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Un uomo entra in un punto vendita dell’azienda X con un pneumatico d’automobile
difettoso, per il quale pretende la sostituzione o l’indennizzo. Il commesso, dopo un
attimo di esitazione, accetta il reclamo e restituisce al tizio la somma spesa.
In verità qualcuno potrebbe anche dire “nulla di nuovo sotto al sole”, potendo
essere il precedente aneddoto inquadrato nel tradizionale motto “il cliente ha
sempre ragione”. Il concetto di fondo è infatti lo stesso (sia pure con qualche
piccola importante modifica, come si vedrà in seguito); quello che sta cambiando
è la sempre più diffusa consapevolezza nelle aziende che le sole buone intenzioni
non bastano; ma è richiesto un forte impegno a tutti i livelli organizzativi. Il
personale direttamente a contatto con i clienti viene istruito con degli skill
specifici, ogni funzione e processo dell’azienda è modificato per enfatizzare
l’orientamento al cliente e i dirigenti promuovono questa cultura attraverso un
apposito training. Infine l’azienda deve essere in grado di raccogliere, nel
quotidiano contatto con i clienti, indicazioni utili per il perfezionamento dei
nuovi prodotti e di quelli esistenti.
Nelle aziende che si sforzano di diventare “cliente-centriche” circolano con
sempre maggiore insistenza strane espressioni e acronimi come one-to-one
marketing, personalization, customer churn, lifetime potential value, customer
relationship management (CRM), market-basket analysis, cross-selling, target
marketing…
Tutto sembrerebbe normale, se non fosse
per il fatto che l’azienda X non opera
affatto nel settore dei pneumatici.
Nonostante cio’ il commesso viene
addirittura premiato, perche’ ha applicato
il principio base per cui un cliente
accontentato e’ un cliente che ritorna.
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Non è difficile ipotizzare che la maggior parte delle aziende non sappia molto
della propria clientela. Anche le società più avanzate nel percorso che porta ad
ottenere un’utile familiarità con il cliente si stanno ancora sforzando di capire
cosa fare della marea di informazioni che vanno raccogliendo sulla propria
clientela. Si danno da fare per capire chi è il cliente, cosa vuole, quando, come e
perché lo vuole: interrogativi fondamentali a cui tutte le aziende dovrebbero
cercare di dare una risposta.
Gran parte delle aziende oggi ha abbracciato la missione di diventare più
customer centered. L’attenzione si va spostando dalle transazioni, dai processi,
dai prodotti e dai canali all’origine ultima della redditività immediata e di lungo
termine: il cliente. Questo mutamento è indotto dall’intensificarsi della
concorrenza, dalla deregulation, dalla globalizzazione e dalla saturazione dei
segmenti di mercato. Ultimo elemento, ma solo in ordine temporale - non già di
importanza - è Internet, che offrendo una enorme quantità di scelte on line,
aumenta le aspettative del cliente. La differenziazione dei prodotti si va
erodendo. La concorrenza è a distanza di un solo clic, e i costi che il cliente
affronta per cambiare fornitore sono di norma trascurabili.
Le aziende trovano sempre più difficile differenziarsi in base ai fattori che erano
prevalenti negli anni Ottanta — qualità del prodotto, operazioni, logistica e
processi aziendali. La qualità di molti prodotti è migliorata, molte aziende hanno
snellito le supply chain e le catene di distribuzione, e le società hanno beneficiato
delle diffuse ristrutturazioni dei processi aziendali degli anni Ottanta e Novanta.
In questo ambiente nuovo e spietato è diventato indispensabile trovare nuovi
modi per attirare clienti, per massimizzare il valore di ciascuno di quelli esistenti,
e per conservare i più remunerativi. Numerosi studi mostrano che è più facile e
fino a sei volte meno costoso vendere a un cliente esistente che procurarsene uno
nuovo. Ma questo è possibile solo:
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- Conoscendo i clienti meglio della concorrenza, non solo sapendo chi sono e che
cosa hanno acquistato, ma anche comprendendo che cosa vogliono in un
determinato momento.
