7
lavoro, è che, malgrado le uniformità, le differenze territoriali e settoriali (e
talvolta sub-settoriali) sono determinanti. All’interno di un macro-settore
come quello dell’assistenza, ad esempio: il sub-settore della
tossicodipendeza presenta caratteristiche differenti da quello della salute
mentale, così come il settore della salute mentale di Napoli presenta
caratteristiche diverse da quello di Torino e le problematiche relative
all’erogazione di un servizio da parte di una cooperativa sociale
differiscono da quelle relative all’erogazione dello stesso servizio da parte
di un’associazione di familiari. Tali differenze, dunque, giustificano
l’elaborazione di politiche ad hoc promosse dalle pubbliche
amministrazioni periferiche, accanto a quelle di carattere più generale
predisposte dal governo centrale. Nel corso della trattazione che segue
cercheremo di argomentare questa tesi. Per rendere l’esposizione più chiara
ed avvincente utilizzeremo la metafora del duello: da un lato le politiche
economiche costruite in modo classico (politiche “dall’alto”), prescindendo
cioè dalla conoscenza del territorio e/o del sub-settore al quale sono
destinate, che relegano le amministrazioni periferiche al ruolo di “scudiero”
del governo centrale; dall’altro le politiche costruite dal basso, attraverso lo
studio dei casi concreti di successo che hanno avuto origine in un dato
contesto territoriale e settoriale, che puntano a ricreare i meccanismi che
hanno consentito il raggiungimento di un buon risultato, con le
amministrazioni periferiche nel ruolo di co-protagoniste al fianco degli
organi di governo centrali. A ben vedere, più che assomigliare ad un
singolar tenzone tra sfidanti in condizioni di parità, il duello in questione
sembra maggiormente assimilabile a quello tra i due celebri personaggi
biblici, Davide e Golia, nel quale, almeno in partenza, uno dei due
contendenti sembrava essere enormemente favorito rispetto all’altro,
all’apparenza più debole. Benché, infatti, sia possibile scorgere alcuni voci
dissonanti, soprattutto nell’ambito del terzo settore, fra gli studiosi continua
a prevalere una visione dei problemi economici “dall’alto”. In questo
8
capitolo iniziale, quindi, presenteremo innanzitutto lo scenario che abbiamo
scelto come sfondo per l’ipotetico duello: vale a dire i sistemi di welfare
delle economie avanzate, la crisi che li ha caratterizzati negli ultimi
trent’anni ed i processi di trasformazione avviati nel tentativo di porvi
rimedio. In secondo luogo, presenteremo i problemi particolari posti dal
welfare italiano, il movimento della cooperazione sociale – quale punta di
diamante del settore nonprofit del nostro paese – ed il banco di prova sul
quale si misureranno i due avversari: la definizione di un insieme di misure
per la creazione di un welfare più flessibile, più economico e
qualitativamente più soddisfacente, sfruttando il contributo che in tal senso
può derivare dai processi di privatizzazione e dalla partecipazione delle
organizzazioni nonprofit. Successivamente presenteremo il primo sfidante,
il “Golia” della politica economica, con l’illustrazione delle proposte
avanzate da due dei maggiori esperti delle tematiche riguardanti il welfare
ed il nonprofit in Italia. Infine, concluderemo il capitolo introducendo
l’altro sfidante, una politica disegnata seguendo l’approccio dal basso, la
cui identità sarà svelata gradualmente nel corso dei capitoli successivi.
