3
partendo proprio da come, in base alle mie esperienze, alla mia formazione scolastica, ho osservato
chi osserva. Fin da adesso, però sento, con sincerità, di affermare i rischi della mia ricerca, rischi
basati su dei dati ben precisi che affondano le loro radici nello studio fatto da Robert F. Bales, nel
1951.Nell’opera intitolata”Interaction Process Analysis”
2
, frutto di un lavoro iniziato circa
vent’anni prima all’Università di Harvard, l’autore, studiando quella che è la dinamica della
interazione, prende in considerazione i “metodi dell’osservazione”
3
, all’interno dei quali una
sezione è dedicata appositamente all’addestramento degli osservatori, che devono, quindi, prima
di iniziare il loro lavoro essere preparati. L’addestramento degli osservatori fu preso con grande
serietà e fu analizzato con massima cura sebbene, mentre da una parte si davano regole molto
precise e dall’altra si scoraggiavano eccessivi razionalismi, fu sollevato il problema
dell’attendibilità e della ripetibilità dell’osservazione. Tre erano gli errori possibili:
- errori di “unitarizzazione”, cioè nella distinzione dei singoli atti.
- errori di “categorizzazione”, cioè nella designazione degli atti a certe categorie.
- errori di “attribuzione”, cioè nella designazione dell’originatore e del recettore di un atto.
E’ con questi tipi di errori che anche io ho dovuto fare i conti, ma la consapevolezza dell’intrinseca
possibilità di sbaglio non mi ha certo fermato, anzi mi ha dato spunto per utilizzare maggiore
attenzione e soprattutto maggior desiderio di porre in discussione, lasciare almeno aperta una
qualche diversa possibile interpretazione delle varie conclusioni a cui, in generale, ognuno di noi
arriva al termine di un processo di ricerca.
Tutto, quindi, nasce dalla osservazione.
Poniamo che abbia in mente di passare un week-end in campagna e che il tempo sia incerto.
Potrei dire: ”sono ottimista”per quanto riguarda il tempo.
2
Bales F. R., Interaction Process Analysis, Reading, Mass., Addison-Wesley 1951.
3
Il punto di partenza di Bales è l’asserzione che tutte le osservazioni empiriche possono essere descritte sotto
due voci: azione, che comprende anche l’interazione, e situazione, in cui si svolge l’azione. Qualsiasi
generalizzazione deve identificare sia l’azione concreta, sia la situazione dell’azione, quale sia il suo oggetto:
personalità, sistema sociale o cultura. Il compito dell’osservatore è quello di registrare l’atto o, più
propriamente, la singola interazione. Ecco allora che da questo punto di vista la personalità è trattata non
come un’unità irriducibile, ma come una serie di segmenti ognuno dei quali è in azione in un dato momento.
Il termine “attore” non deve quindi essere considerato come sinonimo di individuo, ma esclusivamente come
punto di riferimento adottato per l’analisi di un atto in particolare. “Questo autore o attore sta dietro all’atto
palese, persiste attraverso di esso, e unisce l’atto presente agli atti passati e a quelli futuri, ma tuttavia non è
identico all’io visto come oggetto dell’attore stesso.” (Ibidem, p. 43).
Ciò sta ad affermare che le condizioni dell’osservatore non contemplano l’intero background dell’attore, ma
lo considerano semplicemente come oggetto che si comporta in un certo modo in un data situazione.
L’analisi è strettamente limitata al comportamento e prende in esame soltanto ciò che può esser visto o
dedotto direttamente dagli indizi comportamentistici mentre l’attore è sotto osservazione. Ne consegue che
tutto ciò che sta al di fuori dell’attore, compresa quella parte di esso che non può essere osservata, costituisce
la situazione. In ogni fase dell’analisi tutto ciò che deve essere registrato riguarda o l’attore o la situazione.
4
Ma se mio figlio è gravemente malato tanto che la sua vita è in bilico, dire: ”sono ottimista”,
suonerebbe strano ad orecchie sensibili, perché, in un simile contesto l’espressione avrebbe
perlomeno un qualche cosa di freddo e di distaccato.
Cosa potrei allora pronunciare?
“Sono convinto che mio figlio sopravviverà” - neppure, poiché in quelle circostanze la mia
convinzione non ha alcuna base realistica.
La migliore potrebbe allora essere
“Ho fede che mio figlio sopravviverà.”
Nell’usare la parola fede esprimo un elemento molto importante, che caratterizza quella mia
espressione, esprimo il desiderio ardente ed intenso che mio figlio viva e, conseguentemente, ogni
sforzo da me possibile per ottenere la sua guarigione.