- Sfruttando questa conoscenza per creare la migliore interazione possibile con il
cliente (informata, personalizzata e approfondita, ma non intrusiva) e poi
aumentare la soddisfazione del cliente.
- Costruendo la relazione con il cliente in modo che il passaggio di questi a un
concorrente abbia costi elevati.
Per realizzare quanto sopra è necessario raccogliere e analizzare tutte le
informazioni disponibili che si riferiscono al cliente. Questo permetterà di
valutarne la redditività, oltre che le sue aspettative e preferenze. Con questa
conoscenza sarà possibile quindi determinare il valore di fedeltà continua del
cliente per l’organizzazione. Si noti che per capire il valore in questione bisogna
guardare non solo indietro nel tempo ma anche in avanti, e cercare di prevederne
il potenziale futuro.
Una volta compreso il valore di fedeltà continua del cliente, sarà possibile
definire e mettere in atto le iniziative necessarie a concretizzare quel valore.
Questa raccolta e analisi di informazioni, e le azioni risultanti basate sulla intima
comprensione del cliente, rientrano in quella che si potrebbe definire customer
intelligence. La customer intelligence permetterà, in definitiva, di fornire alla
clientela il miglior servizio e di stabilire con essa la migliore interazione.
Uno studio condotto nel marzo 2000 dalla società di analisi Meta Group riporta
statistiche che mostrano che l’azienda ha ancora molta strada da fare per
risolvere quello sfaccettato enigma che è il cliente. Nell’inchiesta della Meta
Group su 800 dirigenti business e IT, l’83% ha risposto “no” alla domanda
fondamentale “La vostra azienda sa chi sono i suoi clienti?”
1
; il 67% riteneva
inoltre che la propria azienda non stesse usando efficacemente i dati sui clienti
per conoscerli meglio.
1
Sondaggio Meta Group, riportato in Information Week, 1 maggio 2000.
5
Ma gli sforzi in questa direzione si stanno intensificando - il 56% degli
intervistati dalla Meta Group collocava il miglioramento della conoscenza dei
clienti tra le prime tre priorità delle proprie aziende.
Appare quindi evidente come il fattore informazione, che sempre più nel mondo
della intangibilità, del servizio e della relazione si sta rivelando un fattore chiave
nell’acquisizione di un vantaggio competitivo, sia alla base del concetto di CRM:
non si può pensare di gestire una relazione di lungo termine con il cliente
(massimizzandone il valore) se prima non lo si conosce.
È per questo motivo che all’informazione - ed al modo in cui viene generata e
gestita all’interno delle organizzazioni - viene dedicato il primo capitolo di
questo lavoro, dove vengono ovviamente sottolineate le informazioni che portano
ad una maggiore conoscenza del cliente, fonte ultima della redditività di
un’impresa.
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I - DAI DATI ALL’INFORMAZIONE
“Non basta avere una buona mente:
l’importante è usarla bene.”
(Renates Descartes)
1.1 - Il valore delle informazioni
Le aziende stanno evolvendo da dittature dell’informazione a democrazie
dell’informazione. Questo cambiamento nella filosofia dei dati è stimolato dalla
presa di coscienza che nel sistema informativo di un’organizzazione ogni singola
informazione ha valore. È opportuna però una puntualizzazione al riguardo: il
valore non deriva dal dato in sè quanto dal modo in cui l’azienda se ne avvale per
condurre il proprio business.
Gran parte dei prodotti ricchi di proprietà intellettuale vedono aumentare il loro
valore con la frequenza dell’uso. Il valore di una canzone, per esempio, sta nel
numero di volte che viene eseguita. Allo stesso modo il valore di un libro sta in
quante volte viene letto. Per i dati avviene più o meno la stessa cosa: il loro
valore non è tanto nel possederli, quanto nel farne un buon uso. Il valore si
accresce con il numero di utenti, in quanto ciascun individuo non solo ne trae
valore personale, ma può scambiare con altri le conoscenze di cui è venuto in
possesso.
