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CAPITOLO I: La teoria delle aree valutarie
1.1 Introduzione
Nel lontano 1957 con il Trattato di Roma fu compiuto il primo passo per
l’integrazione economica e politica dei Paesi europei con la creazione della
Comunità Economica Europea.
Tale processo è proseguito negli anni attraversando varie fasi e sviluppandosi
in tre dimensioni profondamente interrelate, quali l’allargamento dell’integrazione
attraverso la progressiva crescita del numero dei paesi aderenti; l’estensione delle
aree di integrazione con lo sviluppo di politiche comuni ad un numero sempre più
ampio di settori e infine l’approfondimento dell’integrazione con il graduale
trasferimento di competenze nazionali ad organismi sovranazionali.
Una delle principali fasi si è avuta nel 1992 con la firma del Trattato di
Maastricht che fissò, tra le tante cose, per il 1999 il termine ultimo per
l’introduzione della moneta unica europea. Dopo un periodo di cambi fissi
irrevocabilmente immodificabili nel 2002 entrò in vigore l’euro. Da quel
momento in poi si è affidato al Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) il
compito di stabilizzare il livello generale dei prezzi nell’unione; alla Banca
7
Centrale Europea di emettere l’euro e di attuare una politica monetaria unitaria
lasciando ai governi nazionali le decisioni di politica fiscale.
Nel lungo percorso verso l’Unione Monetaria Europea le opinioni
sull’opportunità di creare una moneta unica non sono state unanimi. I dibattiti
relativi alla valutazione di vantaggi e svantaggi dell’UME partono dalla teoria
delle aree valutarie ottimali (Optimum currency areas) che trova le sue origini
nella controversa discussione sui “regimi di cambio ottimali”. Già nel 1953
Friedman sosteneva che un paese con salari e prezzi rigidi dovesse adottare tassi
di cambio flessibili per realizzare contemporaneamente gli obiettivi di equilibrio
interno (quali piena occupazione, stabilità dei prezzi) e di equilibrio esterno (quale
il pareggio della bilancia dei pagamenti).
Vari contributi si sono succeduti negli anni seguenti delineando tre distinti
approcci:
1. Approccio tradizionale, in cui spicca il lavoro di Mundell a cui sono
legati i contributi di Kenen e McKinnon;
2. Approccio Costi-Benefici, in cui spicca il lavoro di Ishiyama;
3. Nuova teoria delle Aree Monetarie Ottimali basata su due punti focali:
l’effetto degli shocks e la reputazione/credibilità.
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1.2 Approccio tradizionale: Mundell, Kenen e
McKennon
Ogni qualvolta si pensa all’integrazione economica dei paesi come possibile
soluzione ai problemi di equilibrio della bilancia dei pagamenti occorre partire
dalla teoria delle aree valutarie ottimali che prese avvio da un celebre articolo di
Mundell nel 1961. Con tale articolo Robert Mundell formulò quello che ancora
oggi è ritenuto l’argomento principale relativo alle unioni monetarie e cioè che
«Se il mondo può esser diviso in regioni all’interno di ciascuna delle quali esiste
mobilità dei fattori e fra le quali i fattori sono immobili ciascuna di queste regioni
dovrebbe avere una moneta separata che fluttui rispetto a tutte le altre»
1
. Il
problema principale sembra essere quello di verificare se il capitale ed il lavoro
sono sufficientemente mobili all’interno di ogni nazione e se essi si muovono con
difficoltà tra nazione e nazione.
Se i fattori sono mobili all’interno di un paese e immobili tra paesi diversi,
secondo Mundell, ogni spostamento della domanda da un paese all’altro, con
cambi fissi, può creare grosse difficoltà per entrambi i paesi interessati.
Supponiamo che vi siano due paesi diversi, ciascuno con la propria moneta, che si
trovino inizialmente in piena occupazione e senza inflazione e che si abbia uno
1
Cfr. Per ulteriori informazioni: MUNDELL R. A. (1961), Una teoria delle aree valutarie ottime,
tradotto in Giusso 1974.
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spostamento di domanda dal paese A verso il paese B. Se i salari e i prezzi sono
rigidi verso il basso e flessibili verso l’alto una diminuzione di domanda nel paese
A dà luogo a disoccupazione in quel paese e un aumento di domanda nel paese B
dà luogo ad inflazione e se i cambi sono fissi le economie di entrambi i paesi non
riusciranno a trovare facilmente il loro equilibrio. La soluzione che si avrebbe in
assenza di un intervento statale correttivo per ristabilire l’equilibrio con piena
occupazione nei due paesi sarebbe quella di lasciar correre l’inflazione nel paese
B sino al punto in cui l’aumento delle importazioni di B da A e la diminuzione
delle importazioni di A da B diventi di ammontare tale da controbilanciare
esattamente l’iniziale spostamento di domanda da A a B, comportando come costo
l’inflazione nel paese B.