Non sono distaccato, un semplice osservatore passivo, separato da mio figlio come quando uso
l’espressione “sono ottimista”. Sono, al contrario, parte della situazione che osservo; sono
impegnato; il mio bambino, sul quale io “Soggetto” faccio un pronostico, non è “Oggetto”, la mia
fede è radicata nel mio rapporto col figlio, è un misto di conoscenza e di partecipazione, a patto,
però che sia una fede “razionale” e non un’illusione basata sui nostri desideri, e, quindi,
”irrazionale”.
Ciò che conta, dunque, non è tanto l’essere “Ottimista”, forma alienata di fede, o, ”Pessimista”,
forma alienata di disperazione. Il semplice dichiarasi in una maniera piuttosto che un altra è
illusorio e, ancor più grave, implica un assurdo e “criminale” atto di rinuncia a districarsi da quella
che sembra essere una fatale ragnatela di circostanze create dall’uomo.
Ecco allora che quello contro cui bisogna combattere è l’ipocrita e subdola indifferenza dell’uomo.
Questo si cela tristemente dietro la complessa e fitta serie di circostanze che caratterizzano un
determinato fatto.
Questo è l’atteggiamento che la maggioranza dimostra dichiarando passivamente la propria “fede”
o meno nei riguardi di ogni genere di atto criminale, nei riguardi della natura umana in generale e
della distruttività in particolare.
Di fronte ad atti di atroce aggressività e violenza è troppo facile dire: ”L’uomo è sempre stato
assassino”; ”Il desiderio di sfruttare il prossimo fa parte della natura umana”; ”E’ insito nell’uomo
aggredire”.
Sono tutte espressioni incomplete, che trascurano determinati fatti, scoraggiano, confondono, come
ogni non verità. La diffusione che si è creata della disperazione (“La natura umana è cattiva”) non è
5
realistica, ma, ancor di più, come ho già sostenuto sopra, è distruttiva di per sé, è causa stessa della
nostra falsa “disperazione”.
Il porsi passivamente, a prescindere dal proprio ottimismo o meno, nei riguardi di crimini
caratterizzati soprattutto da alte forme di violenza, è un vile atteggiamento di rinuncia nei
confronti di se stessi, un voler sentirsi meglio, un voler essere “normali”, non voler essere
etichettati “diversi”, non voler accettare cambiamenti profondi non solo nella nostra struttura
politica ed economica, ma anche e principalmente nel nostro concetto di obiettivi umani, nella
nostra condotta personale.
Ecco allora, in base a quanto appena affermato, anche la frase di Schopenhauer acquista un
significato diverso, e, letta sotto un’altra chiave interpretativa, quella da me espressa, è difficile da
confutare.
E’ un pensiero elevato, con il quale non si può non essere d’accordo, a meno che…
…non si prendano in esame fatti reali…a meno che…non si abbia il coraggio di ammettere la
nostra natura e di immettersi in essa…
I.II Comprendere l’essere umano: la sua natura alla base dello studio
di ogni forma di crimine
Per la maggior parte dei pensatori, a cominciare dai filosofo greci, era autoevidente l’esistenza di
un qualche cosa chiamato natura umana, qualche cosa che costituisce l’essenza dell’uomo. Non vi
erano dubbi di alcun genere circa il fatto che esistesse un qualche cosa in virtù del quale l’uomo è
uomo, differenze riguardavano circa i vari tipi di elementi che caratterizzassero questo “quid
pluris.” Gia’ ma cosa fosse realmente non si sa, tanto che fu proprio l’approccio storico all’uomo
che mise in discussione tale opinione: Come può considerarsi alla stessa maniera l’uomo della
nostra epoca con quello degli stadi precedenti? Successivamente è stato l’abuso di questo astratto
concetto, usato spesso come paravento dietro al quale si commettono gli atti più inumani, a cercare
di negare il presupposto di una natura umana fissa. In nome di questa natura, infatti, Aristotele e la
maggior parte dei pensatori fino al diciottesimo secolo hanno difeso la schiavitù, e lasciando da
parte i filosofi, a livello popolare, si parla cinicamente di tale “natura umana” per accettare
l’inevitabilità di comportamenti umani indesiderabili come l’avidità, la menzogna, l’inganno e
perfino l’omicidio. Anche il pensiero evoluzionistico, una volta che, appunto, riuscì ad inquadrare
6
l’uomo nel processo di evoluzione, mise in crisi il concetto stesso di natura umana e l’idea
consequenziale di una sostanza contenuta nella sua essenza.
