IV
Come emergerà nel corso dei capitoli, il tema qui trattato non si giova ancora
di una letteratura numerosa e specifica. Pertanto, nell’intraprendere questo studio,
il mio obiettivo è stato quello di ovviare, seppur in minima parte, a tale lacuna di
tipo teorico. Oltre a ciò, ho pensato di proporre un contributo sperimentale, in
modo da rendere completa la prospettiva di analisi.
Prima di accennare, brevemente, ai contenuti della ricerca, mi sembra
opportuno spendere due parole sulla metodologia impiegata
1
.
Per quanto concerne la ricerca bibliografica, particolarmente difficoltosa per la
ragione di cui sopra ho detto, mi sono largamente servito di banche-dati
elettroniche e di Internet, anche se ho ottenuto alcune delle pubblicazioni, dalle
quali ho attinto per la stesura di questo lavoro, tramite richieste telefoniche a
biblioteche e dipartimenti universitari.
Quanto alla parte applicativa, ho cercato di ideare un esperimento ad hoc,
seguendo l’iter caratteristico della psicologia cognitiva, dalla definizione del
problema di base alla formulazione delle conclusioni.
Il primo capitolo discute, in modo articolato, le implicazioni dell’intuizione
fondamentale di Derrick De Kerckhove, un autore canadese ritenuto l’erede
culturale di McLuhan: le tecnologie della comunicazione giungono ad intaccare il
nucleo stesso dell’individuo, modificandone il cervello a livello dei substrati
neurali sui quali si basa il trattamento delle informazioni. Esse “inquadrano” in un
modo specifico la mente umana, creando una tipica cornice o struttura cerebrale,
alla quale l’autore si riferisce con il termine di brainframe. Sulla base di questi
1
Ho considerato tutti gli aspetti relativi alle tecniche di raccolta dei dati in funzione del punto di
vista cognitivo adottato in questa ricerca.
V
presupposti, l’ultimo paragrafo esamina i correlati biologici in gioco
nell’interfaccia tra utente e computer, soffermandosi in particolare sulle differenze
tra testi elettronici ed ipertesti rispetto ai peculiari brainframe da essi originati.
Il secondo capitolo offre una panoramica della letteratura riguardante
l’attivazione psico-fisiologica dell’utente impegnato in un compito al computer,
descrivendo in modo approfondito gli esperimenti condotti per misurare i
movimenti oculari, l’attività elettrica del cervello, gli indici di affaticamento e
l’attivazione sotto-corticale.
Il terzo capitolo si configura come uno studio sperimentale sull’azione
combinata della lateralizzazione emisferica, del grado di expertise nell’uso del
computer e dell’abilità di orientamento nello spazio, nell’influenzare le modalità
di navigazione in un ipertesto elettronico e di apprendere le informazioni in esso
contenute.
Chiudo questa nota introduttiva con qualche ringraziamento: il primo, e più
caloroso, va alla ditta TECNA s. a. s. di Castellanza (Va) per l’aiuto nel lavoro di
stampa e per il supporto tecnico. Sono grato all’Istituto di Studi sulla Ricerca e
Documentazione Scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche per la
disponibilità mostrata durante il reperimento bibliografico.
Ringrazio infine Cristina Lomazzi per i consigli e gli spunti forniti, oltre che
per la preziosa opera di revisione.
1
Capitolo 1
TESTI ELETTRONICI ED IPERTESTI:
UN’INTERFACCIA BIOLOGICA
1.1 UNA PROSPETTIVA PSICOLOGICA INGENUA
Nei periodi storici in cui si compie il passaggio da un’età tecnologica all’altra,
l’uomo si dimostra immune da eventuali ripercussioni e conserva la propria
identità: i cambiamenti delle tecnologie della comunicazione non lo scalfiscono; è
la realtà esterna a trasformarsi, mentre il proprio mondo interno non subisce
alterazioni. Certamente il nuovo, poiché è sconosciuto e spesso improvviso, fa
paura, sconcerta, inquieta, costringe ad un adattamento veloce e magari forzato;
induce quel fenomeno, collettivo ed individuale, che in psicologia è etichettato
come “resistenza al cambiamento”, frutto di universali meccanismi di difesa del
singolo e della cultura
1
.
