INTRODUZIONE
L’idea che sta alla base di questo lavoro è fiorita nella mia mente quasi per caso. Una sera, leggendo Emozioni, la
scienza del sentimento di Dylan Evans sono stato colpito dal seguente passaggio in cui l’autore racconta di una sua
esperienza personale:
“[…]Quando avevo quindici anni, alcuni miei amici mi invitarono a far parte della loro band punk rock.[…] Tim
mi disse quanto era contento che io fossi entrato nella band. Ricordo ancora benissimo l’intensa reazione che
quell’apprezzamento provocò in me: un’onda di calore che mi partiva dallo stomaco salì rapidamente ad
avvolgermi tutto il petto. Era una sorta di gioia, ma diversa da tutte le altre mai provate. Era la sensazione di essere
accettato, di appartenere a un gruppo di persone che mi stimavano e che ero fiero di considerare mie amiche. Per
un momento rimasi senza parole, colpito dalla novità della sensazione[…]”. (Evans, 2001, tr. it., p. 3)
Io stesso devo dire di essere stato preda di una simile emozione, ma non è questo il motivo che ha dato il via a
questo lavoro. Io ed Evans non siamo (ovviamente) i soli ad avere sperimentato questa particolare emozione. Ogni
fine settimana, milioni di tifosi di calcio e di fedeli praticanti sembrano sentire qualcosa di simile. Eppure, né in
inglese, né in italiano, né in nessun’altra lingua occidentale esiste un unico termine per descrivere questa sensazione,
per descriverla bisogna infatti ricorrere a un giro di parole, come fa Evans. Questa parola esiste, a quanto pare, in
Giappone. Il termine amae indica proprio quella sorta di “contentezza per la totale accettazione da parte di un altro”.
Ma perché non esiste nella nostra lingua un corrispondente di amae? Qualunque sia la ragione di questa particolare
differenza tra le lingue, essa non indica alcuna differenza fondamentale tra i popoli. In quanto parlante la mia lingua,
io non dispongo di un termine preciso per indicare l’emozione che provai, ma questo fatto non mi impedì di provarla.
I modi diversi in cui le varie lingue sezionano il mondo riflettono diverse esigenze culturali. Forse i giapponesi hanno
bisogno di una parola come amae perché l’emozione che essa descrive è in accordo con i valori fondamentali della
cultura del Giappone.
Se l’amae è virtualmente avvertita in tutto il mondo, ma non tutte le persone che la sentono hanno una parola per
descriverla, ciò non vale per tutte le emozioni. A quel che sembra, alcune di esse sono davvero specifiche di una
cultura. Per esempio, i Gururumba della Nuova Guinea avvertono un tipo di emozione che non sembra sperimentata
da gente di altre culture, traducendo dalla loro lingua la si potrebbe chiamare “essere un maiale selvatico”, perché
coloro che la avvertono si comportano come tali: si aggirano furibondi facendo man bassa di oggetti di poco valore e
aggredendo gli astanti.
Questi fatti mi hanno lasciato letteralmente sconcertato. Com’è possibile che alcuni gruppi di persone nel mondo
provino emozioni ad altre precluse? Perché, invece, emozioni che sono relativamente comuni a molte persone, come
l’amae, hanno una parola per indicarle soltanto nella lingua Giapponese e non in tutte? A cosa è dovuta tutta questa
variazione nel campo dell’emotività, se tutti gli esseri umani hanno lo stesso sistema nervoso, che, nei soggetti sani,
funziona nella stessa maniera in ogni parte del mondo?
2
Si potrebbe rispondere a tutte queste domande con una sola affermazione: cultura! Ed è, appunto, a come la cultura
plasma l’esperienza emotiva delle persone che è dedicato questo lavoro, il quale di certo non ha la pretesa di
apportare nuove conoscenze in un campo estremamente complesso come quello della psicologia culturale, ma anche
dell’antropologia, della sociologia, e della psicologia generale e sociale. L’intenzione è semplicemente quella di
illustrare un fatto estremamente interessante ed importante per le discipline sociali, ma che raramente viene affrontato
durante un normale percorso di studi, specialmente se triennale, e che per molto tempo è stato trascurato dai
ricercatori ma che ha ricevuto recentemente un grande interesse, con un notevole ampliamento degli studi in materia.
