5
INTRODUZIONE
6
Questo mio elaborato vuole essere una testimonianza di una
delle esperienze più significative della mia vita nonché l’esempio
di come la convivenza fra persone di diverse fedi sia possibile
oltre che necessaria. In riferimento alla mia esperienza parlerò dei
missionari del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) che ho
avuto la fortuna di incontrare e che mi hanno dato la possibilità di
partecipare ad un cammino di due anni che ha avuto come apice
l’esperienza missionaria in Bangladesh. Il fatto che questo sia un
paese a maggioranza musulmana mi ha dato anche l’opportunità
di sperimentare in prima persona il tema centrale di questo
scritto: la convivenza fra cristiani e musulmani e il dialogo
interreligioso. Questa tematica da sempre ha suscitato il mio
interesse e attualmente sono impegnato in prima persona in
quanto, come disse Papa Paolo VI, il dialogo interreligioso non
deve coinvolgere solo teologi o guide spirituali delle varie
comunità religiose ma “tutte le persone di buona volontà”.
Nel primo capitolo parlerò della storia del Bengala a partire
dalla dominazione inglese, procedendo con la narrazione dei
conflitti coloniali che portarono alla partizione dell’area in India e
Pakistan, suddiviso in Occidentale e Orientale, e la difficile
condizione di quest’ultimo che, a seguito di una guerra di
liberazione, darà i natali all’attuale stato del Bangladesh.
Concluderò il capitolo con il passaggio da Stato laico a Stato
islamico. In questa mia narrazione presenterò il comportamento
tenuto dai missionari del PIME in questo paese durante gli anni
più difficili della sua storia e mostrando come abbiano aiutato la
popolazione ad affrontare le difficoltà derivanti dall’essere
coinvolti in una serie di conflitti e lotte interne prima, e nella
ricostruzione poi. La loro attività ha creato le basi per un dialogo
con la maggioranza musulmana del paese in quanto la conoscenza
7
dell'altro è il primo passo per abbattere i pregiudizi e le
discriminazioni. È l’ignoranza, infatti, la madre di ogni diffidenza.
Nel secondo capitolo porterò degli esempi fra i più
significativi delle missioni del PIME nel paese: l’impegno
educativo, la presentazione della “Novara Technical School”,
l’impegno sanitario, in particolar modo nella cura della tubercolosi
e della lebbra, le cooperative di credito, con il loro effetto diretto e
indiretto sulla popolazione. Ho potuto assistere direttamente al
lavoro dei padri nel paese e sono stato particolarmente colpito
dalla loro forza e totale dedizione alla causa di cui sono portatori.
Essi sono stati e resteranno per sempre un esempio da seguire
per me.
Il terzo capitolo è quello centrale del mio elaborato.
Partendo dall’inevitabilità del dialogo interreligioso, proseguendo
con l’inizio dell’impegno da parte cristiana in merito e finendo con
alcuni esempi concreti, mostrerò le vie del dialogo cercando di
convincere il lettore che si può effettivamente arrivare ad una
convivenza e di come questa possa migliorare gli individui e la
società tutta. Nel mondo attuale è impossibile fare a meno di
relazionarsi con persone aventi un credo differente dal nostro sia
per la globalizzazione, sia per i flussi migratori che hanno creato
una società multiculturale e caratterizzata dalla presenza di
molteplici fedi.
Nel quarto ed ultimo capitolo porterò la mia esperienza
personale in tema di dialogo interreligioso, descrivendo la serie di
incontri a cui ho partecipato a Milano insieme a persone di altre
fedi. Durante questi incontri abbiamo ascoltato delle
testimonianze di personalità del mondo ebraico, cristiano e
musulmano. Queste sono state il punto di partenza per la
riflessione personale e la condivisione di gruppo. Abbiamo inoltre
analizzato dei passi dei Testi Sacri delle tre grandi religioni
8
monoteistiche cercando dei punti in comune su tematiche quali la
creazione dell’uomo e l’amore verso il prossimo. Questa serie di
incontri è stato solo l’inizio di un cammino più lungo che spero
possa continuare. Sicuramente mi impegnerò affinché ciò
avvenga.
