale,
vive un periodo di grandi trasformazioni economiche e sociali. Poiché
ogni trasformazione e cambiamento non avviene mai senza contrasti,
si viene a creare una situazione instabile e preoccupante, incitata dalle
profonde differenze economiche tra i vari strati della popolazione e
dalle differenze etniche e culturali causate dall’immigrazione.
Il cinema non può non riflettere questo stato di cose e soprattutto il
cinema minore, rappresentato dal disegno animato, dal film comico e
dal serial per la sua natura più popolare e di larghissimo consumo,
esprime il bisogno di evasione della maggior parte della popolazione e
la necessità di uno sfogo, di una rivincita che non è possibile ottenere
nella vita sociale. A prescindere dal loro scarso valore artistico, anzi
forse proprio a causa della loro volgarità formale, i brevi film che
raccontano le avventure di personaggi disegnati con i connotati di
determinate categorie sociali costituiscono uno specchio della società
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da cui lo spettatore coglie gli aspetti grotteschi, i punti deboli e le
fragilità del proprio tempo. Queste opere hanno un forte valore
sociologico poiché rappresentano una denuncia latente della società
americana in quanto contribuiscono a mettere in luce le incongruenze
di un sistema basato sulle differenze sociali, sullo sfruttamento
dell’uomo e della natura, sulle ferree leggi del mercato, su un
liberalismo egoista. La beffa e la provocazione diventano, attraverso
queste opere, uno strumento di condanna e di sfida: da qui il grande
successo di pubblico, le loro riprese a distanza di anni, il
rinnovamento continuo di storie e personaggi, in cui lo spettatore può
in qualche modo vedere riflessa la società in cui vive.
Abbiamo visto dunque come la maggior parte dei film d’animazione
prodotti negli Stati Uniti intorno agli anni Dieci si ispirino
direttamente ai personaggi dei fumetti, attuando una mera operazione
commerciale di trasposizione dalle pagine dei giornali allo schermo
cinematografico. Operazione di scarso impatto estetico e artistico ma
di grande successo tra il pubblico. Di lì a poco si assiste alla nascita di
personaggi e storie create appositamente per il cinema d’animazione,
alcuni dei quali subiscono il processo inverso passando cioè dagli
schermi alla carta stampata. Un esempio su tutti è ben rappresentato
da Felix the Cat (Mio Mao) di Pat Sullivan, che da personaggio del
cinema diventa personaggio del fumetto, precursore dei più noti
personaggi di Walt Disney, nati appunto come eroi cinematografici
per poi diventare eroi dei comics. L’ideatore di Felix the Cat è Otto
Messmer, che disegna il personaggio e collabora alla realizzazione
degli episodi della serie. Sullivan ne acquista i diritti nel 1922 e ne
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diventa il produttore fino al 1933, l’anno in cui muore. La novità di
questo personaggio sta soprattutto nel grafismo vivace delle figure,
nelle invenzioni narrative, nel ritmo del racconto e nella sua
definizione psicologica, più che nelle situazioni comico-grottesche o
negli elementi umoristici ricorrenti e comuni del cinema comico. Il
disegno caratterizza il personaggio attraverso gli elementi
indispensabili dell’ambiente in una dimensione volutamente dinamica;
un dinamismo pienamente compatibile col ritmo narrativo
cinematografico. Questo nuovo personaggio ha una propria
particolarità psicologica che si manifesta nelle sue reazioni alle
difficoltà del momento, nelle soluzioni che egli dà ai problemi che gli
si presentano di volta in volta. Si assiste alla delineazione di un
comportamento individuale frutto di un preciso calcolo mentale basato
sull’esperienza del momento.
Ma l’originalità della serie di Sullivan, come del resto tutte le altre, si
è andata perdendo di film in film; si assiste cioè ad una serie di
“meccanizzazione” degli effetti esilaranti che riduce man mano il
fascino di queste opere. Il personaggio si svuota delle sue
caratteristiche psicologiche e diventa solo un pretesto per far ridere.
Nonostante ciò l’arte cinematografica di Sullivan, basata su un
protagonista chiaramente definito e su pochi elementi narrativi
ricorrenti, sarà ripresa dai migliori artisti dell’animazione di consumo
degli anni seguenti. Fra questi spiccano i nomi di Paul Terry, Walter
Lantz, Walt Disney, Max e Dave Fleischer. Nuovi personaggi saranno
protagonisti e nuovi saranno i temi e i modi della comicità, più
irriverente o più mite a seconda degli autori, del momento storico,
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delle esigenze di mercato, ma va sottolineato come Felix the Cat di
Pat Sullivan rappresenta il prototipo dei personaggi-chiave del disegno
animato americano.