1
Il computer è stato, ed è talvolta ancora oggi, un esempio illuminante di come l’affermarsi di una
nuova tecnologia della comunicazione possa creare delle oasi di resistenza irriducibile nella
dinamica di adattamento al nuovo, sia a livello di pratiche d’uso, che di accettazione ideologica.
2
È altrettanto vero che occorre tempo perché un’innovazione tecnologica sia
accolta, capita e assimilata
2
, affinché sia utilizzata in sostituzione o insieme a
tecnologie precedenti: vi è perciò uno sfasamento temporale fra la sua invenzione
e la sua comparsa su vasta scala. Si potrebbe dire che <<la resistenza della psiche
al cambiamento (...) rallenta gli effetti potenziali di un’innovazione, li diluisce nel
tempo>> (Groppo e Locatelli, 1996, p. 98).
Tuttavia, dopo il periodo “fisiologico” di rodaggio, ci si abitua, si può
addirittura arrivare ad assuefarsi allo strumento tecnologico, divenuto ormai
indispensabile e familiare (a riguardo, il telefono e la televisione rappresentano
due casi emblematici). Pertanto, passato il momento di smarrimento iniziale,
esauritosi il movimento di reazione difensiva e consolidatasi la tendenza all’uso
quotidiano, in noi tutto è come se fosse identico a prima, senza mutamenti interni
apparenti, a parte quelli esteriori evidenti: insomma, sopravviviamo indenni alle
tappe tecnologiche.
Questa è un’idea ingenua ma al tempo stesso rassicurante, spesso implicita e
spontanea, che lo psicologo sprovveduto condivide con la morale popolare, a cui
fanno da contraltare le tesi di Derrick de Kerckhove
3
(1991; 1995), precisamente
opposte, che costituiscono i nodi della rete concettuale di questo capitolo.
2
Il termine “assimilare” evoca un processo psico-biologico, che, non a caso, è il filo conduttore di
tutto il capitolo.
3
Studente, stretto collaboratore ed erede intellettuale di Marshall McLuhan, Derrick de Kerckhove
insegna all’università di Toronto e dirige l’Istituto McLuhan. Si occupa da molti anni delle
interazioni neuro-culturali tra la tecnologia ed il corpo, i media e la cultura, l’arte e la
comunicazione. È inoltre promotore di un ambito sperimentale che unisce l’arte, l’ingegneria e le
nuove tecnologie comunicative.
3
1.2 INQUADRAMENTO TECNOLOGICO E CEREBRALE
L’uomo ha una straordinaria capacità di fronteggiare i cambiamenti importanti
che lo riguardano: prova ne è il fatto che ha imparato ad accettare successivamente
il telefono, la televisione, il computer, ecc. Occorre tuttavia uscire da una
prospettiva che riduca il problema delle ripercussioni tecnologiche sulla mente
umana ad una mera crisi, spesso lunga e disorganizzante, ma pur sempre
transitoria, in quanto espressione sintomatica necessaria del processo di
adattamento al nuovo. Perciò, ad una visione superficiale che concepisce
l’individuo come immutabile ed intangibile, è indispensabile contrapporre
un’analisi approfondita dell’impatto strutturale che la tecnologia ha su di lui, come
quella, particolarmente illuminante, presente nel pensiero di De Kerckhove (1991;
1995).
Egli sceglie come presupposto l’assunto di McLuhan (1964), secondo cui ogni
tecnologia è l’estensione e il prolungamento del corpo e del cervello dell’uomo, e
conia il termine di “psico-tecnologia” <<per definire una tecnologia che emula,
estende o amplifica le funzioni senso-motorie, psicologiche o cognitive della
mente. Per esempio, mentre la televisione generalmente viene percepita solo come
conduttore a senso unico di materiale audio-visivo, sarebbe utile che gli psicologi
la percepissero come un’estensione dell’occhio e dell’orecchio fino ai luoghi da
cui le immagini provengono>> (De Kerckhove, 1991, trad. it. pp. 22-23).