Per fare ciò è però necessario, prima, cercare di chiarire cosa siano le emozioni, partendo dai concetti generali su
cos’è un’emozione e come si manifesta, all’importanza della socializzazione; e cosa sia la cultura, cercando di dare
un’idea del peso che questa ha su tutto ciò che siamo o facciamo cercando di evidenziare non solo come la cultura sia
importante, ma anche perché lo è; questi saranno gli argomenti dei primi due capitoli, mentre l’ultimo sarà dedicato
all’analisi dei meccanismi attraverso cui la cultura forgia le emozioni: viene compiuta un’analisi della problematica
inerente gli aspetti universali e culturalmente specifici del fenomeno emotivo ed una panoramica delle principali
differenze inerenti le emozioni che possiamo riscontrare tra culture diverse.
3
Capitolo 1
INTRODUZIONE ALLE EMOZIONI
Le emozioni costituiscono una dimensione psicologica fondamentale degli esseri umani, che non solo
percepiscono, pensano, ricordano e comunicano gli eventi, ma anche li sentono. In molti modi, le emozioni sono una
parte centrale e focale del nostro mondo soggettivo. Nonostante ciò, descrivere che cosa sono non è per nulla
semplice e diretto. Sono, infatti, una realtà molto complessa e, in gran parte, ancora misteriosa, nonostante nel corso
dei millenni siano state esplorate da filosofi e letterati, e siano state studiate scientificamente a vari livelli (biologico,
soggettivo, relazionale, culturale), in particolare, sono diventate uno specifico ambito di studio empirico in psicologia
verso la fine dell’800.
La complessità delle emozioni dipende essenzialmente dal fatto che esse, allo stesso tempo, hanno profonde radici
neurobiologiche nel nostro organismo, sono un’esperienza soggettiva dotata di importanti significati in connessione
con i propri interessi e scopi, hanno una valenza sociale nelle relazioni con gli altri e sono definite dalla cultura di
appartenenza. Tutti questi aspetti interagiscono fra loro e s’influenzano a vicenda in modo profondo, con la
conseguenza che le emozioni costituiscono esperienze multiformi che attraversano e pervadono tutto il nostro
organismo in ogni suo aspetto. Una complessità talvolta così elevata che diventa difficile persino dare un nome alle
proprie esperienze emotive. D’altra parte, la vita umana senza emozioni sarebbe semplicemente inconcepibile e
inimmaginabile. Non soltanto perché diventeremmo dei robot meccanici e automatici, ma soprattutto perché le
possibilità della nostra sopravvivenza si ridurrebbero in modo significativo, come pure la qualità della nostra vita.
In generale le emozioni possono essere considerate come collezioni specifiche e coerenti di risposte fisiologiche
attivate da determinati sistemi nervosi, e codificate a livello cognitivo, nel momento in cui il soggetto si rende conto
(o si ricorda) di certi stimoli o situazioni per lui rilevanti e che vanno a toccare aree importanti dei suoi interessi. Esse
rappresentano quindi, una sintesi tra specifici programmi genetici e le esperienze culturali e soggettive compiute dal
soggetto.
La controversia a proposito delle similarità e differenze delle esperienze emozionali degli esseri umani nel mondo è
sicuramente basata sul disaccordo a proposito di come in primo luogo si possano definire le emozioni. Inoltre se è
possibile affermare che, dati certi stimoli si avranno determinate risposte emotive in tutti gli organismi, è altrettanto
lecito sostenere che esistono profonde variazioni negli antecedenti emotivi, nelle esperienze e nelle condotte emotive
in funzione sia della cultura d’appartenenza, sia della storia del soggetto. Accanto ad una classe di induttori emotivi di
natura biologica, ve ne sono numerosi altri che sono appresi dai modelli culturali e dall’esperienza personale.
Il termine “emozione” deriva da “emotus”, participio passato di “emovere” che, letteralmente, significa “muovere
da, allontanare”.
