6
suo interno, di luoghi ed orari “proibiti” alle donne; questo è materia del terzo
capitolo.
E’ molto interessante, a mio avviso, come la donna ottocentesca abbia fatto propri
i modelli di femminilità non compiacendoli e adeguandovisi ma incarnandone
un’estremizzazione fino alla parodia, alla caricatura di come la società, ma
soprattutto l’uomo, la desiderava.
La seconda parte dell’analisi tratta la patologia femminile nel Novecento e i
disturbi pertinenti che sono stati analizzati sono quelli dell’alimentazione; il
quarto capitolo tratteggia la società novecentesca come società del “visivo” in
riferimento allo sviluppo di pubblicità e cinema che molto hanno influenzato con i
loro ideali, e ancor oggi influenzano, le masse e la realtà femminile in particolare.
L’ultimo capitolo, il quinto, analizza le specificità di anoressia e bulimia, con
particolare attenzione al ruolo che i fattori socioculturali hanno nella loro
genesi;l’argomento è abbastanza articolato, ed è per questo che è stato diviso in
tre parti: la prima introduce ai disturbi del comportamento alimentare dal punto di
vista clinico e al concetto di disturbo etnico; la seconda e la terza si occupano
rispettivamente di anoressia e bulimia argomentandone la clinica specifica, la
storia e la lettura culturale. I disturbi del comportamento alimentare, con la
violenza con cui si innestano e stravolgono le vite di tante donne, dovrebbero far
riflettere su quanto profonda possa essere l’influenza del contesto socioculturale
in cui viviamo, in particolare su quale sia il confine che separa la volontà di
compiacere quei dettami e la malattia generata da una compiacenza che diviene
ossessione.
7
“…..Comprata, venduta, espropriata dei suoi averi, sposata
senza il suo consenso, ripudiata in caso di sterilità, lapidata in
caso di adulterio, subordinata al padre e poi al marito come
parte del loro patrimonio e offerta alla Chiesa per conservarla
nelle mani dei maschi, le fasciano i piedi perché sia più
fragile, le velano il volto perché non sia vista, la rinchiudono
nel gineceo perché non possa guardare, le recidono la clitoride
perché non possa godere, le cuciono i genitali o le impongono la
cintura di castità perché non possa tradire, la bruciano perché
non possa parlare all’uomo dei misteri del mondo da cui
proviene
2
”
2
Magli (1986) pag. 11
8
CAPITOLO PRIMO: IL XIX SECOLO FRA RESTRIZIONE
FEMMINILE ED EMANCIPAZIONE
1.1 Chi o che cos’è la donna?
Nella seconda metà dell’’800 alla conoscenza scientifica veniva attribuito il
primato su ogni altra forma di conoscenza; fermi portatori di questa convinzione,
specie in Italia, furono i cosiddetti “positivisti”. Tali scienziati riconoscevano però
un eccezione indispensabile alla teoria dell’obiettività e misurabilità in ogni
campo: la donna e il mondo femminile in genere.
3
Donna e uomo apparivano
come una coppia di opposti che ne includeva molte altre (attivo/passivo,
ragione/sentimento, natura/cultura…..) che comunque rafforzavano tutte una
definizione del femminile solo in relazione al maschile. L’autonomia intellettuale
ed emotiva veniva negata alla donna che poteva realizzarsi solo in relazione
all’uomo anche perché nel secondo Ottocento l’essenza della donna stava
nell’essere madre, unico status che permetteva di dare concretezza alla naturale
attitudine femminile all’amore e alle cure; alla donna non si attribuiva pertanto la
possibilità di affermarsi come individuo ma solo nella sua primaria funzione
riproduttiva, ella doveva rinunciare ad essere qualcosa di diverso da ciò che la
natura le imponeva di essere e solo così avrebbe raggiunto la felicità. Questa era
la soluzione alla “questione femminile” secondo gli scienziati ottocenteschi.
La simmetria rispetto all’uomo si configurava in una duplice gerarchia:
1)La semplice constatazione della realtà mostrava che le società in cui le donne
erano pari o superiori all’uomo erano rarissime e comunque a organizzazione
primitiva; società dunque prive di valori agli occhi dell’antropologo ottocentesco:
la superiorità dell’uomo appariva dunque tanto scontata che metterla in
discussione appariva come un fatto ridicolo.