Lasciando da parte una analisi specifica dello studio fatto da Darwin ne ”L’origine dell’uomo”
4
, ma
senza dimenticare il progresso del suo pensiero che si trova riflesso in uno dei più eminenti
ricercatori contemporanei quale G. G. Simpson (“L’uomo ha degli attributi che lo
contraddistinguono dagli animali. Il suo posto nella natura e la suprema importanza non sono
definiti dalla sua animalità ma dalla sua umanità.”)
5
, il tentativo di definire la natura umana nei
termini delle condizioni specifiche, biologiche e mentali, della specie ha portato Erich Fromm alla
conclusione circa la stessa e ad una sua qualche possibile definizione.
Sebbene egli scarti quella parte del pensiero evolutivo che fa risalire l’uomo ad un determinato
evento (la fabbricazione di utensili, per esempio, secondo la definizione data da Benjamin Franklin
dell’uomo come “Homo faber”, uomo costruttore) egli, per arrivare a un concetto della natura
umana, considera tutto il processo evolutivo, non limitandosi alla considerazione di singoli aspetti
isolati, sostenendo, in conclusione, che bisogna arrivare a capire tale concetto “sulla base della
fusione delle due fondamentali condizioni biologiche che caratterizzano la comparsa dell’uomo.
Una di esse fu che gli istinti determinano sempre meno il comportamento, l’altra è la crescita del
cervello, particolarmente del “neocortex.”
6
Questa combinazione di determinazione istintiva minima e di massimo sviluppo celebrale,
secondo Fromm, non si era mai verificata prima nell’evoluzione animale, e costituisce un fenomeno
completamente nuovo, arrivando così a definire l’uomo “come il primate che emerse in quella fase
dell’evoluzione in cui la determinazione istintiva scese al minimo e lo sviluppo del cervello
raggiunse il massimo.”
Ecco allora che è alla luce di tale definizione, il cervello controbilancia il deficit istintivo, ma il
cervello è debole e si lascia influenzare, ma da cosa?
4
Darwin C., The Descent of Man, Watts, Londra, 1946; I ed. 1872 (trad. Italiana: L’origine dell’uomo,
Editori Riuniti, Roma 1966). Si veda inoltre The Origin of Species and the Descent of Man, Modern Library,
New York 1936 (trad. italiana: L’Origine della specie, Boringhieri, Torino 1967).
5
Simpson G. G., Tempo and Mode in Evolution, Columbia Univ. Press, New York 1944.
6
“Ogni neurone della corteccia cerebrale è avviluppato da un groviglio di fibre molto sottili, di grande
complessità, alcune delle quali giungono da parti molto remote. Probabilmente è esatto dire che la
maggioranza dei neuroni corticali è direttamente o indirettamente connessa con ogni campo corticale. Questa
è la base anatomica dei processi corticali associativi. L’interconnessione di queste fibre associative forma un
meccanismo anatomico che permette, durante una serie di associazioni corticali, parecchie combinazioni
funzionali differenti di neuroni corticali, che superano di gran lunga qualsiasi cifra mai proposta dagli
astronomi nel misurare le distanze delle stelle…E’ la capacità di fare questo tipo di combinazione e ri-
combinazione degli elementi nervosi che determina il valore pratico del sistema…” (Da Herrick C. J., Brains
of Rats and Man, Univ. of Chicago Press, Chicago 1928.)
7
E’ a questa domanda che Fromm tenta di dare una interpretazione differente dal semplice modo di
pensare l’uomo avente una “intelligenza strumentale”, cioè un uomo condizionato dalle proprie
esigenze e quindi tutto dedito alla manipolazione degli oggetti legati a particolari desideri o
passioni.
Egli considera un aspetto nuovo del pensiero umano, una sua nuova qualità, la “coscienza di sé!”
L’uomo è l’unico animale che non solo conosca gli oggetti ma sappia di sapere.
E’ l’unico animale che, oltre all’intelligenza strumentale abbia la ragione, la capacità di usare il suo
pensiero per capire oggettivamente, cioè per conoscere la natura delle cose come sono di per sé, e
non solo come strumenti per la propria soddisfazione.
Dotato della ragione e della autocoscienza l’uomo è consapevole di se stesso come essere distinto
dalla natura e dagli altri; è consapevole della propria impotenza, della propria ignoranza, della
propria fine; è consapevole cioè della morte.
