Creazione, arte e tecnologia in André Malraux
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manifesta, Malraux intravede lo sbocco più fecondo per la propria
meditazione e la risposta più plausibile all’interrogativo posto dal museo.
Esiste, secondo lui, un potere creatore che trascende i secoli, un
vero e proprio impulso alla creazione, del quale tutte le opere d’arte,
indipendentemente dai differenti contesti in cui originano e dalle diverse
funzioni cui sono legate, sono incarnazione. Ad assicurare la permanenza
di un’opera attraverso i secoli, allora, sarebbe esattamente questo suo
valore di testimonianza di un’attitudine perenne ad attualizzare una
spinta creativa; in altre parole, c’è una linea comune che unisce il
leggendario ‘omino delle Cicladi’ (metafora per indicare un atto creatore
agli antipodi spaziali, temporali e concettuali) a Picasso, il più grande
creatore contemporaneo di forme, ed è la linea costituita dall’atto
creatore in quanto tale, dalla volontà di creare una forma nuova,
indipendentemente dal fatto che questa poi venga adorata come
incarnazione del divino, valutata sulla scorta di ideali canonici, oppure
semplicemente ammirata in quanto forma.
Quest’impulso alla creazione viene avvertito dall’artista come
un’autentica vocazione, e si specifica sostanzialmente come un
sentimento di rifiuto di fronte all’universo formale che egli eredita dalla
tradizione. Lo sguardo dell’artista, che secondo Malraux vede per forme,
è uno sguardo insoddisfatto, che vuole letteralmente imporsi su una
tradizione, vuole modificarla per affermare in maniera perentoria ed
assoluta la propria visione. Così il rapporto con la tradizione è duplice:
da un lato non esiste sguardo vergine, per cui la vocazione artistica è
sempre risvegliata dall’incontro con l’arte del passato, che si rivela come
imprescindibile momento formativo, dall’altro, per potersi pienamente
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affermare, per non essere un epigono, ogni artista è obbligato a rompere
con la tradizione in un’ininterrotta e perenne ricerca dell’assolutamente
nuovo. La creazione di un’opera è concepita da Malraux come un
viaggio verso l’affermazione, perentoria e decisa, di un’individualità; e
l’opera d’arte, una volta creata, si rivela come manifestazione di una
specifica originalità creatrice, come attestazione di un linguaggio
particolare, di uno stile. Picasso, la cui volontà di rottura si esercita tanto
contro le forme dell’arte nella loro totalità, quanto contro le forme della
natura stessa, è la metafora esemplare della figura dell’artista, inteso
come uomo in perenne condizione di rivolta contro tutto (compreso il
linguaggio stesso che egli si è dato), autentico rivale della natura, alla
quale vuole prometeicamente contendere il primato nella costruzione di
forme.
L’insoddisfazione dell’artista è allora indice di qualche cosa di più
profondo: la sua originalità è soprattutto autonomia dal mondo, tutte le
forme che egli crea sono altrettanti tentativi di sottomettere il mondo, di
imporsi, attraverso il linguaggio che si è conquistato, sulla sua caoticità.
Di qui origina la posizione fortemente antirealistica di Malraux: ogni
opera d’arte è affermazione di un’originalità creatrice, tanto più decisa,
quanto più disancorata da ogni rapporto con il reale. Ogni opera d’arte è
riduzione del reale a quella serie di elementi formali propri di ogni arte
particolare. Pur immersa nella realtà, l’opera è, allora, ad essa
irriducibile ed il suo valore non risiede nell’abilità di rappresentazione
mimetica (dove mimesi rima con illusione), ma nella sua capacità di
padroneggiare un mondo, di porsi cioè, come un universo autonomo,
coerente e particolare.