Secondo l’autore è indubitabile che ogni epoca tecnologica porti con sé un
potenziale di trasformazione dirompente, ma non è stato ancora chiarito come
quest’ultimo agisca sull’uomo. Quindi, come possibile interpretazione di tale
4
meccanismo, l’autore postula circuiti, connessioni, meccanismi di retroazione,
arrivando per questa via al nucleo della sua ipotesi fondamentale: le innovazioni
tecnologiche modificano la nostra mente ed il nostro cervello.
Sarebbe del tutto sensato, e persino logico, domandarsi che cosa (e perché)
impedisca all’uomo di essere consapevole di un fenomeno che avrebbe un impatto
così radicale sulla propria psiche. La risposta si potrebbe trovare esaminando
quelle organizzazioni psicologiche difensive che preservano l’individuo da ogni
presa di coscienza in grado di minacciare quel senso di continuità spazio-
temporale che costituisce il fondamento dell’identità individuale e collettiva. Del
resto, lo stesso autore afferma che è molto difficile accorgersi dell’influenza così
profonda che la tecnologia ha su di noi, perché <<la nostra vita cosciente è
governata dalla psicologia. La psicologia, a meno che non ci siano gravi disturbi,
esercita una necessaria azione stabilizzatrice: assorbe i cambiamenti e conferisce
un aspetto di continuità alla nostra vita>> (ivi, trad. it. p. 12). Ciò non significa
peraltro che tale funzione psichica abbia sempre successo o riesca ad assolvere il
suo compito per un periodo temporalmente indefinito. Infatti le conseguenze
dell’impatto tecnologico si cumulano, e si può quindi supporre che a lungo
termine ciò provochi una frattura a livello degli atteggiamenti psicologici e
culturali anteriori e posteriori al mutamento tecnico dominante una data epoca: è
quello che si è in effetti verificato, negli ultimi tre decenni, con la televisione, il
computer e le reti multimediali.
Groppo e Locatelli (1996) sostengono che le varie tecnologie della
comunicazione (oralità, scrittura, stampa, computer ed informatica multimediale),
che si sono affermate in successione nell’arco dell’evoluzione che ha portato
5
dall’uomo primitivo all’uomo civilizzato, hanno interagito con le capacità mentali
umane, creando nuove abilità, influenzando intimamente l’interpretazione del
mondo e determinando l’affermarsi di un corrispondente sensorio, ossia una
modalità percettiva dominante. Qualche esempio potrà chiarire il senso di questa
concezione:
a) nel periodo storico in cui le modalità di trasmissione della cultura erano
regolate dall’oralità (dalla conquista del linguaggio da parte dell’Homo Habilis,
fino all’introduzione della stampa a caratteri mobili nel 1450 circa), il sensorio
dell’uomo era globale, emotivo, prevalentemente uditivo e focalizzato sugli
aspetti non verbali dei messaggi;
b) con l’invenzione della scrittura (IV millennio a.C.), che separa la parola
dall’uomo, trasformandola <<da suono “vivo” in segno inerte>> (ivi, p. 91),
l’occhio diviene il fulcro di una conoscenza frammentata nei segni visivi; la
stampa, permettendo di percepire ciò che è scritto come un dato oggettivo,
consente di distinguerlo dal significato che gli si attribuisce, e, di conseguenza,
getta le basi della rivoluzionaria dicotomia tra oggettività ed inferenza;
c) il computer, che è l’emblema tecnologico del terzo millennio, essendo una
macchina in grado di effettuare operazioni di lettura e di scrittura tramite le
istruzioni imperative del software, ribadisce la priorità dell’aspetto razionale,
semantico e sequenziale collegato alla modalità percettiva della visione;
d) infine, l’informatica multimediale (un ambito che include ad esempio la realtà
virtuale, le reti neuronali, l’ipertesto
4
, ecc.) riporta alla ribalta l’aspetto
4
Dell’ipertesto e degli altri settori della multimedialità si parlerà diffusamente nel seguito di questo
paragrafo e in quelli successivi.