9
1.2 LO SCENARIO: LE VIE D’USCITA DALLA CRISI
DEL WELFARE ED IL RUOLO DELLE
ORGANIZZAZIONI NONPROFIT
Il terreno sul quale avrà luogo il confronto tra le politiche costruite e gestite
dall’alto e quelle, viceversa, pensate e dirette dal basso è costituito dal
welfare. Forse mai come in questo momento storico si rende necessaria, in
tale settore, l’adozione di politiche di rinnovamento. Questo paragrafo ed il
successivo saranno dedicati, appunto, al chiarimento delle problematiche e
delle opportunità determinate dal diffondersi dei processi di privatizzazione
e della presenza delle organizzazioni nonprofit nei sistemi di protezione
sociale; problematiche ed opportunità che possono essere rispettivamente
affrontate e colte solo con l’adozione di politiche adeguate. Per affrontare
l’argomento ci serviremo di un contributo di Carlo Borzaga, che per la sua
sistematicità e completezza risulta molto utile ai nostri fini. Il contributo in
questione è: “Perché e come privatizzare i sistemi di welfare” incluso nel
volume “Nonprofit e sistemi di welfare” pubblicato nel 1996 dall’editore
Nuova Italia Scientifica. Il saggio è stato scritto dall’autore nel tentativo di
contribuire a colmare la lacuna creata dalla scarsa attenzione che gli
economisti hanno dedicato allo studio “delle condizioni necessarie affinché
le riforme, e in particolare il ridimensionamento del welfare state a favore
dell’ampliamento dell’intervento privato, non si traducano in un
peggioramento del livello di soddisfazione e di benessere dei
consumatori”
2
. Nel corso dell’esposizione, Borzaga cerca di fare chiarezza
sui diversi modelli di privatizzazione realizzabili e sulle condizioni che
bisogna garantire perché tali modelli possano fornire risultati accettabili e
consentire l’effettivo superamento dei fattori che hanno determinato la crisi
dei sistemi di welfare delle economie occidentali. Questi sistemi, infatti, –
ribadisce l’autore in apertura riprendendo i risultati di altre indagini
3
– a
2
In “Nonprofit e sistemi di welfare”, 1996, Nuova Italia Scientifica, pag. 47
3
Malinvaud (1995) Is the European Welfare State Unsustainable?, paper presentato alla
conferenza su Equity, Efficiency and Growth: The Future of Welfare state, Roma, luglio,
10
partire dagli anni ’70 sono entrati in crisi e non sono riusciti più a garantire
il corretto svolgimento delle funzioni
4
ad essi deputate. Tale situazione ha
determinato il sorgere di critiche soprattutto dagli ambienti di destra, ma
anche da quelli di sinistra
5
, che si sono concentrate soprattutto su quattro
aspetti:
1. la presunta insostenibilità economica dei sistemi di welfare;
2. la loro inefficienza;
3. l’incapacità di disincentivare i comportamenti opportunistici;
4. il fallimento dei meccanismi redistributivi
6
.
e ora in M. Baldassarri, L. Paganetto, E. S. Phelps (a cura di) (1995), Equità, Efficienza e
crescita: il futuro del welfare state, Sipi, Roma; e Barbetta (a cura di), 1996, “Senza scopo
di lucro. Dimensioni economiche, storia, legislazione e politiche del settore nonprofit in
Italia”, il Mulino, Bologna.
4
Ogni sistema di welfare svolge, con diversa intensità a seconda dei paesi, almeno tre
funzioni: una funzione redistributiva, una funzione assicurativa e una produttiva (o di
sostegno alla produzione).
a. La funzione redistributiva si concretizza soprattutto in trasferimenti monetari e in
erogazioni di servizi a favore dei gruppi di cittadini con livelli di reddito inferiori o
vicini alla soglia di povertà (anziani non adeguatamente protetti dal sistema
pensionistico, famiglie monoreddito, persone impossibilitate a garantirsi un reddito
attraverso la partecipazione ad un’attività lavorativa, etc.).
b. La funzione assicurativa comprende le azioni pubbliche volte a garantire i cittadini
contro alcuni rischi: la possibilità di perdere il posto di lavoro (i sussidi di
disoccupazione), la malattia (l’assicurazione sanitaria) e la possibilità che il reddito
accumulato durante la vita lavorativa non sia sufficiente a garantire adeguati livelli di
consumo dopo il ritiro dal lavoro (i sistemi pensionistici).
c. La funzione produttiva comprende la produzione pubblica diretta e gli interventi di
sostegno alla produzione privata di determinati beni e servizi. L’intervento a sostegno
della produzione può assumere le forme del contributo diretto alle unità di offerta
private, del sostegno ai consumi o della regolamentazione dell’attività di produttori e
consumatori.