Ecco allora che l’uomo è anomalia, un capriccio dell’universo; essendo consapevole di se stesso, si
rende conto della sua impotenza, dei limiti della sua esistenza;
tale dicotomia non lo abbandona mai e la contraddizione umana sfocia in uno stato di squilibrio
costante.
La natura umana, quindi, non può essere definita in termini di qualità specifiche quali amore e
odio, bene e male, ma soltanto secondo le contraddizioni che caratterizzano l’esistenza umana.
Il conflitto esistenziale produce certe esigenze psichiche comuni ad ogni uomo, costretto a superare
l’orrore dell’isolamento, dell’impotenza, dello smarrimento, trovare nuove strade per entrare in
contatto con il mondo e per sentirsi a casa. Tali esigenze psichiche sono radicate nelle condizioni
stesse dell’esistenza umana, condivise da tutti, senza alcun tipo di distinzione.
Tutti i dati che l’uomo possiede, come quelli ancora da scoprire, non potranno mai rilevare la
natura della mente se non si possiede la chiave per decifrarli, chiave che non può essere altro che la
nostra stessa mente. Il problema è come utilizzare tale chiave, cioè se riusciamo a trascendere il
nostro normale schema mentale e trasferirci in quello dell’uomo originario, nella mente dell’uomo
oggetto della nostra ricerca. Quel che Fromm propone è di usare non solo il passato per capire il
presente, il nostro inconscio, ma anche di usare l’inconscio come chiave per capire la storia.
Ciò, però, richiede la pratica della conoscenza di sé in senso psicoanalitico: ”rimuovere gran parte
della nostra resistenza a prendere consapevolezza del nostro inconscio, facilitando così la
penetrazione della nostra mente cosciente nelle profondità del nostro nucleo.”
7
7
Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondatori Editore, 1975, p. 290.
8
Se ne saremo capaci, conclude, riusciremo a capire chi vive nella nostra cultura, ma anche individui
di culture diverse e persino i “pazzi”, o perlomeno chi è considerato tale.
“La coscienza di sé e la capacità di previsione, tuttavia, portarono i tremendi doni della libertà e
della responsabilità.
L’uomo si sente libero di dar esecuzione a certi suoi progetti e di lasciarne altri in disparte;
prova la gioia di esserne padrone, anziché schiavo, del mondo e di se stesso; ma la gioia è
temperata dal senso di responsabilità; sa che deve rendere conto dei suoi atti:
ha acquistato la conoscenza del bene e del male.
Questo è un carico terribilmente pesante da portare; nessun altro animale deve fare fronte a niente
di simile.
Vi è un tragico conflitto nell’anima dell’uomo;
e, fra le imperfezioni della natura umana, questa è molto più grave dei travagli del parto.”
(T. Dobzhansky, 1962)
8
Ecco allora che, solo alla luce di tali osservazioni, di tale approccio psicoanalitico alla comprensione
dell’aggressione, si può arrivare a superare la dicotomia pericolosa tra istintivismo e
comportamentismo.
Secondo la prima corrente di pensiero, il cui più alto esponente fu Konrad Lorenz,
9
il
comportamento aggressivo dell’uomo, quale si manifesta nelle guerre, nel crimine, nelle liti
personali e in tutte le modalità distruttive e sadiche, deriva da un istinto innato, programmato
filogeneticamente, che non aspetta altro che l’occasione propizia per esprimersi.
Se l’uomo è aggressivo l’unico responsabile è la natura ed allora tale teoria è facile farla diventare
un’ ideologia che aiuta a sopire la paura per ciò che comunque dovrà accadere e a razionalizzare il
senso di impotenza.
8
Dobzhansky T., Mankind Evolving: The evolution of Human Species, Yale Univ. Press, New Haven 1962
(trad. Italiana: L’evoluzione della specie umana, Einaudi, Torino 1965).
9
Si veda Lorenz K., Das sognante Bose. Zur Naturgeschichte der Aggression, Vienna 1963, (trad. italiana :
Il cosiddetto male, Il Saggiatore, Milano 1969.)
9
Opposta a tale schieramento vi è il comportamentismo di B. F. Skinner,
10
che si occupa e prende in
considerazione solo il modo di comportarsi dell’uomo e il condizionamento sociale che plasma il
suo comportamento. Diversamente dall’istintivismo, tale teoria non si interessa delle forze
soggettive che spingono l’uomo ad agire in un certo modo, affermando che il loro metodo è
“scientifico”, occupandosi di ciò che è visibile, del comportamento manifesto.