6
corporeo-affettivo dei messaggi; l’attivazione, l’integrazione e la plasticità di
tutti e cinque i sensi umani; il linguaggio non verbale; la simultaneità e
l’immediatezza.
Si tratta quindi di una visione che prende a cuore il problema dell’incidenza
tecnologica dal punto di vista psicologico, suggerendone soprattutto le
implicazioni per i processi educativi, a seconda delle qualità percettivo-sensoriali
sollecitate dallo strumento tecnico con cui di volta in volta si ha a che fare. Inoltre
essa amplia il raggio d’azione del contributo di De Kerckhove (1991; 1995),
poiché si occupa, con un taglio antropologico, anche delle ricadute, sull’individuo
ed i suoi fondamenti, dei prodotti culturali, intesi come materializzazioni esteriori
del corpo e del cervello umani.
De Kerckhove (1991; 1995) ha però un obiettivo più radicale: spiegare cioè
come avvenga de facto la mediazione tra il cambiamento tecnologico e quello
psicologico, nel passaggio dall’esterno all’interno dell’individuo, e viceversa. Ciò
corrisponde, a livello generale, a due sotto-scopi particolari:
a) l’elaborazione di un modello teorico che funga da sostegno esplicativo su cui
appoggiare l’analisi del fenomeno in questione;
b) la ricerca di una base biologica, in particolare psico-neuro-fisiologica, ovvero
di un substrato oggettivo, in cui sia possibile individuare il punto d’incontro tra
tecnologia e psicologia.
Per quanto concerne il problema espresso sinteticamente al punto “a”
5
, secondo
De Kerckhove (1991) la tecnologia è soggetto ed oggetto di una duplice azione,
5
Il punto “b” verrà sviluppato nel paragrafo 1.4.
7
attiva e passiva. In quanto elemento esterno all’uomo (cioè come esteriorizzazione
del proprio corpo e della propria mente), essa ne “inquadra” i processi psichici in
generale e cognitivi in particolare, investendo e trasformando i modi di elaborare
le informazioni. Di conseguenza, all’interno del cervello e del pensiero umani si
sviluppano cornici (in cui queste nuove tecnologie sono “inquadrate”) il cui
effetto, tra l’altro, è quello di preparare l’utente ad un approccio ottimale rispetto
ad esse, rendendone efficace il loro impiego.
È opportuno precisare che le due azioni a cui si è appena accennato, non si
devono in alcun modo concepire come due momenti di una sequenza temporale
che veda il movimento di inquadramento psicologico seguire e presupporre la
precedente tensione di inquadramento tecnologico. Nondimeno, la loro distinzione
è utile solamente per una migliore comprensione e spiegazione, in sede teorica,
del fenomeno in questione, mentre a livello fattuale perde di valore e di
significato.
Piuttosto, non è insensato scorgervi i due poli cruciali di quel rapporto di
feedback reciproco e continuo che rappresenta metaforicamente il legame
esistente fra tecnologia e psicologia.
Per chiarire il significato del termine “inquadrare”, si rivela nuovamente
proficuo il riferimento a De Kerckhove (1991), ed in particolare all’intuizione
teorica del brainframe, che si dimostra la chiave di lettura in grado di favorire una
piena comprensione del punto di incontro “tecno-psicologico” e “psico-
tecnologico”.
8
1.3 IL CONCETTO DI BRAINFRAME
Se si riprende il filo delle argomentazioni di De Kerckhove (1991), si può
constatare come esso abbia seguito due passaggi logici concatenati:
- le tecnologie della comunicazione hanno profondi effetti sulla psiche umana;
- esse influenzano la mente “inquadrandone” il cervello, e subendone,
contemporaneamente e retroattivamente, l’azione di “inquadramento”.
Rimane però da compiere un ulteriore passo sulla via di una concezione teorica
esaustiva: cioè, è necessario stabilire in che modo si esplica l’effetto della
tecnologia su quello che a buon diritto è l’elaboratore di tutti i dati provenienti
dall’esterno e dall’interno dell’uomo. La nozione di brainframe si configura per
l’appunto come il terzo anello mancante di questa catena logica.
