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Introduzione
Per un’impresa oggigiorno le performance economico-
finanziarie non bastano più: sempre più queste si fanno
carico di tematiche sociali ed ambientali rilevanti. Da
ciò è nato il tema della Corporate Social Responsibility,
che negli anni ha assunto diversi nomi con diverse
sfumature di significato. Sul tema vi sono circa 60 anni
di letteratura, che col tempo si è evoluta, anche se ad
oggi non si è arrivati ad un significato univoco del
termine.
In un mondo sempre più globale, in cui le informazioni
viaggiano a velocità impressionanti, la reputazione delle
imprese rappresenta “il” fattore fondamentale per
sopravvivere nel contesto in cui operano. Ciò
presuppone che vi sia un legame fondamentale
impresa-ambiente, in grado anche di condizionare le
azioni delle imprese nonché i suoi risultati economico-
finanziari.
Il mio lavoro si articola in 3 capitoli: il primo spiega il
contesto e la gestione delle Corporate Social
Responsibility, citando alcuni dei più importanti
contributi della letteratura; il secondo capitolo, per non
rimanere in ambito astratto, fa alcuni esempi di CSR nei
due paesi pionieri di tali pratiche: Regno Unito e Stati
Uniti; nel terzo capitolo infine, vi è prima una review
della letteratura sulla relazione tra Corporate Social e
Financial Performance e poi vi è la parte puramente
empirica da me elaborata, in cui indago su tale legame,
tenendo conto delle assumptions e dei limiti della
ricerca.
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Capitolo 1
Il tema della CSR: origini e sviluppi
1.1 Corporate social responsibility: overview
Le legittimazione del business negli ultimi anni è scesa
drasticamente, le imprese sono state accusate di essere
responsabili di problemi sociali, economici ed ambientali
e di prosperare a spese della collettività. A queste
accuse le imprese hanno risposto diversamente: c’è chi
ha continuato ad agire senza tener conto dell’ambiente
attorno a sé, e c’è chi ha voluto approfondire le
tematiche del contesto in cui opera. La presa di
coscienza da parte delle imprese delle proprie
responsabilità sociali nei confronti di una crescita
sostenibile e coerente con lo sviluppo delle comunità in
cui opera, si afferma nelle economie più
industrializzate, già verso la metà degli anni ’50,
quando da una crescita sfrenata, si passa alla
cosiddetta economia di scarsità, in cui le imprese si
espandono sui mercati internazionali e diventano
sempre più concorrenziali. È in tale contesto che si
sottolinea la rilevanza, per le scelte aziendali, non solo
dei risultati economici, ma anche dei connessi effetti di
natura sociale. L’impresa non è avulsa dal contesto
sociale in cui opera, ma imprese e mercati diventano
sempre più internazionali e vasti e vi è la necessità di
contemperare interessi economici e sociali: da queste
basi nasce e si sviluppa il concetto di Corporate Social
Responsibility (d’ora in avanti CSR). Gli obiettivi sociali
ed economici sono sempre stati visti in maniera distinta
e spesso in competizione, ma ciò rappresenta una falsa
dicotomia, dato che i mercati diventano sempre più
globali e la competenza sempre più aperta e più
“knowledge-based”. Ad esempio, l’istruzione è sempre
stata vista come un problema sociale, estraneo
all’impresa ma avere personale ben skillato con un
buon livello di istruzione serve a migliorare la
competitività dell’impresa.
Per entrare nell’ottica della CSR, è necessario avere una
prospettiva di medio-lungo termine, in cui obiettivi
sociali ed economici siano complementari e non
contrastanti. Sempre più la competitività delle imprese
dipende da soft-skills che è necessario sviluppare se si
vuole mantenere un vantaggio competitivo. È
necessario dunque creare valore, attraverso tale
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approccio che contemperi i due interessi in ballo. “Sono
i bisogni della società e non solo i bisogni economici
convenzionali a definire i mercati” (Porter M. E. e
Kramer M. R. 2011, pag.69).