Due padri ciascuno con una diversa struttura caratteriale, picchiano i rispettivi figli, convinti che
tale punizione sia necessaria per un loro sano sviluppo. Siamo di fronte allo stesso
comportamento, i due padri si comportano in maniera identica, schiaffeggiando i loro figli.
Se, però si mettono a confronto le modalità di tali comportamenti, essi risultano solo
apparentemente uguali, ma profondamente diversi, caratterizzati da come tengono i figli, da come
gli parlano dopo la punizione, dalle loro espressioni, e, ancor più importante, varia la reazione dei
bambini che possono percepire il comportamento come puramente distruttivo, sadico, oppure, in
fondo, giusto, non avendo modo di dubitare dell’amore del padre.
Ecco quindi che secondo tale teoria è il comportamento fine a se stesso ad essere protagonista;
è il comportamento, e non l’uomo che adotta questo comportamento, che diviene l’argomento
centrale di tutta questa scuola di pensiero degli anni Venti.
Superata tale alternativa, si può quindi affermare che distruttività e crudeltà umana non sono
pulsioni istintuali, ma passioni radicate nell’esistenza complessiva dell’uomo.
Tali passioni sono ciò che permette di distinguere l’aggressione benigna, biologicamente adattiva,
reattiva e difensiva, caratterizzata dalla reazione a minacce contro interessi vitali, dall’aggressione
maligna, biologicamente non adattiva, spontanea e non reattiva, in quanto non è al servizio della
sopravvivenza dell’uomo e della specie.
Mentre la prima è comune ad animali e uomini, la seconda è quella che caratterizza l’essere umano;
l’uomo è assassino, è l’unico primate che uccida e torturi membri della propria specie senza
motivo, nè biologico nè economico, traendone profonda soddisfazione.
Tale distinzione permette di eliminare alcune confusioni circa il generale concetto di aggressione,
inteso quale atto che causa o intende causare danni ad un’altra persona animale o oggetto
inanimato. La parte maligna dell’aggressione umana non è innata e può essere sradicata, pur
ammettendo che essa è un potenziale umano e non soltanto una schema acquisito di
comportamento, che, come tale, sparisce rapidamente non appena ne vengano introdotti di nuovi.
Sebbene non siano direttamente al servizio della sopravvivenza fisica, le passioni sono altrettanto
forti, ancor più degli istinti; costituiscono l’interesse che l’uomo ha per la vita, la sua voglia di
10
Skinner B. F., Science and Human Behavior, Macmillan, New York 1953.
10
essere attivo, di non essere mero oggetto ma di essere, al contrario, ricercatore, di essere alla ricerca
del dramma, dell’eccitante, e, se non riesce ad ottenere una soddisfazione superiore crea per se
stesso il dramma della distruzione.
Ecco allora smantellato l’assioma riduzionistico secondo il quale la motivazione può essere intesa
soltanto se serve ad un bisogno organico, legata strettamente e solamente agli istinti, le passioni
umane devono essere considerate all’interno della loro funzione rispetto a quella che è la natura
umana, come ho dimostrato, essere intesa da Fromm. L’intensità di tali passioni, quindi, non
dipende da bisogni fisiologici specifici, ma dalla necessità di sopravvivenza dell’intero organismo,
dalla sua esigenza di crescere sia fisicamente che mentalmente, cercando quindi di dare un senso
alla propria vita, trascendendo le pure e semplici esigenze di sussistenza.
Con questo non voglio certo affermare che crudeltà e distruttività non siano maligne, che siano
quindi giustificate, ma che il vizio è umano ed è un “malvagio” paradosso con il quale bisogna fare
i conti: ”la vita che si rivolta conto se stessa nel tentativo di darsi un senso.”
11
Capirle non significa perdonarle, me se non le capiamo non abbiamo modo di scoprire come
limitarle e quali fattori tendono ad accrescerle.
11
Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondatori Editore 1975, p. 27.
11
“Questo studio tenta di chiarire la natura della passione necrofila e le condizioni sociali che tendono a
incoraggiarla.
La conclusione sarà che un rimedio in senso lato potrà prodursi soltanto attraverso cambiamenti radicali
nella nostra struttura politica e sociale, tali da reintegrare l’uomo nel suo ruolo supremo all’interno della
società.
Il moto ‘legge e ordine’ (piuttosto che vita e struttura), la richiesta di punizioni più severe contro i criminali,
come l’ossessione per la violenza e la distruzione che caratterizzano certi ‘rivoluzionari’, sono soltanto
ulteriori esempi della potente attrazione che la necrofilia esercita sul mondo contemporaneo.