2)Le qualità esaltate nella donna, sentimentalità, istintività e altruismo finivano
col risultare come disvalori in quest’epoca in cui a essere esaltati erano il dominio
della ragione sugli istinti e l’autocontrollo razionale sull’emotività.
3
Babini ,Minuz, Tagliavini (1986) pp. 115-116
9
La concezione ottocentesca della donna si può sintetizzare dunque in un'unica
parola: natura nelle sue molteplici accezioni di istinto, animalità, primitività,
ingenuità.
4
Nel corso dell’800 furono elaborate due interpretazioni del corpo femminile che
appaiono come rappresentazioni simboliche della femminilità: la teoria
dell’”infantilismo” e quella che si può chiamare della “complementarietà
funzionale dei due sessi”. La prima, da attribuirsi a Ecker nel 1866 , riteneva che
il cranio femminile assomigliasse molto più a quello di un bambino che a quello
del maschio adulto e ne deduceva che anche lo sviluppo ontogenetico femminile
si fosse arrestato allo stadio infantile, uno stadio “atavico”, cioè superato , dello
sviluppo della specie umana che rendeva la donna più simile alle specie inferiori.
Ciò che nell’uomo era un’anomalia, gli atavismi, diventava la norma nella donna.
Lombroso, Ferrero, e Sergi , per parlare solo degli italiani, lessero con riluttanza il
destino della donna principalmente nel suo corpo e preferirono impostare la
questione in altri termini: la seconda teoria non vedeva nel corpo femminile i
segni di un’inferiorità, quanto l’effetto di una specializzazione biologica per la
conservazione della specie: uomo e donna erano considerati entrambi perfetti ma
questo rispetto alle diverse funzioni che spettavano ai due sessi nella
continuazione della specie. Come si può facilmente comprendere la differenza fra
le due teorie è solo di chiaroscuri:la rappresentazione del femminile inferiore era e
restava sia nell’una che nell’altra teoria
5
. L’inferiorità mentale della donna
comporterebbe quindi il suo ruolo subalterno e l’autorizzazione maschile ad
“educarla, a sottometterla.
Per ciò che attiene “l’anima” della donna, i temi attorno ai quali gli scienziati
costruivano la psicologia femminile erano: sensibilità, amore, amore materno,
istinto, intuito; gli altri sentimenti, quelli morali, erano preclusi perché propri dei
gradi supremi dell’evoluzione. Per Lombroso e Ferrero il carattere femminile era
il risultato dei tentativi della debole donna di accattivarsi le grazie dell’ uomo-
dominatore minaccioso e potente e solo due sentimenti sembravano riscattare
quest’ immagine: la pietà e l’amore materno. Coesistevano dunque due immagini
4
Babini, Minuz, Tagliavini (1986) pp. 13-14
5
Babini, Minuz, Tagliavini (1986) pp. 130-135
10
di donna , e due spiegazioni distinte della genesi del carattere femminile, : la
natura infantile che la rendeva crudele e la funzione materna che ispira sentimenti
benevoli.
6
Fra le caratteristiche fisiche e quelle psicologiche si generava un
circolo vizioso: le caratteristiche psicologiche erano chiamate a conferma di
quelle fisiche e viceversa rendendo il discorso scientifico più che coerente,
inattaccabile. La forza di questo circolo vizioso risalta quando si considerano le
eccezioni alla rappresentazione consueta della donna: le donne intelligenti, quelle
attive nel rapporto amoroso, quelle che non vedevano nella maternità la loro unica
realizzazione; tutti cancellavano queste tipologie di donne come anormalità, errori
di natura, deviazioni: mostri psicologici di cui non valeva la pena parlare.
Nonostante l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro intellettuale anche in
Italia i sostenitori dell’inferiorità femminile portarono avanti la loro ideologia
continuando a vedere le donne impegnate nelle professioni intellettuali come
un’anomalia; Mantegazza confessava di desiderare una donna intellettuale come
madre o come figlia ma non certo come moglie o come amante.