C’è addirittura chi ha tentato di individuare una formula che potesse essere usata
per calcolare il valore dell’informazione. Bernard Liautaud (CEO e cofondatore
della Business Objects) propone (in linea con le considerazioni precedentemente
fatte) una funzione del numero di utenti che possono accedere all’informazione
in questione e analizzarla e del numero di aree a cui questi utenti appartengono:
Valore (informazione) = f [ ( N.Utenti)
2
x N. Aree di Business ]
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Il valore dell’informazione crescerebbe quindi con il quadrato del numero di
utenti che hanno accesso all’informazione stessa, moltiplicato per il numero delle
aree di business in cui questi utenti lavorano. L’uso del quadrato del numero di
utenti come indicatore del valore segue la legge di Metcalfe delle reti.
2
Lo stesso effetto rete si verifica con il valore di un determinato insieme di dati:
via via che una stessa informazione è condivisa da un numero crescente di
persone, queste comunicano meglio tra di loro, prendono decisioni migliori.
All’effetto dei nuovi utenti si aggiunge quello dovuto alle nuove aree di business
che possono accedere online ad una informazione precedentemente detenuta
esclusivamente da un’altra area: il valore dell’informazione compie un balzo
improvviso (espresso da una funzione a gradini) e all’interno dell’organizzazione
viene creata nuova conoscenza. Se ad esempio 100 venditori esaminano la stessa
informazione sulle vendite, la formula ci dà un valore pari a 10.000 (cioè 100
2
:
c’è una sola area di business). Se un nuovo utente dell’area vendite accede a
quella stessa informazione, il valore di quest’ultima cresce di circa il 2%,
passando a 10.201. Ma se ai 100 dell’area vendite si aggiunge un utente dell’area
marketing, l’effetto sul valore dell’informazione sarà significativamente diverso.
L’utente del marketing potrà incrociare i dati sulle vendite con le competenze di
marketing e ottenere conoscenze completamente nuove. Il valore si ripercuoterà
su tutti i venditori, permettendo loro una più ampia comprensione
dell’informazione. La formula indica che il valore è più che raddoppiato: da
10.000 a 20.402 ( = 101
2
x 2). La figura (fig.1) illustra l’andamento del valore
per una singola informazione e individua cinque diverse zone attraverso le quali
questo aumenta progressivamente:
2
Bob Metcalfe, noto anche come inventore di Ethernet, studiò una formula per calcolare il valore di una rete e
concluse che esso varia con il quadrato del numero di unità connesse. Infatti quanto più è elevato il numero dei
nodi tra loro connessi, tanto maggiore è il numero di interazioni possibili e di conseguenza il valore potenziale
di questi elementi interconnessi cresce in misura esponenziale. Questa formula è stata ampiamente accolta nel
settore delle reti e delle telecomunicazioni.
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• zona di passività dei dati
• zona di prima redditività dell’informazione
• zona dell’impresa intelligente
• zona dell’impresa estesa
• zona di commercializzazione dell’informazione
Passivita’
dei dati
Prima redditivita’
dell’informazione
Attraversamento dei
confini
Allargamento di attivita’
Commercializzazione
dell’informazione
All’interno dell’impresa All’esterno dell’impresa
Valore
Uso
Fig.1: La curva del valore dell’informazione. Fonte: Liautaud B. (2001), “e-
Business Intelligence: Turning information into knowledge into profit”,
McGraw-Hill.
