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Anche se su posizioni diverse, chiunque se ne sia interessato, reputa il gioco un’attività
importantissima nello sviluppo intellettivo e psicologico del bambino.
Personalmente penso che i bambini giochino soprattutto perché questo provoca loro piacere e
senso di benessere, non rendendosi conto che questa loro attività possa portare poi altri tipi di
conseguenze eventualmente benefiche.
Secondo me, attraverso il gioco, i bambini possono imparare ad affrontare gli ostacoli che si
presenteranno loro nella vita adulta, con tenacia e tranquillità, consapevoli che un’eventuale
sconfitta sarà solo temporanea e che potrà essere superata con un successivo tentativo, come
quando giocando a costruire la torre di cubi questi cadevano e lui ci riprovava in
continuazione. Se si perde una partita il mondo, non crolla, subito dopo ce ne sarà un’altra da
provare a vincere; così essi imparano a perdere senza sentirsi dei falliti, perché nel gioco così
come nella vita non sempre si può essere primi.
Il corretto sviluppo infantile passa attraverso l'attività ludica.
Il bambino che avrà giocato molto avrà fatto molte esperienze positive tali da arginare
eventuali problemi negativi del suo sviluppo.
I bambini che hanno giocato poco potranno incontrare più problemi a scuola, perché non
avendo vissuto l’esperienza del successo attraverso il gioco, avranno poca fiducia di successo
negli altri campi.
L’avvento del consumismo ha prodotto notevoli cambiamenti, sia a livello socioeconomico
che culturale. Non si è trattato soltanto di un cambiamento dei valori e delle norme che
regolano il vivere sociale, ma è cambiata la struttura stessa della società e sono stati introdotti
nuovi meccanismi che interagiscono nell’assetto degli equilibri culturali nei quali, anche
l’elemento ludico occupa un ruolo fondamentale.
Il gioco, ed il giocare, quindi, hanno subito gli effetti di questi cambiamenti: la creazione di
un mercato economico del gioco e la diffusione della globalizzazione, hanno prodotto effetti
tali da mutare perfino il legame originario fra gioco e cultura.
“Oggi, purtroppo, non ci diverte più come una volta”. Quante volte abbiamo sentito questa
frase; ma è davvero così? Penso che ciò sia vero solo in parte, perché i giochi sono sempre
figli del tempo e si adattano alla situazione sociale nella quale si svolgono. Ieri non esisteva
nessun disturbo dall’esterno, niente tv, niente computer, oggi nell’epoca
dell’informatizzazione, di internet, dei videogiochi, i ragazzi trovano modi di divertirsi
alternativi a quelli che un tempo erano i giochi da cortile. Era considerato importante lo stare
insieme, anche i momenti di lavoro si trasformavano in occasione di socializzazione. La
persona allora era al centro della società e il gioco era di tipo collettivo ad alto contenuto
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sociale. Oggi è sempre più facile trovare un ragazzo attaccato ad un videogame piuttosto che a
passeggiare con un amico.
Questa mancanza di relazioni umane, di fantasia, di creatività, fa in modo che il gioco, inteso
come tempo della piena libertà infantile, sia mutilato dei propri segni educativi quali il
movimento, la comunicazione, la fantasia, l’avventura, la costruzione, la socializzazione.
Con questo non voglio criminalizzare l’uso del computer e dei videogame, tutt’altro, poiché
ne esistono di veramente educativi, ma vorrei solo rimarcare che i giochi elettronici sono
oggettivamente meno socializzanti e creativi rispetto ai giochi fatti all’aria aperta.
L’ideale, credo possa essere trovare la giusta miscela tra queste due culture ludiche, senza che
l’una prevalga sull’altra e viceversa.
I bambini, una volta, giocavano molto in strada formando dei gruppi o delle vere e proprie
bande di quartiere o di rione, imparando a stare insieme divertendosi. Oggi, purtroppo non è
più così, bambini ipnotizzati dalla televisione, in media tre ore al giorno, è lo scenario che si
presenterebbe se entrassimo nella maggior parte delle abitazioni.
Ma la colpa è dei bambini? Hanno scelto loro di stare in casa a giocare?
Oggi dove si potrebbero incontrare i bambini per giocare?
E’ sempre più difficile rintracciare in città aree e spazi ludici e questo denota la scarsa
attenzione alla cultura del gioco e di conseguenza dimostra la scarsa considerazione che si ha
dei bambini.