Tra gli artisti appena citati lo stile di Paul Terry si differenzia dagli
altri per un più evidente gusto del grottesco, dell’esagerato, del
paradossale, che porta alle estreme conseguenze le possibilità
fantastiche del disegno animato. Una delle caratteristiche
fondamentali del cinema di Terry è proprio questa dose di humour, di
contagioso sarcasmo che supera i normali confini del divertimento
verso l’esagerazione, la libertà inventiva, il non senso. Più che sui
singoli personaggi e sulle storie, il suo interesse è rivolto alle
situazioni alquanto assurde che possono crearsi da contrasti
improvvisi, da scontri drammatici o anche soltanto dalla
contemplazione di momenti particolari della storia, apparentemente
estranei rispetto al soggetto principale. Tra i suoi primi personaggi,
affermatisi tra il 1916-17, troviamo Al Falfa, un contadino saggio e
arguto, definito con grande finezza psicologica.
La maggior parte dell’opera di Terry non è legata alle serie intese in
senso tradizionale, cioè ruotanti attorno a un personaggio ricorrente
d’episodio in episodio, ma ai film costruiti su personaggi, soggetti e
ambienti sempre diversi che si presentano autonomamente, con
caratteri diversi l’uno dall’altro. Alcune sue opere si ispirano alle
favole di Esopo, per le quali utilizza l’animazione combinata con la
tecnica “dal vero”. La storia disegnata viene introdotta partendo da
una situazione realistica, in modo tale che il disegno animato diventa
una proiezione della realtà quotidiana nel mondo della fantasia e
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dell’immaginazione. L’opera di Paul Terry rappresenta sempre
un’alternativa per un pubblico che non troppo apprezza, negli anni
imperanti del disneysmo trionfante, il disegno caramelloso e
puramente infantile di molti film d’animazione hollywoodiani. La sua
è un’arte a metà strada tra Disney e i fratelli Fleischer, che opereranno
in un campo totalmente diverso dal disegno animato per l’infanzia.
Walter Lantz, il più giovane tra gli artisti già menzionati, acquista
fama grazie al suo esordio alla Universal, casa di produzione
californiana per la quale già lavora Walt Disney. La sua affermazione
tra i più noti autori del cinema d’animazione americano è proprio
legata a quest’ultimo, infatti Disney lascia la Universal nel 1928, al
seguito di un mancato accordo sui diritti di un personaggio da lui
creato, Oswald the Rabbit, che viene poi ripreso e trasformato da
Lantz, portandogli grande notorietà nel campo dell’animazione.
Oswald, un intelligente coniglio che affronta con coraggio i pericoli
incombenti che gli si presentano nella vita, appare diverso dagli altri
personaggi dei cartoons, più volgari e irriverenti. Egli si afferma come
il campione delle virtù americane e le sue avventure costituiscono il
motivo portante di un discorso rispettabile e borghese sulla società del
tempo. La serie di Oswald the Rabbit, iniziata da Disney, può essere
considerata il prototipo delle serie degli anni Trenta, che proprio in
Disney avranno il loro autore e produttore più famoso. Mickey Mause
sarà il successore di Oswald, in un quadro ancora più conformista ma
stilisticamente confacente ai gusti dell’epoca, dimostrato dal più che
caloroso successo di pubblico.
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Lantz, più di altri, rimane sostanzialmente in ombra, schiacciato
dall’opera disneyana. Bisognerà attendere l’inizio degli anni Quaranta,
con la serie Picchiarello, per ritrovare una certa originalità e uno
spirito satirico che è possibile intravedere in alcuni suoi film degli
anni Venti.
2.Walt Disney e la società americana
Quando si pronuncia la parola Disney non si pensa mai a una
singola persona ma all’industria cinematografica d’animazione più
famosa al mondo con tutti i parchi e gli stores ad essa dedicati.
Walt Disney, nato a Chicago nel 1901, quarto figlio di una modesta
famiglia, è stato un artista sensibile alle sfumature dell’animo
popolare, ma anche un accorto capo d’industria. Per avvicinarsi alla
sua infanzia, ai suoi tormenti adolescenziali, agli scontri con il padre
Elias, basta leggere la prima biografia autorizzata, quella di Bob
Thomas.
3
Elias Disney viene descritto come un padre molto severo,
che sente pesare il compito di mantenere moglie e cinque figli con i
guadagni provenienti da una fattoria. Spesso teme la possibilità di un
fallimento e per questo esige sempre di più dai suoi figli maggiori. La
madre Flora è, al contrario, vivace e allegra. La figura del papà di
Walt viene presentata come quella di una persona indecisa, frustrata,
violenta, autoritaria, incapace di amare e di farsi amare. Il nome di
Walt viene scelto dal padre in onore di Walter Parr, il pastore
3
B. Thomas, Walt Disney, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.
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congregazionalista del quale egli è amico. I congregazionalisti sono
protestanti che seguono le regole della loro comunità senza
assoggettarsi a quella ecclesiastica. Fervente religioso, Elias osserva
severamente i precetti quotidiani e costringe la sua famiglia a fare
altrettanto.