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La posizione antimimetica è, d’altro canto, qualcosa di più che una
semplice rivendicazione della legittimità di un approccio alle opere che
non si limiti a valutarle secondo criteri di fedeltà a modelli preesistenti;
essa è infatti il punto di partenza del percorso che porta alla definizione
dell’arte come antidestino. Di fronte alla morte di Dio e all’incapacità
della scienza di dare un senso alla vita dell’uomo, Malraux rifonda la
nozione stessa di uomo proprio sul concetto di una volontà di creazione
che è parimenti volontà di rottura. L’arte si pone come la modalità
privilegiata attraverso cui l’uomo mette costantemente il mondo in
discussione. Come attitudine trascendente, la volontà di creazione è
attestazione dell’Assoluto stesso costituito dall’arte, il quale ingloba la
totalità delle opere, sotto il denominatore comune dell’opposizione al
caos della natura.
Il percorso di Malraux comincia allora a rivelarsi come un
percorso che può fare a meno di considerare specificamente le singole
opere d’arte nel loro legame con un contesto sociale e culturale definito,
nonché con una pratica artistica particolare: la concretezza del fare
artistico viene di fatto sacrificata di fronte alla necessità di individuare in
ogni prodotto artistico una figura dell’assoluto.
In questo modo, la stessa presenza delle opere più disparate
all’interno del museo può trovare la propria giustificazione proprio nella
loro appartenenza ad un orizzonte comune, costituito dall’arte come
rivolta contro una condizione umana che è definita come caotica e priva
di senso. Attraverso l’arte, l’uomo (non un qualunque uomo però, ma un
essere privilegiato e particolare: l’artista) può opporsi al caos ed imporre
il proprio senso al mondo, il proprio ordine al disordine della natura. Ma,
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attraverso l’arte, l’uomo ha anche una possibilità per raggiungere
un’autentica conoscenza dell’altro da sé, in una sorta di comunione
fusionale (un’esperienza propriamente mistica) in cui il fondo
trascendente dell’arte si rende esperibile, la voce del silenzio, udibile.
Attraverso una lettura di questo tipo, l’antirealismo di Malraux si
presenta come l’unico modo di portare a percezione qualcosa (la
trascendenza stessa dell’arte) che si pone per definizione al di fuori di
ogni possibilità di rappresentazione o di espressione soggettiva.
Malraux, comunque, non trascura completamente i modi in cui la
volontà di creazione si manifesta nelle singole individualità creative; la
sua estetica prende in considerazione, attraverso i concetti di schema, di
forma e di stile, che confluiscono in quello più generico di immaginario,
gli elementi che portano l’impulso alla creazione ad attualizzarsi in una
specifica opera d’arte. Ma, per quanto giunga spesso a definizioni
suggestive e convincenti (è il caso, soprattutto, del concetto di schema,
inteso come l’incarnazione dell’impulso alla creazione in una singolare
esperienza di vita), la via più agevole per giungere ad una più chiara
delineazione del suo pensiero resta quella di seguirlo lungo la strada
dell’astrazione. Difatti, il suo è un percorso in cui l’astrazione dalle
forme concrete si rende necessario e inevitabile, dal momento che ciò
che alla fine deve emergere è il carattere di inglobante che, secondo lui,
caratterizza l’arte.
Tutta l’estetica di Malraux si rivela allora come un tentativo di
liberare l’arte da ogni tipo di attributo accidentale che porta a
fraintenderne il reale significato: la sua è una riflessione che vuole
restituire l’arte a se stessa. Il luogo privilegiato in cui questo percorso si
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compie è proprio il museo, nel quale, appunto, le opere d’arte sono
raccolte previa decontestualizzazione dai loro luoghi di origine. Nella
giustapposizione di opere agli antipodi si rivela l’arte in quanto tale; o
meglio, l’arte, finalmente liberata da ogni referenza a ciò che non la
riguarda in maniera peculiare, prende finalmente coscienza di sé e può
considerare come propria manifestazione anche quegli oggetti la cui
funzione originaria non era prettamente artistica. Il museo diventa il
luogo in cui l’Assoluto dell’arte comincia a manifestarsi pienamente, il
luogo in cui ogni capolavoro, per il fatto stesso di essere un capolavoro,
è destinato ad entrare.