I bambini hanno bisogno di aree di gioco, dove poter camminare liberamente, dove potersi
mettere alla prova, sperimentare i propri limiti, conoscere le proprie possibilità, acquisire
fiducia in se stessi.
“Gioca pure, ma non sporcarti, non sudare, non correre, stai fermo”, sono frasi pronunciate
e ascoltate chissà quante volte.
Con queste premesse possiamo tranquillamente affermare che i giochi permessi ai bambini
sono quelli passivi, sedentari, controllati, mentre i giochi che richiedono movimento,
spontaneità, inventiva, si svolgono clandestinamente e in assenza del controllo da parte degli
adulti.
Il gioco vero è quello che si gioca in strada, in cortile, o in un giardino.
Vi sono giochi, nella cultura popolare, che hanno accompagnato l’infanzia dei nostri nonni,
genitori e perché no, di noi stessi. Giochi come “Campana” o “4 cantoni”, cosiddetti giochi
tradizionali, hanno rappresentato gli abituali passatempi nei cortili, nelle piazze o nelle strade
non ancora invase dalle automobili. Tornare a giocare in strada, nei cortili, nelle piazze
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sarebbe come ritrovare quel filo invisibile che lega i bambini d’oggi con i propri antenati, e
sarebbe il giusto modo per riscoprire, recuperare e valorizzare le tradizioni.
Chi, come me, ha avuto la fortuna di poter giocare in un cortile, ricorda, con nostalgica
felicità, i pomeriggi passati a giocare a “Rubabandiera”, a “Campana”, a “Palla prigioniera”
o a saltare con la “Corda”.
E’ sorprendente notare, tra l’altro, come in diverse nazioni, geograficamente e culturalmente
lontane, vi sono dei giochi tradizionali che presentano, seppur con qualche differenza, una
struttura assai simile. Giochi che oggi rischiano concretamente l’estinzione proprio come
alcune razze protette, per scomparsa del loro habitat naturale, sarebbe bello poterli proteggere.
Un gioco tradizionale può morire se nessuno lo gioca, perché forse ha esaurito la sua forza
ludica, oppure, peggio ancora, può non nascere perché già ammazzato dall’urbanistica e dalle
automobili che scippano i campi da gioco, i marciapiedi, i selciati e le piazzette.
I bambini vivono e scoprono l’ambiente giocando in modo autonomo, scegliendo liberamente
giochi e compagni; avendo la possibilità di giocare con bambini più grandi o più piccoli;
giocando senza o con pochi strumenti: saltano alla corda, giocano a nascondino, ai 4 cantoni,
a rubabandiera, con l’elastico, con i cerchi…
I giochi da cortile non hanno bisogno di spazi precisi e misurati, non hanno un tempo preciso
d’inizio e di fine, spesso s’interrompono per stanchezza o perché la mamma ha chiamato che
è pronta la cena.
Questi giochi sono estremamente creativi e favoriscono lo sviluppo psico-fisico armonico e
globale, sviluppano la competizione, anche se, il bambino, interiormente, sente che il motivo
fondamentale del gioco è il gioco stesso e non il risultato finale.
Il piacere del gioco, è dato anche dalle diverse soluzioni che gli stessi bambini sviluppano tra
loro; il più delle volte ci si scambia i ruoli, chi prima era “Guardia” dopo diventa “Ladro” e
viceversa.
Quando i bambini sono liberi: corrono, saltano, si rotolano, si arrampicano sui muri, sugli
alberi, scalano le rocce, giocano a stare in equilibrio, tutte funzioni importanti nella loro
crescita evolutiva, ricavando da questo movimento un grande benessere psico-fisico.
I giochi da cortile sono ricchi di queste situazioni motorie ed i bambini, senza neppure
rendersene conto, acquisiscono e sviluppano, attraverso questi giochi, schemi motori di base,
capacità coordinative e condizionali.
L’impegno motorio e lo sviluppo di abilità e di strategie nei giochi tradizionali è sicuramente
elevato, spesso di più che non in giochi sportivi: correre, schivare, accelerare o rallentare,
fintare, cambiare direzione, agire in conseguenza di un movimento di un compagno o di un
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avversario dimostrano un’elevata variabilità delle situazioni motorie. Un impegno del genere
esalta il ruolo del Sistema Nervoso Centrale e i processi di apprendimento motorio.
E nella scuola, che insieme alla famiglia costituisce l’istituzione che per tempi lunghi e
significativi si occupa del bambino, qual è lo spazio riservato all’attività ludica?