L’antica suddivisione di Platone della psiche umana in cognizione, emozione e conazione ha profondamente
influenzato tutti gli approcci scientifici allo studio della natura e del comportamento umano, tanto da non venire quasi
mai messa in discussione. Il problema della supremazia della cognizione sulle emozioni, o viceversa, presenta forti
4
implicazioni per la concezione scientifica della natura umana, ed è stato oggetto di eterni dibattiti in filosofia,
psicologia e nelle scienze sociali.
5
Capitolo 2
CHE COS’È UN’EMOZIONE?
Le emozioni non sono accadimenti casuali che “ci cadono addosso”, ma sono parte di una storia con diversi
protagonisti e vicissitudini (Anolli 2002h).
A differenza dei riflessi, geneticamente determinati, condivisi in modo uniforme e universale, con un decorso
immediato (meno di 500 msec) e involontario, le emozioni, pur prevedendo meccanismi automatici di risposta,
costituiscono fenomeni complessi, in parte controllabili e regolabili, attraverso cui il soggetto si pone in relazione con
l’ambiente. Le emozioni , diversamente dai riflessi, comportano un aumento rilevante dei gradi di libertà del
soggetto di fronte all’ambiente (interno o esterno), poiché sono caratterizzate da un processo di “sconnessione”
(decoupling) e di mediazione fra stimolo e risposta.
Sul piano storico lo studio psicologico delle emozioni prende avvio dal celebre contributo di James (1884) “What is
an emotion?”, in cui definisce l’emozione come il sentire (to feel) i cambiamenti neurovegetativi che hanno luogo a
livello viscerale a seguito di uno stimolo elicitante. Pertanto “non tremiamo perché abbiamo paure, ma abbiamo
paura perché tremiamo. Questa definizione costituisce il cuore della cosiddetta teoria periferica (o teoria del
feedback) secondo cui alla base dell’emozione vi è un meccanismo retroattivo dalla periferia dell’organismo al
sistema nervoso centrale. In particolare, l’evento emotigeno determina in modo immediato una serie di risposte
neurovegetative che sono sentite dal soggetto; tale sentire (feeling) è alla base dell’esperienza emotiva.. James
propone una spiegazione biologica dell’emozione, ponendo in evidenza l’importanza fondamentale dell’attivazione
fisiologica (arousal) dell’organismo per poter definire come “emozione” un dato processo psichico. Egli inoltre
sostiene che ad ogni emozione corrisponde una distinta configurazione di meccanismi del sistema nervoso. Ogni
emozione sarebbe attivata, quindi, da uno specifico programma nervoso.
In qualche modo, sembrava che i componenti chiave del sistema nervoso autonomo, i sistemi simpatici e
parasimpatici, fossero semplicemente accesi o spenti. Cannon (1927) pensò che un sistema così semplice non
potesse provvedere alla complessità di coprire la vasta serie di emozioni che si prova. In contrapposizione alla teoria
periferica ha proposto la teoria centrale delle emozioni, secondo cui i centri di attivazione, di controllo e di
regolazione dei processi emotivi sono localizzati centralmente nella regione talamica del cervello, poiché i segnali
nervosi da essa provenienti sarebbero sufficienti sia a indurre le manifestazioni espressivo-motorie delle emozioni,
sia a determinare le loro componenti soggettive mediante le connessioni con la corteccia cerebrale. In particolare
Cannon ha sostenuto, a diversità da James, che tutte le emozioni presentano la medesima configurazione di
variazioni psicofisiologiche.
In seguito MacLean (1949) ha avanzato l’ipotesi del sistema limbico, comprendente l’ipotalamo, l’amigdala, i
nuclei del setto, il grigio cingolato, l’ippocampo, porzioni della corteccia fronto-orbitaria e dei gangli della base. Di
recente LeDoux (1996; 2002) ha approfondito l’analisi delle funzioni emotive svolte dall’amigdala, intesa come
interfaccia emotiva dell’organismo in grado di interagire e d’intervenire con tutti gli altri sistemi e processi nervosi
(dal talamo sensoriale all’ippocampo alle varie aree della corteccia sensoriale e multimodale). Sia la teoria periferica
6