D’altro canto, il museo stesso non è, per Malraux, che una tappa
verso l’instaurazione di quel Museo Immaginario che costituisce il suo
lascito principale alla storia dell’estetica. Se il museo infatti libera l’arte
dal proprio contesto, la riproduzione fotografica, su cui l’intuizione del
Museo Immaginario si basa, libera l’opera d’arte da se stessa. Le
innumerevoli possibilità di manipolazione, che una fotografia offre
all’oggetto che riproduce, permettono a Malraux, attraverso un uso ardito
di dettagli, ingrandimenti e accostamenti spregiudicati e impensabili, di
meglio chiarire il carattere comune che qualifica la totalità delle opere
d’arte. Con la fotografia emerge chiaramente quell’autoreferenzialità che
l’arte acquista nel momento stesso in cui viene indicata come Assoluto.
Quello che importa a Malraux, allora, non è tanto il valore specifico di
ogni singola opera, quanto la possibilità di ritrovare nell’intera
produzione artistica, di ogni tempo e luogo, la comune e trascendente
attitudine dell’uomo a mettere in questione il mondo. Esiste l’arte in
quanto Assoluto trascendente che raccoglie nel suo seno (che ingloba)
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tutto ciò che è attestazione della rivolta dell’uomo contro il destino.
Movimento circolare (e tautologico) per cui l’arte nasce dall’arte e
all’arte ritorna, all’interno di una riflessione che ha necessariamente
bisogno di escludere dal proprio percorso tutto quanto è legato alla
concretezza e alla fisicità di un’opera.
Il Museo Immaginario, così, si rivela, paradossalmente e
pienamente, nell’assenza dell’opera d’arte. La riproduzione fotografica
da una parte radicalizza l’enigma posto dal museo, perché rende visibile
l’intera arte mondiale (e la storia dell’arte diviene storia di tutto quanto è
riproducibile) portandone a compimento l’emancipazione; dall’altra
rende il contatto diretto con l’opera originale un momento non
strettamente indispensabile, visto che essa si pone come il veicolo ideale
del valore costitutivo di ogni oggetto artistico.
Svincolato da ogni rapporto con la concretezza delle opere d’arte,
il Museo Immaginario diventa allora il luogo mentale, personale a
ciascuno, ma pure comune per i quattro quinti all’intera comunità degli
artisti, in cui tutte le opere, finalmente ed interamente restituite a se
stesse, possono dialogare tra loro, nel reciproco rispetto delle differenze
specifiche. Esso è il museo che ciascuno ‘porta dietro le palpebre’, il
luogo in cui le opere manifestano pienamente la loro capacità di
provocare veri e propri atti d’amore, giacché ‘sono loro a sceglierci, più
di quanto non siamo noi a scegliere loro’. Nel Museo Immaginario, il
luogo stesso della metamorfosi, la trascendenza dell’arte si manifesta
nella maniera più piena.
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Ora, quella che è l’intuizione fondamentale di Malraux, ne
costituisce anche il suo limite principale: concepire l’arte come un’entità
a sé, esistente al di fuori delle modalità attraverso le quali le sue
manifestazioni oggettive (le opere d’arte), vengono effettivamente
percepite.
Scrive Debray:
Si era voluto farci credere che l’Arte è una costante, regione
dell’essere o cantone dell’anima, che si riempirebbe via via con
immagini fabbricate qui e là. Come se il flusso delle immagini, da
trentamila anni, declinasse, lungo il corso dei secoli, una struttura
ideale, insieme di proprietà comuni definenti una certa classe di
oggetti e di cui ogni epoca si troverebbe ad attualizzare questo o
quel tratto o segmento. […] Ingenuità ‘etnocentrica’: ‘il museo
libera l’arte dalle sue funzioni extra-artistiche’. Come se ‘l’arte’
avesse dovuto attendere, soffrendo nell’ombra, durante dei secoli,
di essere restituita a se stessa, totalità autosufficiente ed
autogeneratasi indebitamente snaturata, alienata, pervertita da
interessi allogeni ed illegittimi
2
.