Nel 1906, quando Walt deve ancora compiere il quinto anno d’età, la
famiglia Disney si trasferisce in una fattoria nel Missouri, a duecento
chilometri da Kansas City. Alla nuova fattoria Walt, la mamma Flora,
Roy (il fratello più grande di otto anni) e Ruth Flora (la sorellina nata
due anni dopo Walt) arrivano una settimana prima del padre. Una
settimana che verrà ricordata da tutti come il periodo più bello e felice
senza quel padre che non ride mai, che non gioca mai, che non ha mai
un gesto affettuoso, che non fa altro che proibire e punire con gesti
violenti. Quando una settimana più tardi arrivano Elias e i due fratelli
maggiori la gioia finisce e si torna al terrore. Non mancano comunque
altri momenti felici alla fattoria, soprattutto quando lo zio Ed va a far
loro visita. Ed è il padre che Walt avrebbe voluto avere, sembra un po’
matto ma è l’unico capace di stare dietro alle sue fantasticherie.
Insieme parlano, scherzano, vanno a passeggio nella campagna. Nella
biografia di Thomas non si parla della scomparsa dello zio Ed, che
sparisce improvvisamente senza spiegazioni, mentre in quella non
autorizzata di Leonard Mosley si dà notizia della sua morte, avvenuta
dopo il ricovero in una casa di cura per malati di mente.
Nel 1910, i Disney si trasferiscono nuovamente per andare in città, a
Kansas City. Il lavoro di Elias non va bene, la sua salute è assai
precaria e aggravata da un grande oltraggio ricevuto: i primi due figli
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scappano di casa. Il trasferimento dalla campagna in città genera
inoltre una piccola tragedia per Walt e Roy: tutti gli animali della
fattoria vengono venduti, nonostante le insistenti implorazioni al
padre. È proprio in città che la lotta con il padre-padrone arriva al suo
culmine. Qui, Elias Disney organizza la consegna quotidiana dei
giornali, per la quale coinvolge un gruppo di ragazzi tra cui i suoi due
figli Roy e Walt. Il lavoro è durissimo: bisogna alzarsi alle tre per
riuscire a fare tutte le consegne prima di andare a scuola e la
ricompensa non è che di pochi spiccioli. A diciannove anni Roy non
ne può più e anche lui va via di casa, rendendo ancora più dura la vita
di Walt. Nel corso di alcuni lavori per l’ampliamento della casa, Elias
pretende aiuto dal figlio e quando non lo riceve nella maniera voluta
lo colpisce con qualsiasi attrezzo egli abbia tra le mani in quel
momento. Un giorno di questi Walt, su consiglio di Roy (con il quale
si mantiene sempre in stretto contatto), cerca di reagire e gli blocca le
mani armate di martello. Negli occhi di Elias spuntano le lacrime,
Walt allenta la presa e va via. Da allora il padre non lo picchia più.
La biografia di Thomas, rispetto alle altre non autorizzate, non si
sofferma sul dolore patito da Walt per l’incapacità della madre di
proteggere il figlio da un padre austero e violento. Un dolore per
l’assenza di conforto e di protezione che, per fortuna, viene recepito e
ridimensionato del fratello Roy. Per fortuna, perché, come scrive
Alice Miller nel suo saggio La chiave accantonata,
quando la sconfinata impotenza dei bambini non trova mai il rifugio e il conforto
di braccia amorevoli, non può che mutarsi in durezza e spietatezza. È la presenza
o meno d’un testimone soccorrevole nell’infanzia a decidere se un bambino
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maltrattato diverrà un artista capace di comunicare le proprie sofferenze oppure
un despota.
4
A quindici anni, Walt riesce ad acquistare un po’ di autonomia con un
lavoro alle ferrovie, poi come manovale e postino, fino all’esperienza
militare in Francia. Al suo ritorno, invece che dai genitori, preferisce
andare dai fratelli. Il silenzio con i genitori dura fino al 1938, è infatti
dopo i suoi più grandi successi (nel ’37 esce Biancaneve) che Walt
ritorna ad avere loro notizie. Sono in Oregon, il padre fa il falegname
e la madre è caduta in depressione. Roy e Walt comprano una casa per
loro a Los Angeles, ma la depressione della madre è sempre più acuta
tanto da non trovare divertenti neppure i cartoni animati: soprattutto
esprime il suo disappunto per la voce di Mickey Mouse, pur sapendo
che è quella di Walt in falsetto. Nello stesso anno Flora Disney muore
per una fuga di gas. Nella biografia non autorizzata si parla di suicidio
e di un possibile senso di colpa di Walt per aver scelto personalmente
la casa in cui è avvenuta la tragedia. Il padre, rimasto vedovo, entra
negli studi Disney e cerca anche di rendersi utile all’azienda con
qualche lavoretto manuale. Quando Elias muore Walt, in viaggio in
Sudamerica, non torna per partecipare ai funerali. Questo rapporto
tormentato lo si ritrova camuffato in molte sue opere, in circostanze e
personaggi che lo sottendono.