Si può facilmente dedurre come gli studi e le teorie italiane sulla donna nell’’800
siano condannate al fallimento scientifico perché antropologi e medici assunsero
la donna come oggetto scientifico senza farne un problema, una questione da
mettere in discussione limitandosi a inserire l’oggetto donna negli schemi
interpretativi già esistenti e inadeguati a descrivere quello che veniva da essi stessi
definito “eccezione” al mondo di scientificità e obiettività dell’800
7
.
Dopo aver tracciato il quadro teorico attorno alla concezione femminile nell’’800
passerò ora ad analizzare i vari modi in cui una donna poteva emarginarsi o essere
emarginata dalla società, specialmente nei casi in cui non sceglieva di lasciarsi
andare al suo ruolo predestinato di moglie e madre, nei casi cioè in cui si trovava
a vivere senza la guida e la supervisione di un uomo .
6
Babini, Minuz, Tagliavini (1986) pp. 143-144
7
Babini, Minuz; Tagliavini (1986) pp. 152-159
11
1.2 Le forme di solitudine femminile
Oggi è molto diffuso nel linguaggio comune il termine “singles” che sottolinea il
riferimento ad uno status non identificato dalla mancanza di qualcuno o qualcosa,
e quindi da uno scarto rispetto a una condizione ritenuta normale, ma viene ad
essere solo uno dei modi possibili di vivere l’esistenza non inferiore ad altri status
sociali. Tale connotazione non appare scontata se si riflette sull’accezione
fortemente negativa del termine “sola” o “solo” (antenati della parola singles) nel
XIX secolo. La solitudine ha sempre riguardato sia donne che uomini ma ha
assunto caratteristiche diverse in riferimento alle cause che la producono, al modo
in cui viene affrontata, al valore che la società vi attribuisce
8
. Le facce della
solitudine femminile nell’’800 sono molteplici ed ognuna assume connotazioni
diverse:
La donna nubile era innanzitutto donna senza marito, senza una figura maschile
che potesse assegnarle la connotazione giudicata come la “normalità”: il
matrimonio. Le donne non sposate potevano continuare a vivere nella casa
parentale continuando ad assoggettarsi alla potestà maschile familiare o trasferirsi
nelle cosiddette famiglie sostitutive: aggregati padronali nel caso delle serve
domestiche, istituti assistenziali per orfane, malmaritate, ex prostitute, vedove
ecc., convitti femminili gestiti da proprietari di fabbriche, suore o famiglie di
“specchiata onestà”, comunità religiose riservate per lo più alle strategie familiari
dei ceti più ricchi
9
. Le possibilità erano tante e tutte volte ad evitare la solitudine
femminile nella residenza perché la donna senza un supervisore , senza un
qualcuno che la proteggesse, che decidesse per lei, che ne salvaguardasse l’onore
sessuale non era concepita.
Nella schiera delle cosiddette “Donne senza uomini” erano incluse invece tutte
quelle donne che anche se sposate si trovavano a vivere sole; era il caso di mogli
di emigranti, soldati, esiliati, marinai; in questi casi l’assenza dell’uomo portava a
due conseguenze: da un lato le donne sperimentavano un indebolimento
8
Palazzi (1997) pp. 15-17
9
Palazzi (1997) pp. 23-26
12
economico e sociale ma dall’altro esercitavano funzioni e spazi a loro
tradizionalmente preclusi
10
.
Una terza dimensione della solitudine femminile nell’’800 è costituita dalle
ragazze madri, figure in grado di far vacillare la logica patriarcale perché madri
senza mariti, donne che vanno contro alla logica approvata dei figli all’interno di
un matrimonio legittimo. Concedere loro un posto nella società significava
ammettere che le donne possano da sole rispondere ai propri figli e che il padre
fosse una figura accessoria nella coppia madre-figlio. Le nascite illegittime fra
1750 e 1850 aumentano ma le ragazze madri restano abbandonate a se stesse,
senza appoggio maschile, senza leggi adeguate, senza considerazione sociale
perché ne sono indegne. L’infanticidio evolve in modo inversamente
proporzionale all’aborto e chi fa vivere il proprio bambino deve scegliere fra la
dura vita di madre sola o l’abbandono. Questa pratica era peraltro favorita dalle
ruote che, consentendo l’anonimato, venivano sfruttate anche da coppie legittime
che vedevano la prole come un ostacolo. Per questo motivo le ruote vengono
abolite ovunque fra il secondo ‘800 e gli anni ottanta del secolo scorso e sostituite
da uffici che permettono l’abbandono ma non più la forma anonima
11
.