L’approccio verso la creazione di valore che si insegna
ancora oggi nelle Business School, è basato su una
visione di breve termine, che ha gradualmente perso di
vista i bisogni dei consumatori e ignora le variabili che
ne determinano il successo di lungo termine. Business e
società sono contemplati come due forze contrapposte,
per cui l’impresa che voglia fornire benefici economici
alla società, deve sacrificare la propria performance
economico-finanziaria. Così le imprese hanno ignorato
le problematiche sociali e hanno delegato tale compito
ai Governi e alle Organizzazioni Non Governative
(ONG), che hanno posto in essere politiche che hanno
bloccato la crescita, i cui risvolti sono stati la
standardizzazione, la competizione sul prezzo, la scarsa
innovazione, la crescita organica lenta e l’assenza di un
chiaro vantaggio competitivo (Porter M. E. e Kramer M.
R. 2011). Per anni si è creduto che vi fosse un trade-off
tra efficienza economica e progresso sociale,
convinzione che è stata smentita non solo dalla
letteratura sulla CSR, ma anche da numerose ricerche
che contemplano una relazione positiva (altre volte
neutrale o negativa) tra pratiche di CSR e performance
economico-finanziarie (tale relazione rappresenta infatti
il cuore di questo lavoro).
Finora la visione ristretta del capitalismo, ha impedito
alle imprese di occuparsi o quanto meno di prendere
coscienza dei problemi sociali, ma è bene ribadire che
“Il capitalismo è un mezzo ineguagliabile per
soddisfare i bisogni umani, migliorare l’efficienza,
creare posti di lavoro e costruire ricchezza.” (Porter M.
E. e Kramer M. R., 2011, pag.69). Per originare una
nuova ondata di innovazione e crescita è necessario
ridisegnare il capitalismo e soprattutto l’approccio tra
questo e la società.
In un mondo ormai incentrato sui concetti di offshoring,
riduzioni salariali, riduzioni dei benefit, prende piede la
consapevolezza che per una maggiore produttività dei
dipendenti è necessario semplicemente “farli stare
bene”, pensando agli effetti positivi di un salario
dignitoso, di una maggiore sicurezza, della crescita
professionale e della formazione – la Johnson&Johnson
ha implementato un programma che ha permesso ai
suoi dipendenti di smettere di fumare: non solo due
terzi sono riusciti a smettere, ma sono riusciti ad
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aumentare la loro presenza in azienda, dunque la loro
produttività; i costi di tale iniziativa sono stati più che
compensati dai risparmi in termini di assistenza
sanitaria.
L’obiettivo della CSR deve essere mirato a espandere la
dotazione di valore economico e sociale, perché le
imprese sono arrivate a riconoscere che i danni e i
problemi sociali creano costi interni – si pensi allo
spreco di energia o di materie prime o ai costi di
addestramento del personale- e dunque tale maggiore
consapevolezza dei problemi sociali può accrescere la
produttività ed espandere i mercati.
Per anni si sono trascurati i bisogni dei consumatori nei
paesi in via si sviluppo, ignorando che questi
rappresentassero una nicchia molto profittevole in
quanto hanno enormi bisogni da soddisfare: ad
esempio i telefoni cellulari a basso prezzo che
permettono l’accesso all’home banking stanno aiutando
le popolazioni povere a risparmiare.
Il successo delle imprese dipende dai cluster in cui
queste hanno scelto di collocarsi; un cluster include non
solo le imprese ma anche enti accademici, associazioni
imprenditoriali; le imprese sfruttano gli asset pubblici di
quella comunità, come ad esempio le infrastrutture, le
scuole, le Università, l’acqua potabile, le leggi, gli
standard di qualità e così via. Avere dei mercati
trasparenti e corretti, migliora sensibilmente i ricavi e il
potere di acquisto dei cittadini, oltre a consentire ad
un’impresa di assicurarsi forniture affidabili. Ciò
consente di creare un circolo virtuoso, che ha effetti
moltiplicatori perché creando lavoro, nascono nuove
aziende ancillari e la domanda aumenta. Per poter fare
ciò, è necessario individuare i punti di debolezza delle
comunità e i maggiori vincoli allo sviluppo e l’impresa
sulla base delle sue core-competences, deve agire al
fine di esercitare un’influenza diretta insieme ad altri
partner quali ONG, Enti Governativi ed altre imprese.