9
CAPITOLO PRIMO
STORIA DEL BENGALA
E DEI
MISSIONARI DEL PIME
10
Nel mio cuore non c’è odio per nessuno…
Noi amiamo l’uomo,
Non alzate la mano contro l’uomo,
Non nutrite nel vostro cuore sentimenti di vendetta.
Il nostro paese non deve nascere nel sangue.
Tutti coloro che sono sul suolo bengalese noi li consideriamo
bengalesi!
Mujibur Rahman
1
Con queste parole il “padre della Patria” Mujibur Rahman si
rivolge al suo popolo nel 1971, in seguito alla liberazione e alla
proclamazione del Bangladesh a stato indipendente. Parole che
chiedono perdono, e non vendetta, verso coloro che per anni
hanno oppresso il popolo bengalese. La storia di questo paese è
stata sempre caratterizzata da episodi di violenza e da profonde
discriminazioni, e per comprenderla fino in fondo è quindi
necessario risalire all’epoca in cui gli inglesi dominavano il
territorio bengalese. E’ da qui che parte la mia ricerca storica che
non si limiterà solo ad una mera narrazione del contesto politico
che ha caratterizzato il Bengala a partire dal XIX secolo, ma
cercherà anche di capire in che modo i missionari del PIME
abbiano affrontato gli anni più difficili della travagliata lotta del
popolo bengalese nel tentativo di ottenere l’indipendenza e di
come siano riusciti ad alleviare la sofferenza dei più deboli. Ancora
oggi il loro impegno, così come la loro totale abnegazione alla
missione, rappresentano un fondamentale supporto per la
popolazione, sopperendo alle carenze delle istituzioni in ogni
1
P. Gheddo, Missione Bengala, EMI, Bologna, 2010, p. 334null335
11
campo della società (scolastico, sanitario, lavorativo, comunitario,
ecc. ).
1.1. La dominazione inglese
Il primo passo verso la dominazione dell’India da parte
inglese si ebbe con il conferimento da parte della Regina
Elisabetta I d’Inghilterra del monopolio commerciale dell’Oceano
Indiano alle Compagnie delle Indie Orientali nel 1600
2
. Quello
verso la trasformazione in colonia fu l’approvazione, nel 1784,
dell’Indian Act: tale provvedimento legislativo dava ai governatori
generali della Compagnia la facoltà di agire in nome del governo
di Londra
3
. Sin dall’anno successivo questi iniziarono la conquista
della quasi totalità del territorio indiano, potendo contare
soprattutto su un esercito moderno a propria disposizione. Fu il
Government of India Act del 1858 a trasformare l’India in una
vera e propria colonia britannica con la creazione in patria di un
Ministero dell’India, e la decisione di imporre Calcutta come
capitale della nuova colonia
4
. Nel 1877 la regina Vittoria fu
incoronata Imperatrice delle Indie. Gli inglesi cominciarono così a
varare leggi e provvedimenti atte a modernizzare il paese. Vi
furono miglioramenti nelle infrastrutture, nelle comunicazioni,
nelle scuole, negli ospedali e nelle strutture amministrative.
Inoltre stabilirono la libertà religiosa e la politica scolastica del
governo inglese, favorendo la nascita di scuole private e
sostenendole finanziariamente. Si può affermare, in conclusione,
2
B. D. Metacalf, T. R. Metacalf, Storia dell’India, Mondadori, Milano, 2007, p.
43
3
M. Torri, Storia dell’India, Laterza, Roma, 2000, p. 355
4
Ivi, p. 435
12
che la politica coloniale abbia di fatto ammodernato il paese,
nonostante lo sfruttamento incondizionato delle sue risorse.