Ancora una volta il gioco è confinato in spazi e tempi ristretti, spesso, nei pochi minuti della
ricreazione in cui, tra l’altro, il bambino deve fare merenda e andare in bagno.
Ciò che è valorizzato nella scuola è la capacità di disciplina che, si manifesta nell’impegno
diligente nello studio, il quale richiede, soprattutto, apprendimento mnemonico; si privilegia
lo sviluppo delle capacità intellettuali a discapito di quelle motorie, dimenticando così che per
uno sviluppo armonico è necessario un approccio globale ed equilibrato.
Il momento d’ingresso nella scuola dell’obbligo è molto delicato per il bambino, in quanto per
lui la scuola stessa si prospetta come fine di un periodo in cui è lecito dedicare la maggior
parte del tempo ad attività di gioco ed è sentita come inizio di obblighi, rinunce,
responsabilità: il dovere di fare i compiti, l’atteggiamento talvolta ossessivo, ricattatorio dei
genitori, sanciscono la definitiva e irreversibile frattura e inconciliabilità tra ludico e
apprendimento.
L’ansia di dover rispondere alle attese, spesso narcisistiche e ansiogene dei genitori, e i
compagni visti come elementi di confronto competitivo, sono alcuni dei fattori che
concorrono a determinare un certo disagio nei confronti della scuola. Mio figlio, l’estate
precedente il suo ingresso alle scuole elementari, sconfortato mi ha detto: “ Non voglio andare
in prima elementare perché si lavora, si fanno i compiti e non ti fanno più giocare”.
Perché si dimentica che s’impara meglio giocando?
Come abbiamo visto i giochi di tradizione possono essere praticati in qualsiasi spazio e pur
essendo ricchi nei contenuti, non necessitano mai di molta attrezzatura.
Bisogna solo, evidentemente, avere la volontà di far giocare i bambini, essere convinti della
ricchezza educativa che è presente in questi giochi per fare in modo che essi se ne
riapproprino pienamente.
I giochi tradizionali o da cortile sono innumerevoli, ma cercheremo di illustrare solo quelli di
tipo motorio e che sostanzialmente si svolgono all’aperto, tramite i quali le capacità motorie e
coordinative si sviluppano automaticamente.
Il gioco è uno strumento universale, caratteristico d’ogni individuo, che aiuta a conoscere
meglio se stessi e gli altri. Per i bambini è un veicolo valido per l’appropriazione di tutte
quelle abilità necessarie alla vita nel proprio destino culturale. Nello stesso tempo il gioco è
semplice svago e divertimento per bambini e adulti.
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Tuttavia il tipo di gioco al quale giocano i popoli del mondo rispecchia i valori della loro
civiltà.
I giochi hanno viaggiato nei secoli con le migrazioni, i commercianti, gli invasori, e ciò rende
difficile alla fine stabilire qual è l’originale e qual è l’importazione.
In questa tesi il gioco è stato visto sotto molteplici aspetti: che significato ha, quali sono le sue
origini, quale importanza assume dal punto di vista psicologico, sociologico, etologico, ed
anche auxologico, ma soprattutto si è cercato di dimostrare quanto è importante l’attività dei
giochi nella crescita psicomotoria dei bambini, dove i cosiddetti “giochi da cortile” assumono
un ruolo secondo me fondamentale e irrinunciabile.
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2. IL GIOCO – ORIGINI E SIGNIFICATO
2.1. Definire il gioco
La difficoltà nel definire il gioco sta nel metodo, generalmente arbitrario, che sì è sempre
adottato per cercare di classificare il gioco.
Ognuno di noi descrive il gioco secondo una sua specifica idea, secondo un suo personale
approccio al mondo della ludicità.
Molti studiosi, tra l’altro, tentano o hanno tentato di dare un personale contributo alla teoria
del gioco.
Chi più o chi meno nella propria vita e nella propria attività lavorativa usa il gioco, alcuni per
insegnare, altri per imparare: << Alcuni insegnanti si servono dei giochi per rendere meno difficoltoso
l’apprendimento…. L’innamorato gioca con l’amata… I genitori giocano con i loro figli… Dunque, la ricchezza
di fonti ludiche sembra essere inestimabile, inestinguibile >>. [8]
La difficoltà nel definire il gioco sta nel metodo, generalmente arbitrario, che è adottato per
cercare di classificare il gioco. Molto interessante per non dire fondamentale è il pensiero
dello storiografo olandese J. Huizinga.