1.2 Definire e capire la CSR
Numerosi studiosi hanno cercato di dare una definizione
univoca del concetto, ma le risposte in merito non sono
ancora chiaramente definite. È possibile affermare che
la CSR è un nuovo approccio strategico alle gestione
d’impresa, basato su una visione relazionale della
stessa. È, in sintesi, innovazione per la sostenibilità
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dell’azienda (corporate sustainability) e dello
stakeholder network in cui questa è inserita. (Perrini F.
e Tencati A. 2008, pag.3).
I concetti racchiusi in tale definizione sono diversi,
primo fra tutti la centralità delle relazioni come nuovo
asset strategico, la pervasività dell’informazione, ormai
a disposizione di chiunque, che porta inevitabilmente a
un’interazione impresa-società. Tale interazione è
valida ed applicabile sia per le Pmi, sia per le Big
Corporation, le quali oggi più che mai, devono prestare
attenzione alla reputazione, alle relazioni con gli
stakeholders, in quanto la diffusione delle informazioni
avviene su scala planetaria e quasi istantaneamente.
Dunque la parola d’ordine è sostenibilità, per creare
valore grazie alle relazioni: tutto ciò si estrinseca nella
“stakeholder value”, la quale può assumere diverse
forme: adeguata remunerazione per soci e azionisti;
condizioni lavorative che mettano in risalto skills e
capability di ognuno; solide relazioni con finanziatori e
fornitori; corretto e responsabile pagamento delle
imposte; cura dell’ambiente. (Perrini F. e Tencati A.
2008, pag.5).
La definizione Ue menziona che la CSR è “l’integrazione
su base volontaria, da parte delle imprese, delle istanze
sociali e ambientali nelle loro attività e nell’interazione
con gli stakeholders” (Perrini F. e Tencati A. 2008,
pag.6), che sulla base delle considerazioni svolte
sinora, diviene un approccio strategico cruciale per il
management aziendale.
La CSR è dunque la nuova chiave del successo
aziendale: la Commissione Europea nella
Comunicazione del 2006 sottolinea che “le imprese,
quali motore per la crescita economica, creazione di
lavoro e innovazione, sono attori chiave per l’obiettivo
di sustainable development. (…) L’Europa non ha solo
bisogno di business ma di business socialmente
responsabile, che prenda la sua parte di responsabilità
negli affari europei” (Commissione delle Comunità
Europee 2006, pag.3). Non più cost-based competition
ma value-based competition, la quale mira a fare della
conoscenza, dell’intelligenza e della creatività le
componenti fondamentali per un successo duraturo.
È bene chiarire che la CSR non è filantropia, in quanto
non si riduce alla semplice beneficienza ma mira a
contemperare interesse sociali ed economici; non è uno
strumento a disposizione dell’impresa, ma deve essere
intesa come un nuovo modo di intendere l’impresa e
l’ambiente; non è un ambito delegabile a ONG o altri
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enti, ma ha valenza relazionale e collaborativa; va oltre
la compliance normativa e rientra nell’ambito delle
norme volontarie e non può essere vista solo come una
“window dressing”, ma deve coinvolgere tutti gli ambiti
e portare a un cambiamento radicale della cultura
aziendale. Come recitano Post, Preston e Sachs (2002,
pag.9): “the capacity of a firm to generate sustainable
wealth over time, and hence its long-term value, is
determined by its relationships with critical
stakeholders”.
La CSR induce a spostare l’attenzione da obiettivi di
breve termine a obiettivi di lungo termine: avere una
buona corporate governance, accompagnata da un
ripensamento degli obiettivi di business e delle finalità
dell’impresa, è fondamentale in quanto gli organi di
governo sono il motore dell’impresa. (Perrini F. e
Tencati A., 2008).
Il concetto di creazione di valore ha assunto diverse
concezioni, passando dallo “shareholder value
approach” allo “stakeholder value approach”, ove per
stakeholder si intende “colui che ha interesse
nell’attività d’impresa”. Grazie a tale approccio, è
possibile considerare non solo l’ambito economico ma
anche gli ambiti sociale ed ambientale (la c.d. Triple
Bottom Line). La Bottom line, nella terminologia
anglosassone, è l’ultima riga del Conto Economico, la
quale deve essere affiancata, come già affermato, agli
ambiti sociale ed ambientale (Perrini F. e Tencati A.,
2008). L’impresa per il solo fatto che si stabilisce in un
territorio, assume un ruolo cruciale all’interno
dell’organizzazione e può trarre maggiori benefici se
l’ambiente si evolve in maniera coerente con le sue
aspettative. (Perrini F. e Tencati A., 2008).