La vedova è una figura emblema della solitudine in ogni epoca ma la società
ottocentesca ne addirittura promuoveva la solitudine penalizzando le seconde
nozze: ( cosa che non succedeva invece per i vedovi ) la vedova che contraeva un
secondo matrimonio avrebbe infatti rinunciato alla tutela e a volte anche alla
custodia dei figli minorenni. La casa di una vedova doveva diventare inoltre
“trasparente” o cedere la direzione a un parente per permettere il controllo sociale
e l’onore sessuale. Un’ ultima schiera di donne sole che bisogna ricordare fra le
emarginate del XIX secolo è costituita dalle prostitute, oggetto di disprezzo,
oppresse da una libertà illusoria ma anche fonte di compassione e solidarietà, le
lesbiche che vivono una sessualità tollerata perché poco conosciuta e riconosciuta,
le criminali, fantasmi che esplicano i timori della parità e che non riescono ad
essere pari agli uomini neanche nel pagare il loro debito con la giustizia
12
.
10
Palazzi (1997) pp. 27-28
11
Knibiehler in Duby, Perrot (1991) pp. 333-334
12
Duby, Perrot (1991) pp. 304-306
13
1.3 Le discriminazioni economiche: patrimonio e lavoro
I sistemi patrilineari garantivano nelle famiglie nobiliari continuità, potere e
prestigio sociale privilegiando la relazione fra padre e figlio maschio. In assenza
di figli maschi, specie fra i ceti agiati, si provvedeva legittimando i figli naturali o
attribuendo il nome di famiglia al marito di una figlia o con l’adozione che
enfatizzava proprio gli aspetti giuridici della trasmissione del nome e del
patrimonio. Compito essenziale dell’uomo era pertanto, nella società patriarcale
ottocentesca, garantire il passaggio di beni e simboli fra le generazioni del gruppo
parentale paterno mentre quello della donna era assicurare una discendenza
legittima alla famiglia per assicurare tale trasmissione. E’ da precisare che mentre
l’uomo poteva trasmettere il suo patrimonio anche se non si sposava o non aveva
figli legittimi, una donna non sposata o che non diveniva madre all’interno di un
matrimonio falliva nelle aspettative sociali e il suo ruolo nella trasmissione del
patrimonio familiare restava marginale. Alla donna dal “destino fallito” non
restava che la monacazione per ridare un senso sociale alla sua vita
13
. Sul piano
legale le donne sono state per molto tempo accomunate ai minori, nel senso che
sono sempre state assoggettate ad una patria potestà: da quella del padre a quella
del marito a quella di un fratello o altri parenti se restava vedova
14
. La
discriminazione femminile dal punto di vista del patrimonio era trasversale ai ceti:
fra le famiglie dei piccoli proprietari terrieri e piccoli coltivatori affittuari era
diffusa la comunione familiare tacita, una società universale tra conviventi in cui
la proprietà di tutti i beni e di tutti i frutti del lavoro era comune ad ognuno tranne
che a “minori, furiosi, mentecatti e femmine”. Alle “femmine” non solo era
impossibile ereditare in presenza di discendenti maschi ma era anche proibito
usufruire dei frutti del proprio lavoro; l’unico diritto loro accordato era la
sussistenza come corrispettivo del lavoro prestato e la dote come quota di
patrimonio, come peso che la famiglia si accollava per il collocamento
matrimoniale delle figlie
15
.