Purtroppo non si può parlare di soluzione in assenza di intervento statale ecco
perché si ricorre all’unione monetaria che potrebbe attuare una politica monetaria
espansiva per eliminare la disoccupazione in A, ma ogni aumento della domanda
globale all’interno dell’unione e della produzione in A alimenterebbero
l’inflazione in B. In base a questo esempio Mundell concluse che il modo
principale in cui la politica monetaria riesce a ripristinare il pieno impiego nella
regione in disavanzo consiste nell’aumentare i prezzi nella regione in avanzo,
ossia di modificare i rapporti di scambio contro il paese B. Per ristabilire
l’equilibrio senza inflazione occorrerebbe una politica monetaria espansiva in A e
contrattiva in B ma avendo istaurato una unione monetaria ciò non risulta
possibile.
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Se il cambio tra i due paesi fosse flessibile lo spostamento della domanda da
un paese all’altro sarebbe facilmente corretto da una svalutazione della moneta del
paese A che porterebbe ad un accrescimento delle importazioni del paese B
riducendone quelle di A tanto da ristabilire l’equilibrio in entrambi i paesi. Questo
argomento ha portato Mundell a favorire un sistema di cambi flessibili basato su
valute nazionali.
Il problema individuato dall’autore era, quindi, quello di determinare il
dominio geografico che meglio permetteva di realizzare gli obiettivi di politica
economica con una singola moneta. Tale aspetto ha spinto Mundell e
successivamente Kenen ad affermare che un sistema di cambi flessibili tra due
paesi non è il rimedio adatto a correggere gli squilibri che si verificano tra regione
e regione. Supponiamo che sia A che B siano divisi in due zone, l’una
industrializzata a Est e l’altra agricola a Ovest, e ipotizziamo che vi sia un
aumento di produttività nel settore industriale che dia luogo ad un eccesso di
offerta di prodotti industriali ed un eccesso di domanda di prodotti agricoli. In
questo caso lo squilibrio non è tra paesi diversi ma tra due aree dello stesso paese
quindi una variazione del cambio tra A e B risulterebbe inutile. Lo spostamento di
domanda darebbe luogo a disoccupazione a Est e a inflazione a Ovest in entrambi
i paesi, una politica economica espansiva che voglia risollevare il tasso di
occupazione accrescerebbe l’inflazione, una politica economica restrittiva che
voglia ridurre l’inflazione accrescerebbe la disoccupazione in entrambi i paesi. Gli
squilibri potrebbero essere sanati se le monete nazionali fossero sostituite da
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monete regionali e se il cambio tra la moneta “orientale” e quella “occidentale” si
svalutasse. La conclusione di Mundell fu che l’area valutaria per essere ottimale
deve possedere un’alta mobilità dei fattori al suo interno e immobilità all’esterno
e che deve avere il requisito della omogeneità.
Un contributo notevolmente diverso è quello di McKinnon (1963) secondo il
quale «quanto più aperta è un’economia, tanto maggiore è il grado di
desiderabilità di un regime di cambi fissi poiché variazioni dei tassi di cambio di
economie aperte non comportano significative variazioni sulla competitività del
paese»
2
.
Praticamente McKinnon partiva dall’idea che in un paese piccolo frequenti
variazioni del cambio, influenzando fortemente il livello dei prezzi, potevano
danneggiare il corretto funzionamento dell’economia di mercato distruggendo
l’utilità della moneta sia come “riserva di valori” sia come mezzo di scambio.
Rilevante a riguardo è la natura degli shocks che determinano le oscillazioni dei
cambi. Quando essi riguardano il mercato dei beni prodotti, in un regime di cambi
fissi, lo shock che richiede un deprezzamento reale della moneta di un paese darà
luogo a una riduzione del livello dei prezzi del paese o a un minor aumento di essi
a confronto degli altri paesi risultando un sistema deflazionistico, in un regime di
cambi flessibili, invece, la moneta tenderà a svalutarsi dando luogo ad un aumento
del livello dei prezzi dando vita ad un sistema inflazionistico. Quando essi
riguardano il settore monetario bisogna effettuare delle distinzioni a seconda dei
2
TAVALS G. S. (1994), The theory of monetary integration, Open Economies Review, p. 213.