Nella zona di passività i dati sono soltanto un costo. I dati lasciati a “prendere
polvere”, oltre a non essere di alcuna utilità possono anche avere un impatto
negativo sull’economia dell’impresa, divenendo una passività anzichè essere una
risorsa. Hanno infatti bisogno di hardware per essere immagazzinati, software per
essere gestiti, di uno staff di IT che se ne occupi… ma alla fine nessuno li usa. In
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questo caso è evidente come il costo di gestione dei dati sia maggiore del valore
dell’informazione reale o potenziale. Finchè i dati non sono messi nelle mani
degli utenti e questi ultimi non sono messi nella condizione di utilizzarli
profittevolmente, il valore dei dati non compensa il costo del loro mantenimento.
Nel modello precedentemente proposto questa situazione è stata individuata
come la zona di passività dei dati. Il numero degli utenti è limitato allo staff IT, i
cui membri interagiscono con i dati al solo scopo di manutenzione. In questo
caso la spesa per archiviare e mantenere i dati è superiore all’utile derivante dalle
informazioni, il che implica un impatto finanziario negativo. Per esempio i dati
sulle diverse attività di vendita sono spesso riportati in diversi fogli elettronici
distribuiti tra i vari venditori, e vengono in seguito consolidati in un grande
computer - perciò non vanno perduti. Il formato però non facilita la condivisione
o l’analisi, e quindi non vengono utilizzati.
C’è addirittura una stima dell’IBM che parla di circa un 10% di dati posseduti
dalle imprese che viene effettivamente utilizzato; il che vuol dire che il rimanente
90% rappresenta esclusivamente un costo. È una statistica che può fare spavento,
ma che non meno lascia spazio all’ottimismo: significa infatti che vaste riserve di
dati attendono di essere impiegate per generare valore per l’impresa.
Il primo passo per trasformare i dati da passività in risorse è quello di renderli
accessibili agli utenti business del settore cui i dati appartengono: realizzare cioè
una business intelligence dipartimentale. È ad esempio il caso in cui lo staff delle
risorse umane viene messo in condizione di accedere ai dati sugli stipendi, sui
vari criteri di remunerazione (per settore, divisione, paese, classe di età…). O
ancora: agli addetti alle vendite viene fornito l’accesso alle informazioni
contenute in una applicazione di SFA (Sales Force Automation); possono sapere
quale interazione hanno avuto con un dato cliente in passato e possono conoscere
la storia delle vendite. Ma non possono ad esempio sapere quante volte il cliente
si è rivolto al centro assistenza tecnica perchè questa informazione fa parte di un
altro sistema che supporta un’altra divisione dell’azienda. Questo è un classico
10
esempio di visione incompleta del cliente, che richiederebbe invece l’incrocio di
informazioni provenienti da fonti diverse.
Comunque anche la sola condivisione delle informazioni all’interno della stessa
area di business serve a creare valore: man mano che cresce il numero di utenti
che possono accedervi i benefici superano i costi della gestione, ed il valore
complessivo diventa positivo. La curva si fa più ripida con l’aumentare del
numero di utenti che riescono ad accedere ai dati e ad utilizzarli per una migliore
gestione delle loro attività.
Come secondo passo c’è la condivisione dei dati di un reparto con altri reparti o
divisioni. I benefici sono immediati perchè il sistema è aperto a utenti business
che possono esaminare i dati da diversi punti di vista. Si consideri ad esempio un
sistema di automazione della forza vendita e un centro assistenza clienti:
rendendo disponibili le informazioni del centro assistenza clienti alla forza
vendita, i venditori possono controllare la situazione di un cliente e la sua
soddisfazione prima di prendere effettivamente contatto con lui. Se ad esempio
sono giunte molte lagnanze dal cliente, probabilmente non è il momento migliore
per discutere con lui di nuovi acquisti su larga scala, ma potrebbe esserlo per
porgli delle domande sul livello del servizio che sta ricevendo e per sollecitare
indicazioni su come migliorarlo. In maniera analoga mettendo a disposizione dei
tecnici dell’assistenza ai clienti i dati del reparto vendite i primi potranno, di
fronte alla richiesta di un cliente, rendersi conto della sua importanza. Il tecnico
può ad esempio sapere qual è l’entità degli acquisti che il cliente ha fatto
nell’ultimo anno e se è in atto con lui una transazione significativa. È evidente
come l’accesso di nuovi utenti ai dati faccia crescere i benefici in maniera
esponenziale, poichè ci sono più persone che lavorano in modo più efficiente.