13
Palazzi (1997) pp. 36-40
14
Palazzi (1997) pag. 44
15
Palazzi (1997) pp. 310-316
14
Le necessità del mercato del lavoro nell’Ottocento richiesero in misura crescente
una manodopera femminile mobile e autonoma dalle famiglie e il lavoro
femminile si configura fin da subito come un ulteriore ambito di discriminazione:
la maggior parte delle donne dei ceti popolari lavoravano in attività che non
offrivano possibilità di carriera e soprattutto molto meno pagate rispetto a quelle
maschili. Le donne del ceto artigiano e mercantile invece svolgevano mansioni
più qualificate ma il loro apporto restava nascosto nell’azienda di famiglia o aveva
carattere sostitutivo. Stato civile e lavoro per le donne si configurava come
legame complesso: le nubili potevano lavorare a domicilio e abitare nella casa
padronale, permettendo così un controllo del loro comportamento, mentre
coniugate e vedove svolgevano altre attività, di solito di tipo commerciale, che
non dovevano entrare in conflitto con l’esercizio dell’attività maritale né con le
funzioni di cura della famiglia. Nei ceti sociali più deboli il lavoro femminile si
presentava come precario e non strutturato e assumeva la caratteristica più di una
strategia di sopravvivenza che di un vero e proprio mestiere
16
.
1.4 Le radici del controllo sul corpo femminile in era vittoriana
La dimensione del controllo sul corpo femminile è molto forte nell’Ottocento:
essa si esplica nell’abbigliamento, nelle modalità residenziali, ma soprattutto
nell’atteggiamento corretto di donna che veniva impartito alle bambine fin dalla
più tenera età tramite la cosiddetta “educazione alla purezza”. A metà Ottocento la
moda più di ogni altra cosa sottolinea lo status e quindi il modus vivendi delle
donne: le grandi dame devono distanziarsi il più possibile dalle donne di liberi
costumi e la discrezione diventa segno della vera eleganza e distinzione; in ambito
religioso ogni pezzo del vestito deve esprimere il simbolo mistico e lo spirito di
penitenza e la fanciulla deve essere un fresco giglio, una colomba che fa della
modestia la sua caratteristica
17
. Il secolo XIX è quello di un rigoglio inaudito della
biancheria intima femminile che esprime una preoccupazione quasi nevrotica di
coprire, avvolgere, nascondere; i principi della buona educazione confinano le
16
Palazzi (1997) pp. 131-134
17
Knibiehler in Duby, Perrot (1991) pag. 311
15
signorine in appartamenti scuri, senza aria, sole, esercizio fisico, curve sui lavori
di cucito; negli ambienti modesti invece vengono loro imposti molto presto i
lavori domestici o in campagna. L’igiene è scarsa perché lavare il proprio corpo
con troppo compiacimento è segno di libertinaggio. Un tale atteggiamento verso
le bambine era responsabile di malattie quali rachitismo, tubercolosi, deficienze
ossee, infezioni degli organi genitali
18
.
In era vittoriana nasce un filone di letteratura che nega addirittura l’appetito
sessuale femminile; secondo Acton, medico anglosassone molto letto, la sessualità
femminile è appagata dal parto e dalla vita familiare. Il moralismo vittoriano
diffida a tal punto del sesso da imporre una nuova concezione e una nuova pratica
dei rapporti sessuali: bisogna evitare fatiche allo sposo che deve risparmiarsi per
un lavoro produttivo e bisogna consacrare la sposa ai compiti materni e domestici.
Alle ragazze viene insegnato che pensare al sesso è peccato: ritardare il risveglio
del desiderio nascondendo tutte le realtà carnali del sesso è il modo migliore per
farle conservare illibate fino al matrimonio. La ragazza “pura” non deve sapere
niente e non deve sospettare niente, principi stretti regolano l’educazione virginale
della quale la madre è responsabile. Si suppone che dovesse essere la madre ad
avvisare la fanciulla dell’avvicinarsi del menarca ma poche madri osavano parlare
e questo fatto non stupisce se si pensa che anche loro erano state educate al
disprezzo del corpo e alla vergogna del proprio sesso. Analogamente le giovani
spose molte volte ignoravano cosa le attendesse nella vita coniugale. Nonostante
questo angelismo pervasivo comunque non si riuscì ad ottenere un ascendente
totale sulla vita delle giovani
19
.
1.5 Segni di emancipazione
Nonostante le molteplici discriminazioni subite, la donna trova l’appoggio
graduale nel tempo, di diverse “fratture” nel XIX secolo che ne favoriscono
l’emergere nello spazio pubblico e le rendono protagoniste.
18
Knibiehler in Duby, Perrot (1991) pag. 318
19
Knibiehler in Duby, Perrot (1991) pp. 322-325