12
luoghi in cui gli shocks hanno origine: se hanno origine all’estero un sistema a
cambi flessibili può isolare il paese dagli shocks e stabilizzare la moneta al
proprio interno, quando hanno origine all’interno i cambi flessibili consentono
maggiori variazioni del livello dei prezzi.
Un altro aspetto importante è rappresentato dal diverso modo in cui le
perturbazioni si propagano da un settore all’altro nei differenti regimi di cambio.
Nel regime a cambi fissi le perturbazioni del mercato delle attività finanziarie
influenzano l’offerta di moneta e i tassi di interesse avendo una ricaduta indiretta
sul mercato delle merci; viceversa, in un regime di cambi flessibili un afflusso o
deflusso di capitali dall’estero modifica i cambi e può avere forti effetti diretti sul
mercato delle merci.
Considerando un paese con continue difficoltà nella bilancia dei pagamenti e
considerando il grado di apertura di un paese come il rapporto tra la quantità
prodotta dei beni commerciabili ed il prodotto totale interno quanto più aperta è
l’economia di questo paese tanto più inflazionistica è la politica secondo la quale
il deficit può essere corretto con la svalutazione. Tale conclusione è supportata da
due argomentazioni. Supponendo che il prezzo dei beni commerciabili a livello
internazionale sia fissato sui mercati mondiali, la svalutazione causa una
variazione dei prezzi interni causando tanta più inflazione quanto più aperto è il
paese; inoltre, supponendo che la percentuale dei beni importati sia elevata i
lavoratori saranno disposti in maniera inferiore a tener fissi i salari monetari
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quando i prezzi delle importazioni aumentano sminuendo l’effetto correttivo della
svalutazione.
A tali argomentazioni si sono opposti alcuni studiosi secondo cui se
l’inflazione fosse più alta all’estero rispetto al paese considerato quest’ultimo
importerebbe più inflazione con la moneta unica che con i cambi flessibili.
Un’altra obiezione è stata relativa al fatto che il ragionamento di McKinnon più
che occuparsi dell’area monetaria ottima si schiera a favore dei cambi fissi ed
estremizzando si potrebbe affermare che l’area monetaria ottimale è il mondo
intero. Infine, secondo altri il modello di McKinnon non ha la proprietà della
generalità dato che la sua applicazione sarebbe stata possibile solo in presenza di
shocks che avessero modificato la domanda dal punto di vista microeconomico e
non in caso di disturbi macro sviluppati all’estero.
Un elemento, invece, fondamentale messo in luce dall’Autore è che maggiore
è la diversità tra i tassi di inflazione nei diversi paesi maggiore è il costo
dell’unione monetaria.
Al 1969 risale un altro contributo fondamentale relativo all’individuazione
della caratteristica distintiva per l’ottenimento di una area valutaria ottimale, si
tratta del lavoro di Kenen. Egli, partendo dalla tesi di Mundell, ridefinisce il
concetto di “REGIONE” intendendola come “un complesso omogeneo di
produttori che usano la stessa tecnologia, si trovano di fronte alla stessa curva di
14
domanda e patiscono o prosperano assieme al mutare delle circostanze”
3
. Dando
questa definizione Kenen arriva alla conclusione secondo la quale “l’area
valutaria ottimale dovrebbe essere sempre molto piccola e dovrebbe coincidere
con la regione di un solo prodotto”
4
. Tramite queste osservazioni si formalizza la
posizione di Kenen che propone quale caratteristica fondamentale delle AVO la
maggiore diversificazione delle economie, e non la mobilità del lavoro. Tale
diversificazione costituirebbe un isolante dagli shocks che colpirebbero il
commercio estero eliminando la necessità di ricorrere a variazioni del cambio
delle valute.
Varie sono le ragioni dell’importanza della presenza di un numero elevato di
regioni monoproduttive incluse nel paese:
1) Una economia domestica diversificata subirà minori cambiamenti in
termini di commercio rispetto ad un’economia monoproduttiva;
2) Al diminuire della domanda delle principali esportazioni il livello di
disoccupazione non sarà così alto come quello che si avrebbe in
un’economia nazionale monoproduttiva;
3) I legami tra domanda estera ed interna, e soprattutto quelli tra
esportazioni ed investimenti, saranno più deboli nelle economie
diversificate cosicché le variazioni nell’occupazione interna e nella
formazione del capitale non saranno correlate in maniera forte.
3
KENEN P. B. (1969), La teoria delle aree monetarie ottime: una nuova interpretazione, in
Giusso, p. 117.
4
Ivi pp. 118-119.
