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riconducibili, nella sostanza, alla logica della tassazione del reddito
normale, determinato in funzione del tipo, della localizzazione e di
altre caratteristiche delle attività esercitate. Ne è seguita, pertanto,
l’emanazione di una serie di disposizioni di significativa valenza
innovativa rispetto alla disciplina dell’accertamento analitico-
contabile, quali la legge Visentini ter, i coefficienti di congruità, i
coefficienti presuntivi di reddito, la minimum tax e, da ultimo, i
parametri. Trattasi di strumenti rudimentali che hanno dimostrato
una certa approssimazione, anche perché non sono riusciti a cogliere
pienamente l’infinita diversificazione del modo in cui si svolge
l’attività produttiva nel nostro Paese.
Tale processo evolutivo delle procedure accertative, riassunto
nel primo capitolo, culmina con l’introduzione nel nostro sistema
fiscale degli studi di settore.
Nel secondo capitolo si analizzeranno in dettaglio gli studi di
settore nel contesto del sistema fiscale italiano specificando, nella
sostanza: che cosa sono; quali sono le loro funzioni e i loro obiettivi;
nei confronti di quali contribuenti esplicano la loro efficacia; quali
sono le metodologie che vengono adottate nella costruzione degli
stessi e quali sono i soggetti che partecipano alla loro elaborazione.
Con gli studi di settore si è data una svolta al sistema poiché
essi sono molto più evoluti e raffinati rispetto agli altri strumenti di
accertamento presuntivo che li hanno preceduti. Consentono di
determinare, senza troppa opinabilità, quel livello di ricavi e di
compensi che con maggiore probabilità può essere attribuito al
singolo contribuente, in quanto sono realizzati rilevando, per ogni
singola attività economica cui si riferiscono, le relazioni esistenti tra le
variabili contabili che discendono dai bilanci e quelle strutturali,
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extracontabili, sia interne che esterne l’azienda. Il tutto tenuto conto
anche delle caratteristiche dell’area territoriale in cui ciascuna attività
d’impresa o professionale è posta in essere.
Anzi, viene persino eliminato ogni elemento di incertezza
statistica dal momento che gli studi di settore sono stati elaborati
sulla base non di indagini a campione, bensì sulla scorta dei dati
forniti dai contribuenti stessi in risposta ai questionari inviati loro
dall’Amministrazione finanziaria. La collaborazione dei contribuenti,
sia singolarmente sia attraverso le rispettive organizzazioni
rappresentative di categoria, si è rivelata, infatti, essenziale in tutte
le fasi di costruzione degli studi di settore. Una collaborazione attiva,
continua e ripetuta che prosegue nel tempo all’interno degli
Osservatori provinciali e della Commissione di esperti. Questi sono
organismi tecnici che, assicurando un monitoraggio sistematico dello
strumento e cercando di individuare anomalie e situazioni particolari
proprie di specifiche aree geografiche, consentono la manutenzione e
la revisione degli studi di settore nel tempo, in funzione del mutato
scenario economico.
Dall’analisi condotta risulta come gli studi, oltre ad essere un
efficace supporto all’attività di accertamento posta in essere dal Fisco,
sono anche lo strumento principale ai fini dell’emersione dei redditi
non dichiarati e, quindi, un valido sistema idoneo ad eliminare la
sperequazione tributaria all’interno di ciascuna categoria di
contribuenti.
Non discutibile risulta la validità della metodologia alla base
degli studi di settore nel circostanziare la posizione fiscale effettiva di
piccole imprese e professionisti, l’accertamento dei cui redditi è stato
da sempre uno degli aspetti più delicati dell’attività
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dell’Amministrazione finanziaria. Ma è altrettanto d’obbligo, tuttavia,
affermare che gli studi di settore vanno ancora consolidati,
perfezionati ed affinati al fine di aumentarne l’efficacia e di rendere il
risultato derivante dall’applicazione degli stessi ancora più attendibile
e, quindi, accettabile.
Quanto più la sofisticata metodologia su cui poggiano gli studi
di settore sarà articolata e ben elaborata, infatti, tanto più gli stessi
diventeranno affidabili e verosimilmente idonei a rappresentare
l’effettiva capacità reddituale dei singoli contribuenti.
Il terzo capitolo sposta poi l’analisi su un piano differente,
quello delle esperienze straniere di utilizzo degli strumenti di
rideterminazione extracontabile del reddito.
Verrà fatta una descrizione dettagliata dei sistemi che utilizzano
questi strumenti, delle loro caratteristiche intrinseche, della loro
funzione e delle motivazioni che hanno portato all’adozione di tali
modelli. L’analisi sarà fatta in ottica comparata attraverso una
descrizione delle caratteristiche che accomunano o differenziano i
diversi modelli adottati dai differenti Paesi e non attraverso dei
semplici country profile che descriverebbero il sistema in modo
meccanico e non sarebbero utili per uno studio comparato.
Infine si giungerà al cuore del lavoro, contenuto nel quarto, ed
ultimo, capitolo. Qua sarà possibile capire se c’è stata e in che ottica
una circolazione del modello attraverso i diversi sistemi che ha
permesso di raggiungere i livelli di evoluzione che oggi essi
presentano.