2
“On avait voulu nous faire croire que l’Art est un invariant, région de l’être ou canton de
l’âme, qui se remplirait au fur et à mesure avec des images fabriquées ici et là. On faisait
comme si l’écoulement des images depuis trente mille ans déclinait au fil des siècles une
structure idéale, ensemble de propriétés communes définissant une certaine classe d’objets
et dont chaque époque viendrait actualiser tel ou tel trait ou fragment. […] Naïveté
ethnocentrique: ‘le musée délivre l’art de ses fonctions extra-artistiques’. Comme si ‘l’art’
avait dû attendre, en souffrant dans l’ombre, des siècles durant, d’être rendu à lui-même,
totalité autosuffisante et autoengendrée indûment dénaturée, aliénée, pervertie par des
intérêts allogènes et illégitimes” (R. Debray, Vie et mort de l’image. Une histoire du regard
en Occident, Gallimard, Paris 1992, pp. 157-158).
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Per quanto la tesi dell’arte come Assoluto possa essere
legittimamente oggetto di critica, è su di essa che si fonda l’intera
riflessione di Malraux, per cui deve per forza di cose essere presupposta
a priori in ogni analisi della sua estetica. D’altro canto è possibile
recuperare Malraux, inserendo quello che è il suo modo peculiare di
riflettere, vale a dire la comparazione, all’interno di un discorso che
tenga conto dell’effettivo radicarsi dell’opera d’arte in uno specifico
contesto culturale e tradizionale. Se Malraux non riuscì a vedere,
nonostante la lettura di Benjamin, quanto le nuove tecnologie di
riproduzione cambiassero il modo di rapportarsi all’arte, tuttavia la sua
insistenza sull’idea (rivelatagli proprio dalla riproduzione fotografica)
che ogni arte è un linguaggio specifico e singolare, affatto irriducibile a
quello delle altre arti, lo porta a riconoscere, per comparazione, le
peculiarità di ognuno di questi linguaggi (e la versione cinematografica
di un romanzo permette di comprendere meglio le caratteristiche
essenziali del linguaggio cinematografico e di quello della finzione
letteraria). E in questo senso Debray riutilizza il procedimento di
Malraux per individuare le differenze specifiche di ogni sfera mediatica.
Allora, proprio usando come punto di riferimento la riflessione
molto più pragmatica e concreta di Debray, si è voluto portare alle
estreme conseguenze il discorso di astrazione di Malraux e provare a
considerare come sarebbe oggi, nell’epoca di Internet, il Museo
Immaginario. Fermo restando che non si tratta qui di valutare nuove
annessioni e resurrezioni legate all’avvento delle tecnologie informatiche
(non si vuole vedere, cioè, se il Museo Immaginario abbia ampliato le
sue sale) ma di verificare in che modo cambia lo sguardo sull’opera
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d’arte e sul mondo nel momento in cui le nuove tecnologie rendono
possibile la più totale astrazione dalla realtà.
Malraux ha fatto dell’astrazione la via maestra per giungere alla
definizione dell’arte come assoluto; forse, però, a rivelarsi attraverso la
riproduzione fotografica non è tanto l’autoreferenzialità dell’arte, quanto
piuttosto, quella, molto più prosastica ma anche molto più presente,
dell’immagine. Attraverso le nuove tecnologie informatiche l’utopica
visione di Malraux, vale a dire l’idea di un’arte che afferma pienamente
se stessa negando la realtà da cui origina, è in un certo senso realizzata.