15
Kenen sostiene che quando un paese produce beni appartenenti a settori
produttivi diversi può accadere che nel commercio con l’estero si verifichi
contemporaneamente un successo di alcuni settori ed un insuccesso di altri. La
possibilità di compensare vicendevolmente tali cambiamenti riduce la necessità di
usare i tassi di cambio per ritrovare l’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Rimane fondamentale, per la stabilità, la presenza di una sufficiente mobilità del
lavoro interna al paese. Due sono le situazioni che potrebbero verificarsi:
- la forza lavoro del settore colpito da una diminuzione della domanda
estera è fortemente specializzata e quindi non può essere reimpiegata in
altri settori;
- i due settori produttivi sono piuttosto simili ed è realizzabile un
reimpiego della forza lavoro in esubero del settore colpito.
Tale argomentazione rimane valida fintanto che l’offerta del lavoro rimane
infinitamente elastica rispetto ad un dato saggio di salario e il prezzo
internazionale del bene importato varia allo stesso modo del saggio del salario.
Quindi si può dire che le conclusioni di Kenen sono in netto contrasto con
quelle di McKinnon in quanto essi partono dalla considerazione di due eventi
differenti: il primo prende in considerazione shocks interni mentre il secondo
considera shocks esterni che colpivano i beni di esportazione.
Per Fleming, invece, il criterio distintivo per individuare un’AVO è
rappresentato dalla presenza o meno di tassi di inflazione simili. Egli arriva a
16
questa conclusione perché si considerava che i differenziali dei tassi di inflazione,
congiuntamente alle differenze dei tassi di crescita della produttività, fossero le
cause principali dei problemi relativi alla bilancia dei pagamenti. Alcuni
economisti, infatti, ritenevano che l’efficacia del tasso di cambio come strumento
riequilibratore dipendesse dalla rigidità dei salari e dei prezzi della produzione
interna, almeno nel breve periodo in quanto nel lungo gli effetti si annullerebbero.
Logicamente questa assunzione ha valore se si considera solo la flessibilità
nominale dei salari dato che variazioni del tasso di cambio nominale si
sostituirebbero a variazioni dei prezzi e dei salari interni raggiungendo lo scopo
dell’aggiustamento reale.
Altri economisti hanno individuato come unico criterio da seguire per la
ricerca di un’area valutaria ottimale, quello di una integrazione delle politiche
fiscali.
Una politica di bilancio unitaria è stata ritenuta opportuna per contrastare sia
gli shocks che colpiscono l’insieme dei paesi dell’Unione (shocks “comuni”) sia
quelli che colpiscono solo un paese (shocks “asimmetrici” o “specifici”). Quando
lo shock è comune ogni paese nel decidere autonomamente procura un vantaggio
agli altri paesi infatti le imposte sono pagate dai cittadini del paese, la spesa
pubblica per correggere lo shock sarà inferiore al livello ottimo per il paese
decisore e i benefici che tale politica crea vanno ad appannaggio di tutti i paesi
(quello decisore e gli altri paesi dell’unione).
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Quando lo shock è specifico ogni paese decide autonomamente e nel prendere
decisioni individualmente si arrecano danni agli altri paesi e dato che non tutti i
vantaggi sono goduti dal paese decisore la spesa pubblica sarà inferiore al livello
ottimo per tale paese e superiore a tale livello per il resto dei paesi.
Un contributo chiave in tale direzione è fornito da Adao et al. (2006). Esso
può essere interpretato come una riconsiderazione a livello micro di parte della
letteratura sulle AVO in cui il focus passa dalle politiche monetarie all’importanza
delle misure fiscali.
Gli Autori sostengono che, indipendentemente dalle rigidità nominali e dal
regime del tasso di cambio, se il governo potesse godere di uno svariato numero
di strumenti tassativi si potrebbe creare un regime fiscale capace di assicurare il
raggiungimento dell’equilibrio. Con strumenti adeguati si influenzerebbero le
decisioni di imprese e famiglie, modificando rispettivamente i margini di profitto
e le funzioni di utilità e benessere, assicurando che i prezzi relativi tra paesi e/o tra
settori ed il livello di domanda aggregata siano gli stessi di una soluzione Pareto-
efficiente. Il modello degli autori prevede una diversa implementazione delle
politiche fiscali a seconda che si parli di singolo paese o unione monetaria
prevedendo per quest’ultima la necessità di una politica fiscale anti-ciclica: nei
paesi con shocks positivi sulla produttività sia la politica fiscale che quella
monetaria saranno espansionistiche; negli altri paesi in cui non si verificano questi
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shocks la politica fiscale dovrebbe essere usata per colmare la reazione ad uno
shock monetario derivante da condizioni cicliche di altri paesi dell’unione
5
.