5
Si veda a tal proposito: Hirschman, “Lo Stato sociale in difficoltà: crisi sistemica o mal
di crescita?”, in “L’economia politica come scienza morale e sociale”, a cura di Luca
Meldolesi, Liguori editore 1987; e Barbetta opera cit.
6
Le critiche sulla presunta insostenibilità economica partono dall’osservazione della
costante crescita che il rapporto tra spesa pubblica per il welfare e Prodotto Interno Lordo
ha fatto registrare in tutti i sistemi economici occidentali negli ultimi trent’anni. Questo
aumento non implica di per sé l’insostenibilità della spesa, ma richiede che una quantità
sempre maggiore di risorse pubbliche venga distolta da altri usi e destinata al
finanziamento di tale aumento di spesa. Questa scelta, però, incontra l’opposizione dei
consumatori, i quali non sono più disposti a tollerare aumenti di tasse a fronte della bassa
qualità dei servizi erogati. Quest’ultima osservazione ci porta al secondo gruppo di
critiche riguardanti l’inefficienza dei sistemi di fornitura di beni e servizi. Queste critiche
pongono l’accento sulla mancanza di competizione che provoca la tendenza dei servizi
pubblici ad essere poco flessibili (in termini di orari, di capacità di adattarsi alle esigenze
11
Per rispondere alla crisi i governi delle economie occidentali – osserva
Borzaga – hanno adottato varie strategie
7
e spesso, anche se non
esclusivamente, hanno ampliato gli spazi dell’azione privata profit e
nonprofit; hanno cioè dato luogo a processi di parziale o totale
privatizzazione di alcune funzioni del sistema. A partire dall’osservazione
di tali politiche, quindi, Borzaga costruisce una tipologia dei processi di
privatizzazione e dei modelli che combinano tali processi e osserva che, per
il successo di ciascun tipo di modello, è necessario il verificarsi di almeno
due condizioni. La prima è un’offerta privata di servizi sufficientemente
sviluppata, che consenta di soddisfare il volume della domanda garantendo
al contempo un’elevata concorrenza e un ampliamento del campo di scelta
del consumatore; la seconda è l’esistenza di una pluralità di forme
organizzative e, in particolare, la presenza di organizzazioni nonprofit.
Quest’ultima condizione è necessaria perché: “Il passaggio della
della domanda, etc.), molto burocratizzati e spesso anche di scarsa qualità. Il terzo
insieme di considerazioni critiche, invece, sottolinea le difficoltà dei sistemi di welfare a
tenere sotto controllo i comportamenti opportunistici dei beneficiari degli interventi e dei
soggetti che gestiscono i sistemi nelle sue diverse componenti. Il quarto gruppo di critiche
riguarda, infine, il fallimento dei meccanismi redistributivi: molti servizi pubblici, offerti
gratuitamente o a prezzi inferiori ai costi per permettere la soddisfazione dei bisogni
fondamentali e la pari opportunità tra cittadini, sono stati di fatto utilizzati
prevalentemente dalle classi sociali con redditi medio-alti; quasi solo queste ultime
dispongono, infatti, delle informazioni o dei mezzi necessari per superare gli ostacoli
all’accesso a molti di questi servizi.
7
Le strategie attuate in risposta alla crisi non hanno riguardato solo le privatizzazioni ma:
a. hanno reso selettivi alcuni interventi, ridimensionato alcune delle funzioni svolte e
cercato di aumentare l’efficienza del sistema per ridurre il livello o almeno i tassi di
incremento della spesa pubblica (e di conseguenza i livelli di tassazione);
b. hanno cercato di aumentare l’afflusso di risorse dal settore privato per la produzione
dei servizi di welfare in modo da consentire una progressiva riduzione dell’intervento
pubblico, senza con ciò determinare una riduzione del benessere;
c. hanno cercato di accrescere la qualità dei servizi aumentando il livello di concorrenza
tra le unità erogatrici;
d. hanno modificato il sistema degli incentivi che è all’origine dei comportamenti sia dei
soggetti beneficiari, sia di coloro che gestiscono il sistema al fine di ridurre
l’opportunismo. L’introduzione di tariffe per usufruire di determinati servizi, la
riduzione dei benefici garantiti dalle forme di assicurazione contro la disoccupazione
e l’introduzione di vincoli di bilancio sempre più stringenti agli enti pubblici
erogatori, sono alcuni esempi di tali modifiche.