1
Per Huizinga il gioco è soprattutto un atto libero che non è imposto da nessuno <<ogni gioco è
anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco.>>. [17]
Chi gioca lo fa in modo disinteressato, per puro diletto, consapevole di trovarsi di fronte ad
una finzione, ad una libera interpretazione della realtà esterna ed interiore: <<il gioco instaura una
realtà fittizia, diversa dalla vita ordinaria e vera>>. [17]
Huizinga, sembra trascurare di proposito, la descrizione e la classificazione dei giochi stessi.
Il suo “Homo Ludens”, infatti, non è uno studio sui giochi, ma una ricerca dello spirito ludico
che presiede ad una determinata specie di giochi: quelli di competizione con regole, anche se
questa categoria, per Huizinga comprende e spiega tutti i giochi degli uomini.
Sulla definizione di gioco data da Huizinga sono state mosse diverse critiche che la rendono
discutibile sotto diversi aspetti, e manchevole per più di un motivo.
Una critica marcatamente diversa è mossa a Huizinga da un altro autore, che a sua volta si è
occupato sistematicamente del fenomeno del gioco: Roger Caillois.
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1
Una delle figure più interessanti del pensiero storico-culturale contemporaneo, autore di un'opera assai conosciuta: Homo
ludens (Haarlem 1938). Huizinga nasce il 7 dicembre 1872 a Groninga (Olanda). A partire dal 1905 diventa professore
all'Università di Groningen e, dopo il 1915, in quella di Leiden. Deportato dai nazisti, muore in un piccolo villaggio olandese
il 1° gennaio 1945.
2
Roger Caillois, sociologo e antropologo nato nel 1913 a Reims in Francia; senza alcun dubbio uno dei pensatori più
originali della seconda metà del XX secolo.
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Per Caillois, egli trascura deliberatamente la descrizione e la classificazione dei giochi stessi.
È proprio in questa attenzione agli strumenti d’analisi del gioco che il lavoro di Caillois si
differenzia sensibilmente da quello di Huizinga.
Egli definisce il gioco come un’attività: libera, a cui il giocatore non deve essere obbligato,
ma che sceglie liberamente; separata dalla realtà quotidiana; incerta perché il giocatore
possiede la libertà di inventare, senza determinare anticipatamente svolgimento e risultato;
improduttiva perché non crea ricchezza; regolata, dato che si creano delle regole durante lo
svolgimento del gioco ed infine fittizia, vale a dire accompagnata dalla consapevolezza di
essere qualcosa di diverso dalla vita reale.
Con rimarchevole rigore metodologico Caillois tenta di utilizzare un metodo per descrivere e
addirittura classificare il gioco.
Rintraccia così quattro, grandi categorie:
- la competizione (agon) dove i protagonisti hanno uguale possibilità di successo; e quindi
tutti i giochi d’abilità, individuali o collettivi, le gare sportive, e in generale ogni tipo di prova
ludica basata su parametri di merito personale.
- il caso (alea) come per esempio il gioco dei dadi, e più in generale i cosiddetti giochi
d’azzardo”.
- il travestimento (mimicry) dove il piacere del gioco è mettersi nei panni di un’altra come
succede a carnevale, o come quando le bambine giocano alla mamma, alla cuoca, alla
maestra, e i bambini sono impegnati nei panni del cow-boy, del poliziotto, e perché no anche
del ladro, del malvagio, e via discorrendo.
- la vertigine (ilynx), che ritroviamo in alcuni divertimenti dei moderni luna-park.
Oltre alle quattro categorie del gioco sopra individuate Caillois aggiunge altri due criteri
definitori: il ludus e la paidia, <<non sono categorie del gioco ma modi di giocare>>.[6]
Caillois argomenta che, all’interno d’ogni categoria, possiamo avere fenomeni di gioco
improntati ad uno spontaneo, originario impulso di dare sfogo alla fantasia, con spensierata
libertà (la paidia), oppure giocare, solo per il gusto della difficoltà gratuita, per il semplice
piacere di metterci alla prova senza la necessità di farlo (il ludus).
Moltissimi altri autori hanno cercato di dare una loro personale descrizione del gioco; ne cito
solo alcuni, mentre altri saranno citati, quando sarà affrontata l’importanza psicologica che
assume il gioco nella crescita evolutiva dei bambini.