Pur se sono state formulate diverse teorie per l’individuazione degli aspetti
essenziali delle aree valutarie ottimali spesso contrastanti tra loro tali teorie hanno
posto le basi per gli studi effettuati successivamente che ci hanno portato alle
considerazioni dei giorni nostri.
1.3 Approccio COSTI-BENEFICI
Gli studi in materia di Aree Valutarie Ottimali hanno subito un cambiamento
di indirizzo a partire dalla metà degli anni ’70. Tali lavori hanno posto in evidenza
l’importanza del raffronto dei costi e benefici legati ad una unione valutaria
ponderati in base a diverse funzioni di preferenza sociale. Così facendo la
convenienza o meno ad aderire all’unione poteva essere stabilita su base oggettiva
in relazione alle caratteristiche di ogni paese.
Questo nuovo approccio supera, quindi, l’incompletezza di quello
tradizionale offrendo una visione “multidimensionale” del fenomeno e tra i lavori
più importanti spicca quello di Ishiyama
6
.
5
Cfr. Per ulteriori approfondimenti CORSETTI G. (2008), A modern reconsideration of the theory
of Optimal Currency Areas, European Economy, Economic Papers n. 308, Marzo 2008, p. 38.
6
Cfr. Per ulteriori approfondimenti ISHIYAMA Y. (1975), The theory of Optimum Currency
Areas: a Survey, IMF Staff Papers, vol. 22, n. 2.
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Uno dei costi principali di una unione valutaria è rappresentato dalla rinuncia
ad una politica autonoma.
Per la misurazione di tale costo gli economisti hanno studiato il processo di
aggiustamento che segue ad uno shock che grava sulla domanda estera, quindi sul
grado di competitività internazionale sia in presenza che in assenza di
svalutazione.
Come fu indicato da Mundell il riequilibrio di un paese colpito da shock può
essere assicurato da una riduzione dei salari che ripristina l’equilibrio iniziale. Se,
però, i salari nominali sono rigidi verso il basso la rinuncia alle manovre del tasso
di cambio comporta costi elevati in termini di disoccupazione. Tali costi
dipendono dalla misura in cui le variazioni del cambio nominale si riflettono sulle
variazioni del cambio reale e sulle altre variabili reali del sistema. Si evince,
quindi, che il dibattito sui costi associati all’impossibilità di ricorrere alla
svalutazione è collegato a quello relativo all’efficacia del tasso di cambio
nominale in veste di strumento di politica economica capace di influenzare
produzione e reddito.
In uno studio condotto è stato seguito l’approccio dell’”assorbimento” alla
bilancia dei pagamenti
7
ed il risultato ottenuto evidenzia gli stessi effetti sulla
produzione e sulla bilancia commerciale nel lungo periodo sia ricorrendo alla
svalutazione sia ad una riduzione della spesa. Alcuni cambiamenti riguardano il
breve periodo in quanto il ricorso alla svalutazione evita gli effetti deflazionistici
7
Cfr. per ulteriori approfondimenti GANDOLFO (1997), Economia Internazionale, UTET.
20
sulla produzione nella fase di transizione prevedendo, però, una maggiore
inflazione nel lungo periodo; mentre il ricorso alla riduzione della spesa consente
di evitare l’inflazione portando una contrazione della produzione di durata relativa
al maggiore o minore grado di rigidità dei prezzi e salari.
All’impossibilità di ricorrere alla manovra del cambio si aggiunge il problema
dell’abbandono della politica monetaria domestica. L’adozione di cambi fissi
rende neutrale l’offerta di moneta e se si prosegue fino all’adozione di una valuta
unica le banche centrali dei paesi partner sono sostituite da un’autorità monetaria
sovranazionale responsabile dell’offerta di moneta in tutta l’area. Ciò comporta
per i paesi che partecipano all’unione la perdita degli strumenti di politica
economica tra cui il controllo del potere d’acquisto della moneta.
L’offerta di moneta viene stabilita in base all’impatto desiderato sulla
produzione e sull’occupazione. Il legame tra lato monetario e lato reale
dell’economia è rappresentato nella curva di Phillips che descrive una relazione
negativa tra inflazione e disoccupazione. Ponendo il caso che ci siano il paese A
che ha come obiettivo un basso tasso di disoccupazione, e che quindi sopporterà
un tasso di inflazione più elevato, ed il paese B che privilegia la stabilità dei
prezzi avendo un tasso di disoccupazione più alto, la diversità delle scelte relative
agli obiettivi di occupazione e inflazione rappresenta un problema nel momento in
cui i due paesi si uniscono.