12
produzione di beni meritori
8
da unità di offerta pubbliche a unità private
solleva il problema del fallimento del contratto…[e] poiché è dimostrato
che le organizzazioni nonprofit sono meno soggette a questo tipo di
fallimento, la loro presenza è indispensabile per garantire l’efficienza e
impedire la riduzione del livello di benessere. Inoltre, esse, godendo
maggiormente della fiducia dei potenziali donatori, sono in grado di attirare
risorse finanziarie [private] attraverso meccanismi diversi dalla vendita dei
servizi”. A sostegno della necessità della presenza di organizzazioni
nonprofit fra le unità di offerta, dunque, l’autore richiama la teoria del
fallimento del contratto in presenza di asimmetria informativa
9
. La seconda
argomentazione che Borzaga adduce per giustificare una particolare
attenzione alla presenza di organizzazioni nonprofit fra gli offerenti, invece,
é la loro capacità di mobilitare risorse volontarie
10
. Le organizzazioni
nonprofit sono necessarie, in definitiva, perché garantiscono una maggiore
tutela del consumatore e contemporaneamente un afflusso di risorse private
nel sistema di welfare.
Riepilogando, dall’analisi di Borzaga si ricava che per uscire dalla crisi è
utile ricorrere ad un ampliamento degli spazi d’azione per le unità private
profit e non (anche se questa non deve costituire l’unica strategia di riforma
8
Si intendono per beni meritori quelli distribuiti in una comunità sulla base di
considerazioni normative del decisore pubblico e non prodotti sulla base delle preferenze
singolarmente espresse dai consumatori così come invece avviene per i beni di mercato
9
Secondo tale teoria alcune categorie di beni e servizi, tra cui quelli di welfare, sono
caratterizzati dalla presenza di asimmetria informativa, cioè di una sproporzione di sapere
tra produttore e consumatore tale da porre quest’ultimo nell’impossibilità di valutare la
qualità del servizio del quale usufruisce. La presenza di queste asimmetrie
determinerebbe il fallimento del contratto in quanto non entrambe le parti, a transazione
avvenuta, giungerebbero ad una posizione migliore di quella precedente allo scambio, ma
solo il produttore che, agendo sotto il vincolo della massimizzazione del profitto, sfrutta
l’asimmetria in suo favore riducendo la qualità del servizio per incrementare il suo
guadagno. Non potendo distribuire gli utili, invece, l’impresa nonprofit non avrà interesse
a massimizzare il profitto a scapito della qualità e, quindi, non sfrutterà a suo favore
l’asimmetria informativa.
10
Borzaga si sofferma, in particolare, sulle risorse volontarie finanziarie (donazioni) che
andrebbero incontro alla necessità di introdurre capitali privati nel sistema di welfare per
ridurre l’intervento dello Stato senza ridurre il livello di benessere. In realtà, le
organizzazioni nonprofit riescono a mobilitare anche risorse volontarie lavorative
(volontariato), riducendo così anche i costi di erogazione dei servizi.
13
perseguita – cfr. nota 7 di questo capitolo), a patto che al contempo siano
promosse politiche di sviluppo per potenziare l’offerta privata e sia
garantita ed incentivata la presenza di organizzazioni nonprofit fra le unità
erogatrici. Proseguendo nella costruzione della nostra metafora, con questa
breve descrizione delle cause della crisi del welfare state e dei processi di
rinnovamento in atto, possiamo dire di aver completato la preparazione dei
fondali del palcoscenico dove avrà luogo l’ipotetico duello. Restano ancora
da definire, però, alcuni dettagli di scena che possono mutare non di poco
l’effetto finale per lo spettatore. Con il paragrafo seguente, cercheremo
appunto di definire tali importanti dettagli spostando la visuale sul
panorama italiano.