Abbiamo bisogno di creare le condizioni adatte perché la crescita dell’uomo, quanto essere imperfetto,
incompleto – unico nella sua natura – diventi l’obiettivo supremo di tutti gli ordinamenti sociali.
La libertà genuina, l’indipendenza, la fine di ogni forma di controllo e di sfruttamento sono le premesse
indispensabili per mobilitare l’amore per la vita, l’unica forza che possa sconfiggere l’amore per la morte.”
Erick F., 1973
12
CAPITOLO II
Evoluzione del pensiero criminologico nel suo approccio verso
lo studio del reato in generale e del terrorismo in particolare
“Nonostante un uomo abbia combattuto battaglie per mille volte contro mille uomini, se lui vince se stesso è
il più grande dei combattenti.”
Des Cartes
La riflessione sul crimine e sulla reazione sociale nei confronti del reato rappresenta un aspetto
fondamentale della cultura dell’uomo, che, fin dall’inizio della sua storia ha elaborato all’interno di
sistemi religiosi, filosofici e mitologici, concezioni ed interpretazioni in qualche modo anticipatrici
le sistematiche elaborazioni della criminologia.
Le scienze criminologiche hanno sempre avuto l’esigenza di classificare, selezionare: suddividere
la delinquenza e i delinquenti in differenti categorie.
L’orientamento classificatorio cerca di trovare un compromesso tra coloro che sostengono che
esiste fondamentalmente un’unica causa della delinquenza e coloro che affermano che ogni delitto
costituisce una realtà estremamente specifica, irripetibile, individuale: entrambi questi
orientamenti ritengono, per ragioni opposte, che le classificazioni non siano opportune ed utili per
lo studio della criminalità.
Una delle più importanti discussioni che si sono avute in criminologia riguarda la possibilità di
definire, di delineare, tracciare un confine, una linea netta di demarcazione tra chi è delinquente e
chi non lo è.
In tale ambito ha assunto notevole rilievo la criminologia clinica, iniziata con l’opera di cesare
Lombroso (1835-1909), medico e psichiatra, che sotto l’influenza del pensiero di Darwin (una
citazione sarà sufficiente a dimostrare quanto stretto fosse il loro legame: “Nel caso del genere
umano” - scrisse Darwin nel 1874 nel ‘The Descent of Man and Selection in Relation to sex’ –
“alcune delle disposizioni peggiori che occasionalmente, e senza una causa apparente, fanno la loro
comparsa nelle famiglie, possono essere considerate, forse, come reversioni ad uno stato selvaggio,
13
dal quale non stati rimossi dalle molte generazioni trascorse. Questo punto di vista sembra
riconosciuto, in effetti, nella espressione comune che questi casi sono le pecore nere della
famiglia.”), identificò un gran numero di “stigmate”, quali l’asimmetria facciale, alcune anomalie
delle orecchie, la fronte bassa, gli zigomi sporgenti, le mascelle enormi, l’insensibilità al dolore, ecc,
tipiche del “delinquente nato”. Egli tentò di verificare le sue ipotesi mediante l’osservazione di
innumerevoli casi clinici, la raccolta puntigliosa ed inesauribile di reperti collegati con il mondo del
crimine (quali disegni, tatuaggi, manufatti, ecc.), l’analitica descrizione di comportamenti e di
situazioni particolari. Lombroso ritenne di aver trovato una spiegazione decisiva delle cause della
delinquenza allorquando, nel corso dell’autopsia dl brigante Vitella, scoprì alla base del cranio una
fossetta occipitale mediana, tipica degli stadi embrionali e degli animali inferiori: ”alla vista di
quella fossetta - egli afferma - mi apparve d ‘un tratto come una larga pianura sotto un infinito
orizzonte, illuminato il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre ai nostri
tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù sino ai carnivori.”
12
Attraverso i suoi studi egli costruì una teoria globale del crimine, di tipo bioantropologico, secondo
la quale i delinquenti sarebbero caratterizzati da particolari anomalie somatiche o costituzionali,
che sarebbero, appunto, alla base del comportamento criminale.