Questo guadagno di valore può essere ripetuto più volte aprendo il sistema ad
altri dipartimenti. Ogni volta che una nuova classe di utenti può interagire e
scambiare dati al di là del proprio ambito specifico, il valore delle informazioni
fa un balzo in avanti. Alla fine si arriva ad una condizione di democrazia
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dell’informazione in cui, attraverso una comunicazione aperta e la volontà di
condividere i dati, la conoscenza diventa collettiva.
Nel loro libro Net Ready, Amir Hartman e John Sifonis raccontano come la Cisco
sia diventata un’azienda leader nell’e-business e indicano nella cultura della
condivisione delle informazioni uno degli ingredienti chiave del loro successo:
“…oggi quella cultura contribuisce a un primato di gestione della conoscenza,
che a sua volta sostiene un eccezionale livello di realizzazione del prodotto…”.
Le imprese possono trarre ancora maggior valore dalle informazioni
scambiandole con soggetti esterni: clienti, fornitori e partner. Si realizza
l’impresa estesa.
Istituendo una extranet per i clienti ad esempio, un’impresa può fornire alla sua
clientela informazioni storiche sulle vendite: questo metterà i clienti nella
condizione di poter disporre di informazioni sempre aggiornate su ciò che
acquistano, sullo stato del loro conto… In molti casi infatti aggregare questo tipo
di informazioni è più facile per un fornitore che per l’acquirente. L’azienda può
anche condividere dati sull’assistenza clienti, così che questi possano vedere
online la situazione delle loro richieste di assistenza, delle questioni tecniche e
delle soluzioni relative.
La prima fase dell’estensione dell’accesso ai dati ad un soggetto esterno alle
mura dell’organizzazione (un fornitore, un cliente o un partner) apporta un
immediato valore aggiunto a quelle informazioni. Anche in questo caso più sono
i soggetti che entrano nel programma e hanno accesso ai dati, più netta è la
crescita del valore dei dati stessi. Negli ultimi tempi si sta anche assistendo ad
alcune imprese che cominciano anche a sfruttare finanziariamente questo valore.
Posto che siano utili per clienti o fornitori, i dati possono essere immessi a
pagamento sul mercato, trasformando per questa via il data warehouse in un vero
e proprio centro di profitto. Queste extranet comunque sono destinate
principalmente a migliorare i rapporti tra l’azienda e i clienti esistenti (o quelli
nuovi) nello stesso settore di attività. Ad esempio la Harley Davidson offre
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informazioni ai suoi rivenditori in tutti gli Stati Uniti tramite un’extranet
intelligente.
Usando l’e-business intelligence le aziende possono guardare al di là dei loro
modelli tradizionali di attività ed identificare dati che possono essere
commerciati e venduti a insiemi di fruitori totalmente nuovi: si entra nella
commercializzazione dell’informazione. Ad esempio le informazioni sulle
vendite di un’azienda possono essere vendute a nuovi clienti. Se si riferiscono ad
acquisti online da parte di consumatori, le informazioni sulle vendite possono
essere aggregate, rese anonime e quindi vendute a società di ricerche di
marketing che hanno bisogno di dati per fissare i target delle loro campagne
(concentrare i dati aggregandoli per gruppi di clienti è necessario per non
incappare in violazioni della privacy).
Lo scenario attuale già offre svariati esempi di aziende che hanno cominciato a
generare profitti creando rapporti con classi di clienti completamente nuove,
sfruttando economicamente le informazioni in loro possesso: vendita a
commercianti di dati riguardanti le transazioni con le carte di credito; vendita a
fabbriche di automobili di informazioni sul leasing…