Il lungo regno della Regina Vittoria fu caratterizzato
dall’ideologia del progresso, frutto di un periodo di eccezionale
crescita economica. Questo sviluppo materiale contribuì a creare,
a livello sociale, l’immagine di una società caratterizzata da un
progresso rettilineo, cumulativo e irreversibile. L’idea del
progresso divenne la modalità primaria di interpretazione e
comprensione della realtà sociale. Ma, per governare, gli inglesi
avevano anche bisogno di conoscere la società indiana. Alcuni
antropologi seguivano perciò i militari e i missionari. Le loro
ricerche avevano finalità di ordine strategico (registrare i
territori), economico (valutare le risorse da sfruttare) e politico
(controllare le popolazioni per rafforzare il dominio)
5
.
E’ in questo contesto che la Chiesa di Roma si preoccupò di
mandare nuovi missionari in India. Il PIME (Pontificio Istituto
Missioni Estere) accettò nel 1854 la volontà di Roma, là dove altri
istituti l’avevano rifiutata per le difficoltà ambientali e culturali.
Infatti, a quel tempo, il Bengala era conosciuto dagli Europei come
la “tomba dell’uomo bianco”, non solo a causa del clima
costantemente caldo umido, ma anche perché caratterizzato da
un popolo poverissimo e in maggioranza musulmano, nel quale
sembrava impossibile realizzare con successo un apostolato
diretto
6
.
5
U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Zanichelli, Bologna, 2001, pp.16null18
6
Ivi, p 12
13
Per quanto riguarda le difficoltà iniziali, Padre Rusconi
7
analizza gli scarsi risultati delle prime missioni nel diffondere la
parola del Vangelo, cercando di darne una spiegazione: “Una
mancata preparazione e conoscenza scientifica da parte dei nostri
del patrimonio culturale e religioso indiano e musulmano; una
incipiente propaganda nazionalista, che sfocerà nel movimento
ghandista; una certa dose di complesso di superiorità nelle alte
caste; la divisione, la confusione, la guerriglia alle volte crudele
tra le diverse denominazioni cristiane”
8
.
Vorrei ora soffermarmi ed analizzare, anche attraverso
l’ausilio dell’antropologia culturale, due aspetti relativi alle
difficoltà iniziali evidenziate da Padre Rusconi: la mancanza di una
conoscenza della cultura e della religione indiana e il complesso di
superiorità nelle alte caste.
Rispetto alla scarsa o inesistente conoscenza della cultura e
della religione del posto vorrei ricorrere al particolarismo storico,
l’oggetto del quale è rappresentato dallo studio e dalla conoscenza
delle culture nella loro singolarità. Secondo tale approccio, ogni
cultura deve essere studiata nella sua particolarità e storicità per
essere compresa fino in fondo. Inoltre, secondo il funzionalismo,
paradigma epistemologico che si afferma in Inghilterra tra le due
guerre mondiali, questa è rappresentata da elementi
7
Padre Angelo Rusconi è missionario del PIME. Licenziato in Teologia spirituale
al «Teresianum» di Roma, giornalista pubblicista, ha operato in Bangladesh
dal 1968 al 1978. È stato redattore del settore ecumenismo e dialogo
interreligioso della rivista «Mondo e Missione», collaborando all'edizione
inglese del «Messaggero di Sant'Antonio». Ha pubblicato con Domenico Pezzini
il libro di meditazioni sul vangelo di Marco Il tuo volto io cerco contemplando
le icone. Attualmente lavora nel campo della formazione, con corsi all'estero.