La creazione di valore economico, rappresenta un
obiettivo più nobile e più evoluto rispetto alla
massimizzazione del profitto, e necessita di solidi valori,
in grado di integrare opportunità di crescita
economiche, ambientali e sociali nelle loro pratiche e
strategie; in particolare, bisogna considerare l’impatto
che hanno gli intangibile assets sulla creazione di
valore, in particolare sul brand e sulla reputazione.
Tutto ciò può essere racchiuso nel concetto di
sostenibilità intesa come “capacità di un’organizzazione
di continuare le sue attività indefinitivamente, avendo
tenuto in debita considerazione il loro impatto sul
capitale naturale, sociale e umano” (Perrini F. e Tencati
A. 2008, pag.40).
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Per mettere in atto tale concetto, è necessario
identificare tutti i bisogni, i benefici e i danni di natura
sociale di cui è necessario tener conto per sviluppare il
business: in questo modo si aprono nuove strade per
l’innovazione e si crea valore. Questo è il compito
affidato alla CSR: poter rappresentare “un nuovo
approccio al perseguimento del successo economico”
(Porter M. E. e Kramer M. R. 2011, pag.69).
1.3 I contributi manageriali in tema di CSR: cenni
Per meglio capire il concetto di responsabilità, è bene
risalire all’etimologia della parola, proveniente dal latino
“respondeo”, un verbo giuridico che significa “essere
garante in giustizia”. La discussione sul tema ha preso
piede intorno agli anni ’30 e ’40 grazie ai lavori di
Barnard, e si poi estesa a partire dagli anni ’50 con il
lavoro di Bowen.
Nel lavoro di Bowen del 1953, considerato il padre della
CSR, si sottolinea come la dimensione dei risultati
economici deve essere correlata alla dimensione sociale
e che, nello specifico, la responsabilità aziendale deve
essere intesa come “ il dovere di perseguire quelle
politiche, di prendere decisioni, di seguire quelle linee
d’azione che sono desiderabili in funzione degli obiettivi
e dei valori riconosciuti dalla società” (Perrini F. e
Tencati A. 2008, pag.64). Nel corso del tempo e specie
negli anni ’70, crebbero i contributi in materia di CSR,
insieme ai temi relativi all’accrescimento del potere
delle imprese e alla globalizzazione. Tuttavia, nella
letteratura manageriale, accanto alla nozione di CSR, si
sono affiancati diversi termini, quali Business Ethics,
Corporate Social Responsiveness, Sustanaible
development, Business Philantrophy, i quali sono usati
come sinomini o servono a esplicitare il concetto di
CSR. All’estremo opposto, si colloca il pensiero di
Friedman (1970), secondo cui l’unica responsabilità
delle imprese è massimizzare i profitti, in quanto gli
altri stakeholders sono in partenza tutelati attraverso
norme giuridiche e rapporti di scambio predefiniti.
Nella visione classica del capitalismo, si affermava che
compito del business era quello di realizzare un profitto
che generasse occupazione, salari, acquisti,
investimenti e imposte; in tale ottica, l’impresa era
totalmente estranea ai problemi sociali e dunque
considerata come a sé stante. Infatti Milton Friedman,
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in un articolo del 1970 del New York Times, asserisce
che “the only social responsibility of business is to
increase its profits”. Alla base di ciò, vi sono due
assumptions fondamentali (che saranno poi smentite
dalla letteratura successiva): la prima è che vi è una
netta separazione tra obiettivi economici e quelli sociali,
e la seconda è che le imprese arrecano minori benefici
rispetto ai donatori privati. Questa seconda assumption,
può essere vera se le donazioni non sono focalizzate su
un argomento, ma se queste sono dirette a migliorare il
contesto competitivo, quindi dirette a migliorare il
“business environment” in cui l’impresa opera, allora
non potrà che migliorare anche la prospettiva
dell’impresa stessa (e forse anche le sue performance
economico-finanziarie?) e soprattutto le relazioni con gli
stakeholders.