Il pensiero di Jean Chateau è che l’uomo trova nel gioco ciò che non trova nelle abituali
funzioni quotidiane: <<Noi poniamo in gioco funzioni che l’attività pratica non utilizzerebbe; ci realizziamo
pienamente, trasferendo nel gioco tutti noi stessi >>. [7]
14
Per Eugene Fink
3
, l’immaginazione configura il gioco come illusione: <<il gioco permette ad
ognuno di essere tutto, di avere l’illusione della piena e illimitata libertà, di vivere la felicità del creare.>>. [10]
Huizinga evidenzia che, quando gioca, l’uomo dimentica completamente i suoi bisogni
materiali, s’immerge totalmente in un mondo irreale che gli permette, in quel momento, di
mettere da parte tutte le sue incombenze e i suoi problemi: << immettendolo in una “sfera superiore”
di azione “provvisoria”, fine a se stessa, gratuita, disinteressata >>. [17]
Il gioco aiuta l’uomo a recuperare le energie psico-fisiche perdute nel lavoro e nelle sue
attività quotidiane più serie: <<Giochi, divertimenti, sport e passatempi artistici strappano l’uomo alla
consuetudine ed eliminano la tensione e la disciplina della vita quotidiana, assolvendo la funzione di ricreare
l’uomo, di reintegrarlo nella sua piena capacità di lavoro (Malinowski 1931: 184)>>…[8] è questo il
pensiero di Bronislaw Malinowsky
4
Dal canto suo, Schiller, oltreché uno dei massimi poeti di tutti i tempi, eccellente filosofo,
tragediografo e storico, pensa che: “L’uomo è completo solo quando gioca”>>. [7]
Secondo Édouard Claparede
5
, il gioco rappresenta il “lavoro” che il bambino deve svolgere
durante la sua fanciullezza. Il gioco attraverso l’imitazione sviluppa nel bambino l’insieme
delle funzioni percettive, intellettive, motorie e sociali preparando il ragazzo alla vita adulta e
all’adeguata integrazione di quest’ultimo nella società.
Della stessa teoria è Karl Groos
6
, il quale afferma che il bambino giocando si prepara ai
compiti e alle situazioni che dovrà affrontare da adulto.
Altri autori come Herbert Spencer
7
, sostengono che il gioco rappresenta la valvola di sfogo di
tutte quelle energie eccedenti presenti nell’uomo. Pertanto il gioco è inteso come uno “spreco
di forze non utilizzate” durante la vita quotidiana.
Jean Piaget
8
, psicologo svizzero, proseguendo l'opera di E. Claparède a Ginevra, si dedicò con
particolare attenzione ai problemi epistemologici, affermando che lo sviluppo mentale può
essere nettamente suddiviso in varie fasi, ben individuabili.
Egli ha messo in luce che il gioco ha una funzione fondamentale nello sviluppo
dell’intelligenza tanto è vero che evolve di pari passo con le capacità intellettive del bambino.
3
Eugen Fink (11 dicembre 1905 - 25 giugno 1975) è stato un filosofo e fenomenologo tedesco.Ha insegnato filosofia a
Friburgo ricoprendo la cattedra che fu del suo maestro Husserl e di Heidegger.Considerato uno degli esperti più significativi
della scuola fenomenologica husserliana, è stato successivamente influenzato dal pensiero di Heidegger assieme al quale nel
1970 ha pubblicato un famoso seminario su Eraclito.
4
Bronislaw Malinowsky, antropologo britannico di origine polacca (Cracovia 1884 - New Haven, Connecticut 1942), è
considerato il fondatore dell'antropologia funzionale.
5
Claparède, Edouard (Ginevra 1873-1940), psicologo e psicopedagogista svizzero. Caposcuola della pedagogia sperimentale,
sostenne la diffusione di metodi e tecniche che avessero al centro gli "interessi" del bambino.
6
Karl Groos, filosofo e psicologo tedesco (1861 – 1946) , studioso del gioco infantile dal punto di vista psicologico.
7
Herbert Spencer, filosofo britannico (Derby 1820 - Brighton 1903), fu uno dei rappresentanti del positivismo inglese.
8
Jean Piaget Neuchâtel, 1896 – Ginevra, 1980) psicologo dell'età evolutiva ed epistemologo svizzero. Studiò scienze
naturali all'Università di Neuchâtel, laureandosi nel 1918. Si dedicò, sotto la guida di E. Claparède, a studi di psicologia
dell'infanzia, perfezionandosi a Ginevra e a Parigi