14
1.3 IL NONPROFIT ITALIANO E LA COOPERAZIONE
SOCIALE
Anche in Italia, come negli altri paesi occidentali avanzati, a partire dalla
fine degli anni ’60 il sistema di sicurezza sociale ha denunciato
malfunzionamenti sempre più gravi, assimilabili a quelli evidenziati nel
paragrafo precedente. In più, soprattutto nel Sud-Italia, la crisi ha assunto
connotazioni particolari legate alle vicende economiche e politiche che
hanno segnato la storia di quest’area del paese. Scrive il prof. Enrico
Pugliese, ordinario di sociologia all’università di Salerno, commentando la
prima riforma sanitaria varata in Italia con l’emanazione della legge n.833
del 1978 che sanciva la nascita del Servizio Sanitario Nazionale e delle
unità sanitarie locali:
“L’unità sanitaria locale [introdotta dalla riforma] è vista e percepita da chi la
gestisce e da chi ne cura l’istituzione fin dall’inizio (ma anche da chi vive nel
contesto in cui la U.S.L. opera), come una grande occasione di impiego più che
come un servizio: è chiaro che si stabilisce un intreccio di rapporti politici e di
controllo sociale che diventa un elemento di denaturazione della istituzione
deputata alla difesa della salute… In altri termini, [ la riforma sanitaria come]
qualunque intervento dello Stato viene letto e percepito come un’occasione di
lavoro da una parte e come possibilità di gestire il potere attraverso la distribuzione
di nuovi posti di lavoro dall’altra… vi è quindi un intreccio di situazioni
economiche: la mancanza di opportunità d’impiego; e un intreccio di situazioni
politiche: la volontà e la tendenza a controllare il nuovo flusso di risorse e, dunque,
a sviluppare un controllo economico, politico e di riproduzione del potere.”
11
.
Ricerche più recenti del prof. Meldolesi, ordinario di politica economica
presso l’Università di Napoli, hanno messo in luce, inoltre, che questa sorta
di scambio tra ceto politico e società civile è stato alimentato non solo dalla
mancanza di opportunità d’impiego, ma anche dalla propensione dei
giovani meridionali a prediligere il posto pubblico, sicuro e
sufficientemente remunerato, che affonda le sue radici nella storia del
Mezzogiorno italiano
12
. Queste dinamiche perverse descritte dal prof.
11
In “La riforma psichiatrica del 1978 e il meridione d’Italia”, CNR, progetto finalizzato
medicina preventiva, Il Pensiero Scientifico Editore, 1983, pag. 41
12
Vedi Meldolesi, “Spendere meglio è possibile”, 1992, Il Mulino, Bologna; e “L’elevata
mobilità del lavoro nel Mezzogiorno della speranza”, in “Dalla parte del Sud”,
Meldolesi, 1998, Laterza, Roma-Bari.
15
Pugliese e dal prof. Meldolesi costituiscono, quindi, un fattore di crisi
caratteristico del welfare italiano e soprattutto delle aree poco sviluppate del
Sud, del quale bisogna tener conto nel progettare le politiche di riforma
sanitaria e del welfare in generale. Come emergerà anche dall’analisi svolta
nel quarto capitolo, infatti, l’intreccio perverso di fattori politici e sociali
può determinare forti ritardi e notevoli distorsioni, che incidono
negativamente sullo sviluppo dell’offerta privata e, in particolare, sullo
sviluppo dell’offerta degli enti nonprofit.
Accanto alla crisi del welfare, in Italia, al pari di quanto avvenuto in altri
paesi occidentali, si è avuta una forte crescita del settore nonprofit. Secondo
alcune recenti ricerche
13
, all’inizio degli anni ’90 tale settore occupava
400.000 unità equivalenti a tempo pieno (escludendo i volontari),
contribuendo all’1,3% dell’occupazione complessiva, con una crescita nel
corso degli anni ’80 del 38,9%, contro un aumento dell’occupazione
complessiva del 7,4%. Uno dei comparti più dinamici del settore nonprofit
italiano, durante gli anni ’90, è stato quello delle cooperative sociali, che nel
1997 risultavano essere 3.857, con un fatturato consolidato di 2.500 miliardi
e con un’occupazione complessiva di 33.410 unità
14
. La rapida crescita del
sub-settore
15
è testimoniata dalla Figura n.1.