Il “delinquente nato”, secondo i sui studi presenta caratteristiche ataviche o degenerative tipiche di
uno stadio evolutivo primitivo della razza umana, tali da rendergli difficile l’adattamento alla
società moderna e da spingerlo al delitto. Oltre a questo “tipo” biologico (delinquente ”fin dal
grembo materno”), successivamente identificato da un lato con l’epilettico e dall’altro col “pazzo
morale”, Lombroso distinse anche altri “tipi” criminali, come il ”delinquente d’occasione” (con
tratti patologici attenuati cui apparteneva anche il vasto gruppo dei cosiddetti “mattoidi”), che può
“evolvere” nel “delinquente d’abitudine”, ed il “delinquente per passione”, che viene spinto al
delitto da un offuscamento momentaneo del senso morale.
I matti delinquenti, cioè gli autori di reato malati di mente, costituiscono in quest’ottica, una varietà
del delinquente nato e se ne differenziano solo per le modalità di elaborazione o di esecuzione del
delitto.
Nacque così l’antropologia criminale, una nuova disciplina che aggregò intorno a sé molti studiosi
e molti ricercatori.
12
Lombroso C., discorso di apertura in Competes-Rendus du VI Congrès International d’Anthropologie
Criminelle, Torino 1906.
14
Siamo nel XIX secolo
1860 ”Improvvisamente, una mattina, in un nuvoloso giorno di dicembre, nel teschio di un
brigante trovai una lunga serie di anomalie ataviche…analoghe a quelle che si riscontrano negli
invertebrati inferiori. Di fronte a queste strane anomalie - come avviene quando una grande
pianura è rischiarata da un orizzonte illuminato - mi sono reso conto che il problema della natura e
dell’origine dei criminali era per me risolto.”
13
1830 “Possiamo dire in anticipo quanti individui si macchieranno le mani col sangue dei loro
simili, quanti saranno i truffatori, quanti gli avvelenatori; possiamo predirlo quasi come possiamo
predire le nascite e le morti che avranno luogo…
Ecco un bilancio che dobbiamo affrontare con spaventosa regolarità, quello delle prigioni, delle
catene e del patibolo.”
14
La prima di queste dichiarazioni venne fatta da Cesare Lombroso.
La seconda da Lambert-Adolphe-Jacques Quetelet.
Siamo di fronte alle origini dei due principali indirizzi nello studio del reato: il reato quale
espressione o prodotto della società e il reato espressione o prodotto della costituzione individuale.
Da essi si svilupparono due scuole di pensiero.
Per l’una, lo scopo principale della criminologia era quello di spiegare l’esistenza e le distribuzione
dei reati nella società, e la sua tendenza naturale era quella di considerare i fattori sociali come
prevalentemente importanti.
Per l’altra scuola lo scopo della criminologia consisteva nello scoprire perché alcuni individui
divenissero delinquenti. In questo caso la tendenza era quella di insistere sull’importanza dei
fattori costituzionali.
Sebbene completamente diverse, queste due concezioni furono una risposta a quello che fu il
pensiero liberale, sviluppatosi in seguito al diffondersi dell’illuminismo, ove la visione dei diritti
dell’uomo e dei doveri della società era in aperto conflitto con ciò che i suoi esponenti vedevano
13
Lombroso C., Op. cit. pp. XXXI-XXXII
14
Quetelet L. A. J., Recherches sur le Penchant au Crime aux diffèreents ages, rapporto presenatto alla
Accademia Reale Belga delle Scienze (9 Luglio 1831), pubblicato sulle Nouveaux Mèmoires de l’Acadèmie,
1831, vol. VII.
15
intorno a se stessi. Il loro punto di partenza era l’appello alla “legge naturale”, ai”diritti naturali”,
all’ eguaglianza naturale così come veniva interpretata dalla voce della ragione.
La scuola classica, che si oppone all’autorità arbitraria della monarchia e della chiesa, che avevano
caratterizzato l’ancient regime, propone un sistema penale basato sul principio del contratto sociale
e caratterizzato dalla chiarezza della legge, dall’eguaglianza dei cittadini, dalla proporzionalità
della pena rispetto ai delitti e da una serie di garanzie a tutela dei diritti dell’individuo. Un sistema
penale di questo tipo deve anche servire, secondo Beccaria, ad esercitare un’azione di prevenzione,
in quanto gli individui, messi di fronte a leggi chiare e giuste, essendo in grado di scegliere
liberamente, più difficilmente dovrebbero compiere azioni criminose.
Come ha mostrato Foucault (1975)
15
, la nuova concezione dell’uomo e della società, derivante dal
movimento illuministico, ha potato all’abbandono del “barbaro splendore dei supplizi”, per
sostituirvi un sistema razionale, ordinato e gerarchico, da gestire attraverso il carcere.