L’idea ad esso sottesa è che ogni tecnologia di trattamento delle informazioni
“incornici” i processi neurali in una struttura, spingendo, stimolando, sfidando il
cervello a costruire, creare, fornire, un modello corrispettivamente diverso, ma
ugualmente efficace, di interpretazione della realtà. Il brainframe è precisamente
tale struttura cerebrale specifica corrispondente ad una determinata tecnologia, su
cui fanno leva le funzioni cognitive ed emotive tipiche del nostro pensiero. De
Kerckhove (1991) lo definisce così:
Il cervello umano è un ecosistema biologico in costante dialogo con la tecnologia e la cultura. Le
tecnologie basate sul linguaggio, come la radio e la TV, possono “incorniciare” il cervello sia
fisiologicamente, sul piano dell’organizzazione neuronale, che psicologicamente, sul piano
dell’organizzazione cognitiva. Altre tecnologie - come i satelliti e le reti telefoniche - sono
divenute dei prolungamenti del cervello e del sistema nervoso centrale. Queste tecnologie creano
9
delle strutture che “incorniciano” l’ecosistema. Un brainframe è qualcosa di diverso da un
atteggiamento o da una mentalità, pur essendo tutto questo e molto di più. Pur strutturando e
filtrando la nostra visione del mondo, esso non è esattamente un paio d’occhiali di tipo
particolare - dato che il brainframe non è mai localizzato nella struttura superficiale della
coscienza, ma nella sua struttura profonda (ivi, trad. it. pp. 10-11).
De Kerckhove (ibidem) lo paragona al “linguaggio macchina” (o software) del
computer, mentre afferma che il concetto di mentalità e quello di visione del
mondo evocano un livello qualitativamente più elevato di elaborazione delle
informazioni.
Per fare due esempi, il brainframe creato dall’alfabetizzazione ha inciso in
modo capitale sulla maniera in cui organizziamo le informazioni: la capacità di
leggere e di scrivere ha posto le basi per lo sviluppo delle abilità di classificazione
e di combinazione degli input secondo la struttura alfabetica. Allo stesso modo, il
brainframe forgiato dalla televisione, intesa come proiezione del nostro inconscio
emotivo (De Kerckhove, 1995), influenza, fin da bambini, i movimenti oculari e la
qualità della risposta ai suoi messaggi, più corporea ed emotiva che razionale e
critica.
Inoltre, affinché si possa parlare di brainframe in termini cognitivi, bisogna
assumere come presupposto la combinazione di tre elementi che operano in
sinergia:
- la povertà delle informazioni su cui si basa la struttura cerebrale;
- il decisivo lavoro di mediazione e d’interpretazione che caratterizza l’attività
neuronale;
- la minima porzione del cervello occupata in esso.
10
Un certo tipo di presentazione dell’informazione implicata da una determinata
tecnologia, crea un tipico brainframe, ovvero obbliga il cervello a ricorrere ad
una specifica strategia: esso però non recepisce, né del resto esige, tutte le
informazioni disponibili, ma, risparmiando tempo ed energia, tratta soltanto quelle
utili al processo di elaborazione. A partire da input così scarsi ed attivandosi
solamente in minima parte, esso ricrea, inferisce, astrae, sintetizza l’oggetto
dell’elaborazione, in un atto interpretativo che ha un sapore quasi magico. Il caso
del brainframe alfabetico è a riguardo paradigmatico: ad esempio il cervello, che
ha imparato a leggere, ricostruisce un’immagine tridimensionale e prospettica a
partire da una piccola parte della luce, che, attraverso la pupilla, arriva alla retina e
dai pochi elementi dell’oggetto visivo che raggiungono entrambi gli emisferi.