8
Ivi, p. 48
14
interdipendenti che concorrono al funzionamento della società. E’
necessario quindi studiare un popolo nella sua complessità e in
ogni sfera del sociale per poterlo comprendere. Risultava quindi
essenziale per i missionari conoscere fino in fondo la cultura del
popolo bengalese, così come lo era per i colonizzatori inglesi. A tal
proposito Warren Hastings, governatore del Bengala dal 1772 e
poi governatore generale nel 1773, era convinto che per
governare con più efficienza l’India, fosse necessario conoscere la
cultura e le lingue del paese. Egli fondò, nel 1784, L’Asiatic
Society del Bengala, dedita allo studio della cultura e delle lingue
indiane. La sua fondazione è ritenuta come l’inizio della tradizione
degli studi orientalisti degli europei. Questi pensavano che
l’essenza della civiltà indiana fosse da individuare in un passato
lontano. La riscoperta e, per certi versi, la reinvenzione di un
lontano passato, anteriore al periodo dell’ingresso dell’Islam in
India, permetteva loro di legittimare implicitamente la conquista
britannica. I britannici, infatti, erano indubbiamente dei
conquistatori, ma se era vero che l’India autentica era quella
preislamica, ne derivava che la conquista britannica si era svolta
prevalentemente ai danni di altri conquistatori, cioè dei
musulmani. In questo modo i britannici potevano porsi nella
posizione di protettori dei “veri” indiani
9
.
Ma che cosa significa cultura? La cultura, o civiltà, intesa nel
suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che
include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il
costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo
come membro della società
10
. Sono comprensibili i motivi
differenti che hanno spinto i colonizzatori e i missionari a cercare
9
Ivi, pp. 377null378
10
P. Rossi, Il concetto di cultura, Einaudi, Torino, 1970, p. 7
15
di comprendere la cultura del popolo del Bengala. Mentre i primi lo
facevano per cercare di controllare meglio la popolazione, i
secondi lo facevano per cercare il modo migliore di convertirli. Ma
questo avvenne solo inizialmente, in quanto presto cambiarono gli
obiettivi dei padri: rafforzare la fede, ma anche la vita sociale ed
economica dei cristiani, e non solo, per renderli cittadini istruiti,
maturi, convinti
11
. Le attività principali della missione includevano,
infatti, la scuola e l’assistenza sanitaria. Padri, fratelli e suore non
si risparmiavano nel loro lavoro, suscitando l’ammirazione e la
riconoscenza della gente più umile. Una scelta fatta dai primi
missionari, nel tentativo di avvicinarsi al popolo e cercare di
alleviare le enormi differenze tra di loro, è sintetizzata in una
lettera a Padre Marinoni
12
del 1857, in cui si legge che i padri
“Vorrebbero anche tentare, forti dell’esperienza decennale, il
metodo di non presentarsi come europei. Il vestire e il vivere da
europei crea molte difficoltà e allontana più che avvicinare il
nativo. Qui bisogna essere, parlare, vestire, ecc. da nativi. Guai se
si vuole europeizzare!” In pratica, i missionari dovrebbero vestire
come i rispettabili nativi, cambiando “la veste talare bianca che
portiamo col il longhi, non usare cappello ma piuttosto il
turbante”
13
. Anche in questo caso viene spontaneo il riferimento
11
M. Zambon, Passione per un popolo, EMI, Bologna, 2005, p. 25
12
Mons. Giuseppe Marinoni è una personalità di spicco del secolo XIX. Nato a
Milano nel 1810, si sentì portato quasi istintivamente al sacerdozio. Dopo gli
studi in collegi e seminari, ricevette l'ordinazione presbiterale nel 1834
dall'arcivescovo di Milano, card. Gaisruck. Attraversò un periodo d'incertezza
"vocazionale" e andò a Roma in cerca di comunità religiose che rispondessero
alle aspirazioni per una vita più contemplativa.Fallito ogni tentativo, si mise
sotto la direzione di S. Vincenzo Pallotti, che sembrava intenzionato a fondare
un istituto per le missioni estere. Rientrato a Milano per rimettersi in salute, gli
venne richiesto di assumere la direzione del nascente Seminario Lombardo per
le Missioni Estere (futuro Pontificio Istituto Missioni Estere), eretto dai vescovi
lombardi. Marinoni svolse questo incarico per 41 anni, fino alla morte. Fu lui a
plasmare l'Istituto secondo il carisma originario accompagnando i missionari in
formazione e sul campo.
13
Gheddo, Missione Bengala, cit. p. 42