13
Le ricerche alle quali ci si riferisce sono: Borzaga, 1991, “The Italian Nonprofit Sector:
An Overview of an Undervalued Reality”, in “Annales de l’Economie Publique, Sociale et
Cooperative”, 62; e Barbetta (a cura di), 1996, “Senza scopo di lucro. Dimensioni
economiche, storia, legislazione e politiche del settore nonprofit in Italia”, il Mulino,
Bologna.
14
I dati sono ricavati da “Imprenditori sociali – secondo rapporto sulla cooperazione
sociale in Italia”, a cura del CGM, 1997, Edizioni Giovanni Agnelli.
15
Viene utilizzato il termine sub-settore per evidenziare che le cooperative sociali
costituiscono solo una parte del più ampio settore nonprofit che, sorvolando le ambiguità
definitorie che ancora caratterizzano la legislazione italiana, include anche: associazioni,
fondazioni, Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza (IPAB), e volontariato. Si
veda in proposito Barbetta (a cura di), 1996, “Senza scopo di lucro. Dimensioni
economiche, storia, legislazione e politiche del settore nonprofit in Italia”, il Mulino,
Bologna.
16
In tre anni, dal 1993 al 1996, il numero di cooperative sociali operanti in
Italia è quasi raddoppiato. In principio, esse sono sorte grazie alle iniziative
pioneristiche di alcuni gruppi di volontariato, che per dare un carattere di
maggiore sistematicità al proprio intervento a favore di alcune fasce deboli
della popolazione (anziani, disabili, minori a rischio, etc.), hanno assunto la
forma giuridica di cooperativa, non essendo stata ancora creata la categoria
di cooperativa sociale introdotta solo successivamente dalla legge n. 381 del
1991. Con questa legge, il legislatore ha dato dignità giuridica ad una
situazione di fatto già esistente da qualche anno ed ha creato ufficialmente
il soggetto giuridico cooperativa sociale il quale: “Ha lo scopo di perseguire
l’interesse generale della comunità alla promozione umana e
all’integrazione sociale dei cittadini”
16
. Le cooperative sociali, in base
all’articolo 2 della legge 381/91, possono svolgere due tipi di attività: 1)
l’erogazione di servizi socio-sanitari ed educativi (cooperative di tipo A o di
servizio); 2) l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati (cooperative
di tipo B o di inserimento lavorativo). Dal Secondo rapporto sulla
cooperazione sociale, edito dal Consorzio di cooperative sociali Gino
Mattarelli nel 1997, risulta che delle 3.857 cooperative operanti in Italia, il
16
Articolo 1 della legge n.381 del 1991.
2126
2330
2834
3857
0
500
1000
1500
2000
2500
3000
3500
4000
1993 1994 1995 1996
Figura 1. La cooperazione sociale in Italia, 1993-96 (valori
assoluti)
17
60% appartiene alla categoria A, il 30% appartiene alla categoria B e il
restante 10% è costituito da cooperative miste.
Le cooperative sociali e, in particolar modo quelle di tipo A, si sono
sviluppate ed hanno consolidato la propria struttura finanziaria grazie alla
collaborazione sempre più stretta con gli enti della pubblica
amministrazione. In un saggio incluso nel Secondo rapporto sulla
cooperazione sociale, Gianluca Marocchi ripercorre tale singolare processo
di sviluppo che ha portato questi enti nonprofit ad intensificare sempre più
la collaborazione con la pubblica amministrazione
17
. Dall’analisi di
17
Egli individua tre fasi tipiche del rapporto. In una prima fase la cooperativa esercita
pressioni per segnalare situazioni di bisogno, sperimenta interventi innovativi per dare
risposta a tali situazioni e cerca di ottenere un sostegno dalla pubblica amministrazione.