De Kerckhove (1991) sottolinea un ultimo aspetto del brainframe: di ogni
medium distingue un elemento di entrata (processo o programma) ed un elemento
di uscita (quadro o cornice). Nel caso della TV il primo è rappresentato dal tubo
catodico, il secondo dallo schermo video: essa, in quanto “finestra sul mondo”
inquadra sia i contenuti che mostra, sia il modo in cui l’utente guarda gli spettacoli
proposti (crea, in altre parole, il brainframe televisivo). Da questo esempio si
evince, una volta di più, che l’individuo è “incorniciato” dalle sue stesse “cornici”.
Questa visione potrebbe essere arricchita da una sintetica ma ragionata
carrellata sui brainframe (o cornici) più importanti della nostra mente e della
nostra cultura.
11
1.3.1 I REFERENTI
De Kerckhove (1991) seleziona quattro ambiti di riferimento in cui
l’applicazione del concetto di brainframe
6
si dimostra particolarmente efficace e
feconda:
1) il campo dell’alfabetizzazione;
2) il mondo della televisione e dei computer;
3) il settore dei sistemi esperti e delle reti neuronali;
4) la realtà virtuale (RV).
1) De Kerckhove (1995, trad. it. pp. 194-195) sottolinea che il linguaggio è stato
la nostra prima tecnologia e che la scrittura ha consentito di sfruttarlo come
medium di controllo simbolico e pratico. L’alfabeto è il programma interno
7
del
brainframe alfabetico. Dal punto di vista storico, esso è l’approdo evolutivo di
una linea di sviluppo incominciata a partire dall’invenzione della scrittura nel
mondo mesopotamico del IV secolo a. C., chiaramente e direttamente intrecciata
con la nascita della moneta.
Riassumendo brevemente un iter trasformativo durato migliaia di anni,
accadde questo: le tessere (o “gettoni”) d’argilla dei Sumeri, che simboleggiavano
animali (e. g. pecore) oppure oggetti (e. g. anfore di vino), ed erano impiegate
come cambiali a garanzia dell’onestà delle transazioni commerciali, furono
racchiuse in un secondo tempo in contenitori (bullae), per preservarle dalla
falsificazione. Questo non era però un sistema conveniente, dal momento che
occorreva rompere la bulla per poterne vedere il contenuto esatto: perciò, con il
6
Le aree cui ineriscono i quattro tipi di brainframe non saranno descritte in una successione
casuale, ma secondo l’ordine temporale della loro comparsa storica.
7
Si veda supra, p. 10.
12
passare del tempo, i segni (con forme sempre più convenzionali) furono incisi
sulla sua superficie. A questo punto la bulla stessa divenne perfettamente inutile,
poiché i tratti potevano essere scolpiti su altri supporti, più comodi e resistenti: le
tavolette-moneta d’argilla, che comportavano <<l’adozione di una forma grafica
bidimensionale e standardizzata>> (Groppo e Locatelli, 1996, p. 95). Esse
aumentarono di numero insieme ai loro disegni, caratterizzati dalla combinazione
di segni pittorici (raffiguranti la merce) e convenzionali (che ne specificavano la
quantità), sempre meno “iconici” e più stilizzati.
In seguito si comprese che anche il linguaggio, come gli oggetti, avrebbe
potuto essere simboleggiato in tal modo. I segni rappresentarono dapprima le
immagini (pittogrammi), poi le idee (ideogrammi) ed infine, con la scoperta del
principio fonetico, i suoni della lingua (fonemi): ciò rese possibile la nascita del
primo alfabeto sillabico (scrittura cuneiforme).
L’ultimo passaggio fu l’assimilazione dell’alfabeto consonantico (diffuso dai
Fenici nel bacino mediterraneo) da parte dei Greci tra i secoli IX e VIII a. C.: <<le
lettere dei fonemi che in greco mancavano, vennero utilizzate per annotare le
vocali>> (Groppo e Locatelli, 1996, p. 104). In questo modo si rese disponibile
<<un grafema per ogni singolo suono (fonema)>> (ibidem), che consolidò
definitivamente la scrittura alfabetica, facendone uno strumento <<economico ed
incredibilmente potente, poiché con poco più di una ventina di segni permette di
rappresentare l’intero universo semantico di una lingua!>> (ibidem).