E’ in quest’ atmosfera, in questo contesto sociale fortemente agitato dalla preoccupazione per il
delitto che i metodi e le conclusioni di Quetelet, pioniere nello studio della distribuzione dei reati
nella società e nella valutazione del suo significato, insieme a Andrè-Michel Guerry, avvocato
francese, spostarono il campo di studio del crimine, staccandosi completamente dalla scuola
classica.
Stava per essere realizzato un modo di interpretare la società e le sue istituzioni che era assai
lontano dalla dottrina liberale della legge e dei diritti naturali.
Guerry sosteneva che “è passato il tempo in cui si poteva pretendere di regolare la società con delle
leggi basate unicamente su teorie metafisiche e su di una sorta di tipo ideale che si riteneva
rispondesse ad una giustizia assoluta. Le leggi non sono fatte per gli uomini presi in astratto, per
l’umanità in generale, ma per uomini reali, posti in condizioni particolari e ben determinate.”
16
Tale dichiarazione è la chiave di lettura del passaggio di concezioni a cui ho fatto riferimento
precedentemente; il punto di partenza preso in considerazione, quindi, non è più un immaginario
stato di natura, ma sono i delitti reali, noti in una vera comunità.
I totali annuali dei delitti denunciati, e quello dei tipi principali di reati, rimanevano
fondamentalmente uguali; una simile regolarità diede la concreta possibilità di utilizzare un
approccio scientifico senza il quale non si sarebbe mai giunti ad una comprensione del reato come
fenomeno sociale.
15
Foucault M., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976.
16
Guerry A. M., Statisque Morale de l’Angleterre comparè avec la Statisque Morale de la France, 1984,
p. lvii.
16
Ecco allora che da questi fatti sia Quetelet che Guerry fondarono la loro affermazione secondo la
quale il bilancio dei reati si sarebbe potuto calcolare in precedenza e “ogni qual volta, finora, si ha a
che fare con risultati medi riuniti e non con fatti individuali, ogni cosa si mescola insieme, ogni
cosa si mette al passo. Dato un piccolo numero di dati, si può spesso dedurre da essi la maggior
parte degli altri, con una certezza che non è inferiore a quella che si può avere per quanto riguarda
i fenomeni fisici, la direzione media dei venti o i cambiamenti annuali della temperatura.”
17
Fui da questa base che essi iniziarono la ricerca delle cause sociali presenti dietro quel fenomeno
sociale veramente importante che è il delitto, studiato e analizzato secondo una concezione
deterministica.
Il metodo non era più deduttivo ma induttivo, ”l’analisi delle statistiche morali” - sosteneva il
Guerry - “non deduce le verità l’una dall’altra, non cerca di scoprire ciò che dovrebbe essere;
afferma ciò che è…Per apprezzare, da un punto di vista morale, i fatti esterni di natura umana
18
avvenuti nel tal paese o nell’altro, in un determinato tempo o in un altro, la meditazione non basta:
ci si deve preoccupare di rilevare quei fatti.”
19
Ecco allora trovato l’anello di congiunzione tra le due correnti deterministiche l’una di marca
individuale e l’altra di marca sociale.
La scuola di criminologia che ebbe origine dalla dottrina di Lombroso prese il nome di Scuola
Positiva, per dare importanza alla propria adesione ai metodi sperimentale e induttivo, quali quelli
usati nelle scienze naturali e sociali, contro quelli del ragionamento giuridico e deduttivo. Come i
ricercatori statistici e sociali quali Quetelet e Guerry, i positivisti dichiararono di considerare, come
loro punto di partenza, i fatti osservabili; la loro interpretazione dei dati rilevanti li condusse ad
una posizione filosofica simile.
Quale è, dunque, l’approccio che la criminologia deve avere nei confronti di chi, sulla base di fatti,
appunto, di elementi attinti dalla realtà, è considerato deviante, diverso dalla società stessa in cui si
trova sempre e comunque a confrontarsi?
17
Quetelet L. A. J., Phiysique Sociale, 1989, vol. I, p. lix.
18
L’espressione i “fatti esterni di natura umana” comprende un fondamentale concetto sociologico, elaborato
più tardi da Durkheim. Vedere in particolare: Durkheim E., Suicide, (edizione del 1952; apparso per la prima
volta nel 1987). On the Division of Labour in Society, (edizione del 1933). Professional Ethics and Civic
Morals, 1957. The rules of Sociological Method, (ottava edizione, 1958).
19
Guerry A. M., Op. cit., p. xlvi.