La biografia di Walt Disney ben rispecchia quello che da sempre, e
ancora oggi, è il mito della società americana: l’America è la terra
delle opportunità, della tenacia, la terra dove tutti possono aspirare al
successo. Tutto in America parla di questo, dalla statua della Libertà
4
A. Miller, La chiave accantonata, Garzanti, Milano 1993.
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che si scorge imponente appena ci si avvicina all’isola di Manhattan
alla biografia di Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati
Uniti negli anni dell’ascesa al successo di Disney. Biografia che vede
un uomo semplice e buon padre di famiglia, malato di poliomielite
diventare presidente. Parabola che celebra una delle più importanti
liturgie americane, quella dell’aspirazione al successo per tutti.
Numerosi risultano i film e le opere, numerose le storie che ci parlano
di menomazione, di malattia, di povertà estrema. Requisiti che
sembrano essere, paradossalmente, il veicolo ideale per innalzarsi ai
gradini più alti della scala sociale. Da Bill Clinton, povero orfano
figlio di un’infermiera, adottato in seguito da un alcolizzato, a John
Fitzgerald Kennedy, giovane minacciato da un oscuro male provocato
da una vicissitudine di guerra. Sostegni ortopedici appaiono nella
memorabile rivisitazione immaginaria dei miti dell’innocenza e del
successo che è il film Forrest Gump. Insomma, nell’immaginario
americano c’è tutto un corteo di eroi menomati che, attraverso le loro
sfortune, raccontano il leggendario tragitto dall’anonimato alla gloria.
Naturalmente, il logorante mito del successo a tutti i costi molto
spesso resta un sogno non trasformandosi in realtà, e allora vediamo
nascere gli alibi, gli ammortizzatori ai contraccolpi del mito. Le molte
storie catastrofiche a cui assistiamo in numerosissimi film americani
hanno proprio la funzione di ammortizzare il colpo, possono servire,
cioè, ad alleviare l’assillo del successo che tarda ad arrivare. Il
terremoto, la valanga, il vulcano irato sono vissuti come sanatoria ai
fallimenti dell’uomo, come alibi cosmico al non essere riusciti a
diventare “qualcuno”. Lo scampare a una catastrofe funge da antidoto
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ai veleni fabbricati dalla febbre del successo. Alla fine della tempesta i
superstiti si abbracceranno, non come trionfatori ma come riscopritori
del semplice gusto di vivere, di cui avevano perso il significato nella
folle corsa verso obiettivi alquanto improbabili. Riscopritore sarà,
assieme agli attori della tragedia con i quali si immedesima, anche lo
spettatore che si sentirà rassicurato. Una funzione illusionistica hanno
invece le saghe degli eroi vincenti, come Superman, Batman,
Spiderman. Essi incitano lo spettatore a immedesimarsi, infatti
l’attenzione ossessiva con cui mantengono segreta la propria identità
fa pensare che chiunque può essere un superuomo.
Al contrario, la figura dell’eroe perdente, del loser, serve a lenire le
bruciature lasciate dalla gara del successo, ha cioè una funzione
consolatoria. I cartoon sono affollati di eroi perdenti, uno fra tutti,
disneyano, è Paperino, il primo grande perdente nato nel 1934, in
un’epoca in cui si sente il bisogno di essere sollevati dall’abbattimento
morale e materiale che imperversa tra gli americani. Paperino è uno
spiantato perenne, sempre al verde, sempre alla ricerca di un lavoro
vero che non trova mai. Ma, allo stesso tempo, egli non è l’immagine
della disperazione, benché sia senza lavoro, continua a vivere nella
bianca casetta del sogno americano, con l’immancabile giardino, la
cassetta della posta, il garage e l’auto. Sempre un po’ sotto l’ombra
del suo più fortunato amico Topolino, Paperino fa simpatia perché è
imperfetto e svogliato ed è più facile immedesimarsi in lui e nelle sue
disavventure. Topolino rappresenta la virtù, l’ideale comportamento
conforme ai fermenti della società di Roosevelt.
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F. Dragosei, Lo squalo e il grattacielo, Il Mulino, Bologna 2002.