Nella seconda fase, che Marocchi chiama «epoca delle convenzioni», la pubblica
amministrazione riconosce che il servizio offerto dalla cooperativa sociale è a tutti gli
effetti parte di una politica pubblica. Crescono, inoltre, gli importi corrisposti dall’ente
pubblico a fronte dell’erogazione del servizio e, dato che in un ogni territorio vi è in
genere un’unica cooperativa che ha proposto e realizzato un servizio assolutamente
innovativo, non erogato fino a quel momento da nessun altro ente, appare naturale
affidargliene la gestione senza indire competizioni allargate.
Nella terza fase, che Marocchi denomina «era degli appalti», non ancora iniziata in tutte
le regioni, la maggior parte dei servizi erogati dalle cooperative sociali – educativa di
strada, centri diurni, comunità alloggio, centri socio-educativi e così via – non costituisce
più un’innovazione. Non è più così facile, di conseguenza, affermare che un certo tipo di
servizio sia peculiare di un solo specifico soggetto privato, essendo presenti sul territorio
più soggetti che erogano da più anni gli stessi servizi e che possono ragionevolmente
proporsi per effettuarli. In questa fase, quindi, la pubblica amministrazione tende a
ricorrere a procedure concorsuali aperte ed a criteri di valutazione che non offrano il
fianco ad accuse di parzialità o arbitrarietà: in altre parole, appalti in cui il prezzo assume
un peso determinante. Nell’era degli appalti, infine, aumenta la propensione degli enti
locali ad esternalizzare i servizi alla persona ricorrendo alle cooperative sociali (i
corrispettivi pagati sono dell’ordine di alcuni miliardi o decine di miliardi nei comuni
maggiori), ma, in molti casi, le cooperative perdono quella fantasia innovativa nel
rispondere ai bisogni del territorio che le aveva caratterizzate nelle fasi precedenti,
sostituita dal tentativo di uniformarsi alle richieste, ai criteri, alle priorità ed ai formalismi
della pubblica amministrazione. Marocchi continua osservando che tuttora si è nella fase
dell’era degli appalti, anche se emerge la volontà delle cooperative sociali più
lungimiranti di impostare un più diretto rapporto con il cliente privato. Questo proposito
nasce dall’esigenza di sottrarsi ai fattori di rischio e di complicazione del lavoro che
derivano dalla collaborazione con la pubblica amministrazione: i problemi di
burocraticità, i ritardi nei pagamenti, i prezzi eccessivamente bassi, l’esposizione al
rischio delle gare, ne costituiscono solo alcuni esempi. Ma, “L’impressione” – conclude
l’autore – “è che l’era del privato debba ancora venire… perché non sono ancora diffusi
gli strumenti in grado di consentire un’offerta sul mercato privato che non sia spazzata
via dalla diffusione delle prestazioni «in nero»”.
18
Marocchi emerge che, laddove i rapporti di collaborazione con gli enti
pubblici sono stati avviati da più tempo, le cooperative sociali hanno
gradualmente perduto la spinta innovativa che le aveva caratterizzate negli
anni precedenti, a causa dei vincoli, spesso asfissianti, imposti dalla
collaborazione con la pubblica amministrazione. Si afferma, quindi, nelle
cooperative più avvedute, l’intenzione di emanciparsi dai finanziamenti
pubblici rivolgendosi direttamente ai cittadini ed alle famiglie. Secondo
Marocchi, però, quest’ulteriore evoluzione non sarà possibile in mancanza
di adeguate politiche pubbliche di sostegno alla produzione e di stimolo alla
domanda privata.
In conclusione, accanto alle strategie di privatizzazione e alla necessità di
politiche di sviluppo per l’offerta privata e per le organizzazioni nonprofit,
dall’analisi del welfare e del nonprofit italiano due nuovi elementi
sembrano aggiungersi al nostro scenario: 1) la presenza di fattori territoriali
distorsivi di natura sociale, economica e politica dei quali bisogna tenere
conto nel progettare le politiche economiche e 2) l’esigenza di mettere a
punto opportune misure di sostegno per una delle più effervescenti
categorie di enti nonprofit ultimamente affermatasi in Italia: le cooperative
sociali.