Già negli studi di Gino Zappa (1956), si sottolinea il
ruolo preminente dell’ambiente e della necessaria
dipendenza dell’impresa da esso, da cui scaturiscono
vincoli ambientali e sociali per l’impresa. Infatti nel suo
libro “Le produzioni nell’economia delle imprese” del
1956, egli affermava che l’impresa, nello svolgimento
delle sue funzioni aziendali, è spinta da diversi stimoli
ma anche da diversi vincoli economico-sociali da cui
dipende la sopravvivenza delle imprese. Zappa presta
infatti attenzione all’aspetto sociale dell’agire di
impresa, sostenendo che solo in rarissimi casi i semplici
calcoli di convenienza economica guidano le decisioni
aziendali, poiché spesso intervengono altre esigenze di
natura etica, sociale o politica da tenere in
considerazione. (Arrigo E. 2008). Tra impresa e
ambiente, vi è dunque vera e propria dipendenza, e
dunque per gestire in maniera corretta un’impresa è
necessario adottare un approccio dinamico, che sappia
cogliere al meglio i cambiamenti.
Pietro Onida (1951) attenua la forte dipendenza
ambiente-impresa che caratterizzava la produzione di
Zappa, senza negare l’esistenza di un legame. “Le
decisioni aziendali non possono fondarsi solo sull’analisi
della situazione ambientale esistente, ma devono tener
conto anche delle probabili condizioni future, infatti
l’azienda è un mobile complesso e sistema dinamico nel
quale si realizzano in sintesi vitale, l’unità nella
molteplicità, la permanenza nella mutabilità.” (Arrigo E.
2008, pag.8). Onida nel suo lavoro “L’azienda.
Fondamentali problemi della sua efficienza” del 1954 si
sofferma sul ruolo sociale dell’impresa: essa ha il
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compito di elevare il benessere e la personalità
dell’uomo, al fine di realizzare i fini della vita umana.
Saraceno (1967), circa un decennio dopo, quando il
contesto sociale subì un profondo cambiamento a causa
dell’accrescimento del potere dello Stato nell’economia
di mercato, riconosce all’impresa la possibilità di
cambiare il contesto esterno attraverso nuove tecniche
decisionali, una maggiore importanza dei fattori di
produzione – come scuola, trasporti e ricerca - e
programmi a lungo termine.
Carlo Masini (1964), come Saraceno, si sofferma sui
cambiamenti avvenuti nell’ambiente economico-sociale,
quali lo sviluppo delle comunicazioni, della telefonia, dei
trasporti, che hanno portato ad aumentare la variabilità
e l’instabilità dei mercati. Si afferma dunque, anche in
un ambiente mutevole, il principio del dominio
dell’uomo sulle cose e sulle relazioni.
Anche Roberto Fazzi (1982), sottolinea come l’impresa
sia costituita da molteplici rapporti con varie forze e fra
diversi gruppi, nei quali l’impresa deve sopravvivere.
L’impresa non deve mai perdere di vista la collocazione
nell’ambiente socio-economico-politico in cui è inserita.
Allo stesso modo Ferrero (1987), afferma l’esistenza di
vincoli ambientali che insieme ai fattori produttivi,
rappresentano gli input dell’impresa quale sistema
aperto.
Michael Porter nei suoi lavori iniziali degli anni ’80 e ’90
parlava di “cinque forze” e “vantaggio competitivo” e
nel suo pensiero non permeava in alcun modo il
concetto di CSR; solo agli inizi degli anni ’90, Porter
iniziò a parlare di ottimizzazione, di una sorta di
possibile relazione tra regole di tipo restrittivo e
l’innalzamento dell’efficienza, senza però in alcun modo
fare delle considerazioni ambientali. Solo a partire dal
2006, Porter e Kramer iniziano a parlare di relazioni fra
stakeholders e dinamiche strategiche, che si rifanno alla
teoria dello stakeholder management di Edward
Freeman (1984). È solo però con l’attuale crisi
finanziaria, che Porter propone il suo “manifesto” col
quale apre la guerra ad un business immorale e spesso
illecito, e ai giochi a somma zero che barattano gli
impatti negativi con le agende programmatiche di
responsabilità sociale (Porter M. E. e Kramer M. R.
2011, pag.71).
È evidente che nel corso del tempo, il concetto di CSR
si sia evoluto a causa dei cambiamenti avvenuti
nell’ambiente ma mentre gli ultimi contributi teorici,
quali quelli di Porter, Saraceno, Masini, Fazzi e Ferrero