Nell’immagine digitale non c’è nemmeno più contatto con la fisicità di
una materia e arti come cinema e fotografia cambiano statuto ontologico,
dal momento che cessano di essere fondate sulla riproduzione di una
realtà preesistente. Così, l’alterità del reale, che, secondo Malraux, ogni
artista rigetta in nome di un assoluto che garantisce la sua vittoria sul
caos, viene semplicemente annullata all’interno di un flusso ininterrotto
di immagini che ha perso ogni contatto col mondo e che dà se stesso
come realtà. Quel che si è voluto fare, allora, è stato andare al di là di
Malraux per gettare uno sguardo sull’epoca del visivo, magari tentando
di individuare un modo per riaffermare, all’interno stesso di
un’immagine che ha se stessa come unico referente, l’irriducibile alterità
del mondo.
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I. Prometeo
(1.1) Artista
L’arte nasce appunto dall’attrazione dell’inafferrabile, dal rifiuto
di copiare spettacoli; dalla volontà di strappare forme al mondo che
l’uomo subisce, per farle entrare in quello che egli stesso governa
1
.
E’ il rifiuto ciò che spinge un artista alla creazione, il rifiuto verso
un mondo di forme già dato (siano esse forme naturali o, soprattutto,
forme dell’arte) che l’artista avverte come incompleto e imperfetto,
come privo di un qualche cosa che solo lui può apportare. La creazione
artistica quindi è legata, per Malraux, ad un duplice movimento. Da una
parte c’è il sentimento di una mancanza: l’artista sente che manca
qualcosa nel mondo delle forme che lo circonda, e questa mancanza,
questo vuoto, è qualcosa di fondamentale ed assillante. Dall’altra parte,
egli sviluppa fin da subito una reazione a questo sentimento, la quale si
manifesta in una tensione irresistibile a colmare questo vuoto attraverso
la propria opera.
E’ importante sottolineare che lo spazio di azione in cui l’artista si
muove è quello delle forme, giacché, per Malraux, l’artista è,
sostanzialmente, un creatore di forme
2
, un uomo che si esprime dando
vita a delle forme. Questa precisazione permette di chiarire il significato
1
A. Malraux, «La creazione artistica », in Il Museo dei Musei - Le voci del Silenzio -,
Mondadori, Milano 1957, Parte terza, pp. 315-316.
2
“Chiamo artista chi crea delle forme” (ibid., p. 307).
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da dare al termine ‘espressione’. Esso non vuole indicare la messa in
luce da parte dell’artista di significati, più o meno consci, attinenti alla
propria vita affettiva. In altri termini, egli non esprime se stesso, non
esprime la propria personalità né un proprio mondo interiore. Malraux
esclude che l’opera d’arte possa essere ridotta ai soli processi inconsci di
cui diverrebbe una sorta di sintomo. D’altra parte, nella sua opera,
l’artista non esprime neanche una propria particolare posizione rispetto
al mondo della vita (l’artista, per definizione, non è un artista impegnato,
o meglio: il suo unico impegno è l’arte).
Quindi, se il vissuto dell’artista è presente nella sua opera, lo è non
in maniera trasfigurata (cioè non come contenuto significato dalla forma,
la quale andrebbe così ad assumere lo statuto di semplice involucro, di
contenitore), esso va piuttosto a formare il fondo sul quale germoglia
l’opera d’arte. Di fatto, sostiene Malraux, ciò che un artista esprime è,
prima di tutto e soprattutto, il suo profondo sentimento di
insoddisfazione nei confronti delle forme, e questa insoddisfazione è la
caratteristica peculiare del suo vissuto. Pertanto, ogni opera è
testimonianza della risposta che un artista dà alla propria insoddisfazione
costitutiva:
Tintoretto […] davanti ai Tiziano che ha tanto ammirato,
pensa semplicemente “No!”. E questo no è decisivo; perché per
ogni pittore esiste, in pittura, una verità. […] La sua verità non
appartiene all’ordine del verificabile, ma a quello delle convinzioni.
Al “Perché dipingi così?”, una sola risposta gli sembra giusta
“Perché così si deve”
3
.