Attraverso questa analisi di tipo comparato si arriverà alla
conclusione che rappresenta lo scopo di tutto il lavoro.
PARTE I
LA DISCIPLINA ITALIANA
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CAPITOLO I
L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA FISCALE E DELL’ACCERTAMENTO
INDUTTIVO
SOMMARIO:
1.1 – Reddito effettivo e reddito normale; 1.2 – La “Visentini ter” e gli sviluppi della
politica fiscale; 1.3 – I coefficienti presuntivi e di congruità; 1.3.1 – La parentesi
della minimum tax; 1.4 – I parametri presuntivi di ricavi o compensi; 1.4.1 – Il
superamento dei parametri: gli studi di settore; 1.5 – Dagli strumenti di
dissuasione agli strumenti di persuasione; 1.6 – Gli studi di settore tra aspettative e
difficoltà; 1.7 – Le novità della legge Finanziaria 2005.
1.1 Reddito effettivo e reddito normale
Il persistere di un elevato livello di evasione, nell’ambito di
alcune categorie economiche, insieme alle sempre maggiori esigenze
di gettito finalizzate a fronteggiare un’aumentata spesa pubblica,
notoriamente caratterizzata da un alto indice di rigidità, hanno
indotto il legislatore tributario ad individuare nuove metodologie
d’accertamento.
Constatate le difficoltà obiettive di applicazione del metodo
d’accertamento analitico-contabile, con riferimento a determinate
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categorie di contribuenti, si è progressivamente resa opportuna la
creazione di sistemi di determinazione del reddito che fossero capaci
di contemperare le esigenze di certezza del gettito con il preminente
principio di equità. Il tutto tenendo ben presente l’obiettivo di fondo
della politica fiscale che doveva pur sempre rimanere l’elaborazione di
metodologie le quali consentissero di tassare il reddito più prossimo a
quello economico-aziendale.
Con il passare del tempo prendeva sempre più corpo, quindi,
l’idea einaudiana di introdurre un’imposta sul reddito normale,
estendendone il campo di applicazione oltre quello dei redditi fondiari,
ai quali, nella sostanza, era stata confinata dalla riforma tributaria
degli anni ‘70. Non intendo entrare più di tanto nel merito del
dilemma tra reddito effettivo e reddito normale, un dibattito che ha
contraddistinto tutto il processo di evoluzione dei metodi di
accertamento e che, ancora oggi, vede contrapposti giuristi da un lato
ed economisti dall’altro, senza che sia stato trovato ancora un punto
d’incontro. Ritengo, tuttavia, che vada precisato come, ai fini della
tassazione del reddito effettivo sia in sede di accertamento che di
determinazione del reddito stesso, anche nei Paesi economicamente
più evoluti si faccia frequentemente ricorso a presunzioni esterne ed a
valutazioni soggettive le quali, nonostante tutto, altro non sono se
non forme di normalizzazione1.
Tradizionalmente il reddito effettivo viene identificato con quello
contabile risultante dal bilancio di esercizio. Quest’ultimo, tuttavia,
configura, un reddito in qualche misura “convenzionale”, frutto di
numerose semplificazioni contabili e di importanti presunzioni; un
1
LECCISOTTI (a cura di), Per un’imposta sul reddito normale, Il Mulino, Bologna, 1990, pag.
4.
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reddito che si fonda su valori nella maggior parte dei casi forfetizzati
per ragioni di politica fiscale e, quindi, non sempre pienamente
aderenti alla realtà economica. Il richiamo è, oltre che al principio di
annualità adottato dal Fisco di fronte ad un andamento invece
variabile nel tempo dei fatti e del ciclo economico delle singole
attività, anche, e soprattutto, alle numerosissime voci di bilancio che
implicano il ricorso a stime, più o meno arbitrarie, da parte dei
contabili. La determinazione del valore di ammortamento dei beni
impiegati nel processo produttivo, la cui utilità non si esaurisce in un
singolo esercizio come pure la valutazione delle scorte di magazzino e
dei crediti inesigibili, tanto per citare gli esempi più eclatanti, sovente
danno luogo ad importanti forme di normalizzazione del reddito. Ne
deriva, come inevitabile conseguenza, che non esiste un reddito
effettivo risultante dal bilancio, ma che esiste un reddito che è quello
convenzionale nel rispetto di criteri standard2.
Tra l’altro una tassazione rigidamente vincolata ai ricavi ed ai
costi effettivi può favorire, con particolare riferimento alle piccole e
medie imprese, l’occultamento di ricavi o compensi ed il formarsi di
zoccoli duri d’evasione. L’adozione di indici ed elementi strutturali,
nonché il ricorso ad accertamenti basati su presunzioni esterne può
risultare, quindi, un valido aiuto per superare i vincoli imposti da
un’ordinata formale tenuta delle scritture contabili e, ancora, per
individuare una più idonea misura di reddito.
2
Si veda a riguardo EINAUDI, Miti e paradossi della giustizia tributaria, terza ed., Einaudi,
Torino, 1959, pag. 185 laddove chiarisce che “la cifra del saldo a pareggio al 31 dicembre
non dimostra, col fatto della sua stessa presenza di essere ‘vero’ reddito. È un numero che
pareggia i conti. Nient’altro”.