3
Ibid., pp. 351-352.
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Ciò che l’artista esprime attraverso la propria arte, il contenuto di
ogni opera, è quindi una ricerca: la ricerca di una verità, della particolare
verità che si manifesta in ogni singola opera d’arte, e che è raggiunta
pienamente soltanto nel capolavoro. Verità che è verità dell’artista e
verità dell’opera d’arte, non verità del mondo. L’artista non cerca nel
proprio lavoro di disvelare un senso nascosto nella realtà, egli non ha
nulla da insegnare né da dimostrare; il suo è, invece, un tentativo di
sostituire al mondo di forme che l’ha preceduto e sul quale è avvenuto il
proprio apprendistato il proprio personale mondo di forme, che egli
conquista nel corso di tutta la sua vita attraverso l’ininterrotta attività
artistica. E la sua è una ricerca solitaria e personale che ha come fine una
verità solitaria e personale.
Ciò di cui è alla ricerca (una ricerca che, per Malraux, assume nel
vero artista i tratti di un’ossessione), è la conquista di un autonomo
universo di forme, di una perfezione che non è assolta, ma relativa alla
propria arte. Si può anche dire che ogni artista è alla ricerca di un proprio
linguaggio all’interno del linguaggio specifico all’arte che pratica.
Malraux può quindi concludere la frase precedentemente citata in questo
modo: “Il grande pittore è profeta della propria opera, ma adempie la
propria profezia dipingendo. La verità di Van Gogh è, per lui, l’assoluto
pittorico cui tende”
4
.
L’opera d’arte ha quindi come meta l’instaurazione di un assoluto.
E qui la scrittura di Malraux, che procede sempre in maniera poco
lineare e sistematica, preferendo un approccio di tipo discorsivo piuttosto
che persuasivo, rivela subito una delle sue figure chiave. Lo stile di
4
Ibid., p. 352, corsivo mio.
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Malraux, infatti, molto vicino all’eloquenza oratoria, implica il massiccio
ricorso alla retorica
5
. Tra i procedimenti retorici più usati da Malraux c’è
l’ossimoro, che lungi dall’essere un semplice strumento decorativo atto
ad intensificare l’opacità del testo, diventa indice di una stratificazione di
senso, oppure può servire, come in questo caso, a risolvere equivoci
nella comprensione. Si è detto sopra che per Malraux l’artista è un
instauratore dell’assoluto; è, questa, la definizione più nota e, forse,
anche una delle più fraintese. Di fatto, questa definizione può essere
accettata come conforme al suo pensiero solo facendo ricorso ad un
ossimoro (peraltro non usato in maniera esplicita nel testo). L’assoluto
cui tende l’artista è, paradossalmente, un assoluto relativo; è, cioè,
l’assoluto della sua arte. Di pari, l’artista non ricerca la perfezione
assoluta, ma quella della sua arte.
Ecco allora che il movimento della creazione artistica è un
movimento dialettico: l’artista ricerca la propria perfezione (“la massima
densità della sua arte”
6
) nel dialogo con forme che, per gli artisti che le
hanno create, hanno rappresentato altrettante perfezioni. L’artista mira
quindi a superare la produzione formale precedente (compresa la sua,
giacché il dialogo è dialogo anche con le proprie precedenti perfezioni) e
ad imporre la propria, in una ricerca che è, per definizione, inesauribile.
5
Uno studio sull’uso dei procedimenti e delle figure retoriche ne Les voix du silence è stato
fatto da G. Duthuit ne Le musée inimaginable, José Corti, Paris 1958. Il testo è un violento
pamphlet che ironizza ferocemente sull’opera di Malraux ed individua nella retorica uno degli
strumenti da lui privilegiati per aggirare i problemi di coerenza interna del suo lavoro.
6
A. Malraux, «La creazione artistica », in Il Museo dei Musei - Le voci del Silenzio -, cit.,
Parte terza, p. 445.